Inondazioni, innalzamento delle acque, fenomeni meteo estremi. Mentre la natura cambia inesorabilmente, c’è chi progetta città dove convivere con i nuovi cicli del mare e dei fiumi

A Banda Aceh, all’estremo nord dell’isola di Sumatra, il Museum Tsunami Aceh progettato da Ridwan Kamil è una delle attrazioni principali. È un edificio interessante, dalla forma organica, sinuosa come un’onda che si avvolge su se stessa. Non è uno sfizio estetico. Il museo tenta infatti di ricreare la sensazione di misteriosa minaccia dei minuti prima dell’arrivo dell’onda che nel 2004 spazzò via la città in pochi minuti: umidità, aria impregnata d’acqua, oscurità e il rumore irriconoscibile di un’onda alta 14 metri.

 

Banda Aceh fu la prima città investita dallo tsunami. L’unico edificio rimasto in piedi è la bianchissima e marmorea moschea di Baiturrahman. Percorrendone le strade, anche a chilometri di distanza dal porto, si inciampa nei segni lasciati a memoria di quello che può fare l’acqua quando diventa nemica. Una moto scaraventata su un albero, un autobus sul tetto di una casa, una chiatta di due tonnellate a sei chilometri dal porto, in mezzo ai campi.

 

Riprendere le fila di un sapere secolare condiviso e trasformarlo in una scienza futuribile è il compito che si stanno dando oggi gli urbanisti"

Uno tsunami è un evento imprevedibile e piuttosto raro. Ma tutti ormai sanno, anche alla luce del tanto parlare di Climate Change che troppa acqua (esattamente come troppo poca) significa morte e distruzione.

Sembriamo inermi davanti alla forza delle acqua ma è giusto ricordare che l’uomo ha le competenze per convivere felicemente con i cicli idrici, soprattutto grazie alla cultura agricola tradizionale e all’architettura. Riprendere le fila di un sapere secolare condiviso e trasformarlo in una scienza futuribile è il compito che si stanno dando oggi gli urbanisti.

“L'acqua è costantemente in movimento, attraversa i confini, nutre (e distrugge) la vita. Come si possono considerare insieme l'acqua e l'urbanistica in una cornice generativa che coinvolge una crescita economica, sociale, culturale?”. È la domanda che si pone Kate Orff, da sei anni alla guida di Water Urbanism, uno studio della Columbia University per la riprogettazione della relazione fra acqua e metropoli del global south. La risposta è ovviamente complessa, ma riguarda da vicino l’impegno dei governi, oltre a quello delle imprese private, e un approccio multidisciplinare che coinvolge anche politologi ed economisti, oltre a urbanisti e architetti.

È di fine agosto l’annuncio che lo studio BIG di Bjarke Ingels ha vinto il contest internazionale per la riqualificazione di venticinque chilometri di costa nel sud dell’isola di Penang, uno degli stati della Malesia. Il progetto di BIG per il governo di Penang, in collaborazione con Hijjas e Ramboll, propone una visione in cui esseri umani e natura coesistono, in uno dei luoghi con la maggiore biodiversità del pianeta. Una varietà e una ricchezza naturali favoriti dalla presenza pervasiva dell’acqua e da una civiltà che, come spesso accade, ha vissuto e costruito e prosperato sulle wetland, le ‘terre bagnate’.

Recentemente l’eccessiva urbanizzazione ha interrotto un equilibrio che durava da secoli. Il masterplan proposto per Penang si proietta nei prossimi dieci anni e ha l’ambizione di sperimentare un modo diverso di vivere fra terra e acqua grazie a un mosaico urbano di tre diverse isole. Funzioni sociali, mobilità, recupero delle risorse e gestione dei rifiuti sono parte del progetto che aspira ad essere uno degli esempi umanamente più avanzati di urbanizzazione ecologica, sostiene Bjarke Ingels.

“Quando abbiamo compreso la ricchezza naturale e umana di questa incredibile regione, siamo tornati in studio più umili e abbiamo riflettuto molto su come affrontare il progetto” racconta Jamie Larson, a capo del progetto BiodiverCity nella sede newyorchese di BIG. “La scelta era fra un intervento nel rispetto dell’ambiente o un progetto che moltiplica i benefici economici, ecologici e identitari della regione. Il declino della biodiversità e il cambiamento climatico ci obbligano a puntare alla crescita”, continua Larson. “La filosofia di BIG abbraccia la sostenibilità edonistica. Siamo convinti che non occorra rinunciare allo sviluppo per fare le scelte ambientali giuste. BiodiverCity creerà una città con una minore carbon print complessiva, migliori prestazioni ecologiche e maggiore ritorno finanziario”.

Le tre isole che compongono BiodiverCity riuniscono distretti ibridi e multifunzionali per 18.000 residenti, cadenzate da zone tampone verdi che connettono gli habitat e sostengono le ecologie sperimentali su tutto il territorio. Parchi, piazze, corridoi saranno teatro di un’abbondanza naturale che rispecchia la multiculturalità del luogo e le potenzialità di crescita economica e sociale malesi nel prossimo futuro. Nel rispetto della DNA locale: accanto al distretto turistico e a quello tecnologico, ci sarà anche una parte che sfrutta la presenza naturale della foresta di mangrovie per proteggere l’insediamento. Così come un quartiere dedicato alle infrastrutture dei pescatori e al loro accesso al mare.

Conclude Jamie Larson: “A parte le questioni logistiche e pragmatiche, c'è il tema della connessione emotiva fra esseri umani e acqua. Sul benessere di questo legame stiamo costruendo la spina dorsale del progetto, una parte di resilienza basata sulla sperimentazione di un ambiente coinvolgente e rispettoso di una coesistenza armoniosa con l’acqua e gli altri elementi naturali”.