Il processo era già iniziato da tempo ma la quarantena l’ha accelerato. Nel mondo online la visibilità sarà sempre più legata alla credibilità e all’autenticità. E lo status animae conterà più dello status symbol

Cosa resterà della sbornia di webinar, dirette su Instagram, workshop su Zoom cui tante realtà del mobile si sono affidate per non spezzare il filo con il proprio pubblico che rischiava di andare reciso di netto dall’emergenza sanitaria? E, soprattutto, questo filo diretto è destinato davvero, oltre che a durare, ad avvicinare il mondo del progetto agli appassionati, ai clienti di sempre e ai nuovi?

La nuova sfida della comunicazione: la scommessa del vero

Se c’è chi sospetta che la pandemia abbia messo il design a un bivio, Francesco Morace ne fa, invece, una certezza: “Mai come adesso la comunicazione affronterà la grande scommessa del ‘vero’”, sostiene il sociologo visionario e presidente di Future Concept Lab. “Per la verità si tratta di un fenomeno già in atto prima di questa pandemia, anche se purtroppo ancora minoritario. Si era iniziato a capire che la visibilità non è più così decisiva se poi non si è credibili. C’è un rapporto molto delicato tra quello che comunichi e quello che veramente fai, tra storytelling e storydoing. Devi fare ciò che racconti e raccontare ciò che fai, altrimenti erodi il tuo patrimonio di credibilità”. Come dire che non basta una diretta su Instagram se poi, spente le telecamere, si torna ai meccanismi di sempre.

Raccontare le persone in contesti non patinati

“Se l’obiettivo è entrare nelle case delle persone, noi abbiamo iniziato a farlo in tempi non sospetti”, dice Carlo Urbinati, fondatore di Foscarini. L’ultima iniziativa del marchio veneziano di illuminazione, celebre per le campagne ispirate e poetiche affidate a creativi di rango, si chiama Vite, ed è realizzata dal fotografo e videomaker Gianluca Vassallo con lo scrittore Flavio Soriga. I due hanno viaggiato insieme tra Napoli, New York, Shanghai, Copenhagen e Venezia per documentare con parole e immagini le vite di chi ha scelto una lampada Foscarini per la propria casa. “Ma attenzione” spiega Urbinati, “la scelta è stata proprio quella di andare a ritrarre e raccontare persone e case vere, non contesti patinati. Non abbiamo allestito set ma scelto situazioni reali, che spesso il mondo del design rifiuta o guarda in maniera snob. Abitazioni con mobili e oggetti non sempre esteticamente apprezzabili, o addirittura neanche funzionali, che però portano con sé il segno delle vite di chi le abita”.

Un cambio di prospettiva che dalle campagne di comunicazione potrebbe arrivare fino a quelle pubblicitarie e oltre? “Diciamo che per Foscarini è fondamentale spostare il punto di vista. Non ci interessa raccontare le nostre luci costruendo intorno scenari controllatissimi in cui, peraltro, non si capisce quale è il prodotto centrale, se la lampada, il tavolino o il divano. Credo che il design debba guarire da questo senso di insicurezza che traspare dall’allestimento di scene perfette. Una perfezione che le centinaia di videointerviste trasmesse in tv o sul web in questi mesi ci hanno dimostrato essere irreale. In compenso è aumentata nelle persone la consapevolezza di essere insoddisfatti dei propri spazi: le nostre case hanno evidenziato limiti che per il design diventano opportunità. Per questo motivo, a maggior ragione bisogna entrare in sintonia con il sentimento diffuso, sapendo anche che per un po’ di tempo la disponibilità economica delle persone sarà ridotta e chi potrà spendere pretenderà il massimo. Credo che davvero dovremo tutti diventare più umani”.


Viene prima la comunicazione o il prodotto?

Umanesimo e storia personale sono da sempre i concetti chiave del modo di comunicare di Antonio Aricò, designer che alla storia di famiglia, in particolare a quella del nonno falegname, attinge per uno storytelling che l’anno scorso è diventato un biopic emozionante, Le radici e le ali. Un film per mettere insieme artigianato e industria, Calabria e Milano, anima e prodotto, lontano ma complementare agli scenari più glamour: “La comunicazione nel design stava già cambiando, la pandemia ha semplicemente accelerato l’evoluzione in corso” dice Aricò. “Chi prima non aveva il tempo di capire i meccanismi di Instagram e le potenzialità dei social, in questo periodo si è dedicato a comprenderli e le aziende e i brand adesso sono lì, a provare a cogliere la palla al balzo”.

Nel mondo di Aricò i social non sono il fine, ma il mezzo, in una logica rovesciata in cui è la comunicazione, più che il prodotto, il vero driver. “Nei prossimi mesi vivremo una accelerazione di questo processo: si partirà dalla comunicazione e andando a ritroso si risalirà al progetto. Si progetterà partendo dalla costruzione della storia, come se il brief partisse dal finale del film e non da un brainstorming burrascoso. Tutto ciò grazie al nostro essere digitali, alla velocità con cui siamo abituati a fruire immagini, notizie e informazioni”.

Il rischio che il meccanismo sfugga di mano è però reale. “Certo, dietro l’angolo si nascondono pseudo-designer portavoce di uno pseudo-modernismo. Tanti anni fa da studente mi aveva incuriosito la previsione di questo grande momento storico che sarebbe arrivato dopo il post-post-modernismo. Oggi la realtà raccontata sui social o mandata in streaming e che ha a che vedere con i processi della creatività è spesso una pseudo-realtà, ma la domanda è: cosa vogliamo raccontare? Chi è il nostro pubblico? Veramente il marketing di noi stessi deve essere alla base delle nostre ambizioni progettuali? Mio nonno fa parte di quella generazione che ha vissuto il vero storydoing, spesso racconto la sua storia di artigiano perché ha il fascino delle storie vere.

L'era dello storydoing

Oggi invece ci sono sempre più doingstories, e non nego che io stesso (in modo consapevole) riesco a farmi incuriosire anche dalle storie 'inventate’ o studiate a tavolino. In fondo ‘inventare delle storie’ e non dei prodotti è un nuovo modo di fare prodotto, la storia è il vero prodotto forse perché l’era del prodotto è veramente finita”. Allora le aziende del design si metteranno a vendere libri, documentari, film, palinsesti per i social? “Forse” continua il designer “arriveremo presto nell’era del metadesign, di tutto ciò che va oltre l’oggetto, il mobile, il decoro e l’estetica. Sicuramente ci si dovrà reinventare, perché il nostro core business non potrà a lungo basarsi sulla materia, ma dovrà spostarsi sul pensiero. Reale? Inventato? L’importante è che diventi prioritaria l’elevazione del nostro ‘status animae’ e non del nostro status symbol”.

Mai come adesso la comunicazione affronterà la grande scommessa del ‘vero’"

Antonio Aricò, intervista, 2016