Quando Expo ci chiese di lavorare al Future Food District – il distretto del futuro – accettammo la sfida con entusiasmo, ma anche con un po’ di imbarazzo. Profezie e fantascienza ci hanno sempre lasciati indifferenti. Cercare di prevedere il futuro è un esercizio spesso futile, che distoglie dall’oggi senza aiutarci realmente a capire meglio il domani. Pensate a quante profezie del passato sono rimaste lettera morta.

Oggi non possiamo che sorridere pensando alle macchine volanti e ai marciapiedi semoventi immaginati da Thomas Anderson a inizio Novecento, in una sua futuristica descrizione della vita metropolitana alla fine del ventesimo secolo. O ricordando le pillole nutritive liofilizzate auspicate da molti scienziati qualche decennio fa (la stessa Expo, dedicata al cibo nelle sue infinite varietà, ci ricorda quanto sia diverso oggi il nostro rapporto con l’alimentazione).

Le previsioni mancate sul futuro sono così numerose e pittoresche che in alcuni casi costituiscono un vero e proprio luogo narrativo: il paleofuturo. Come non cascarci dentro nell’affrontare il tema assegnatoci da Expo? Diceva Herbert Simon che “la scienza si occupa del mondo com’è, mentre il design esplora come potrebbe essere”. In questa definizione del design – inteso nell’accezione anglosassone di progetto – si intuisce un possibile, diverso rapporto col futuro.

Non l’inutile rincorsa della previsione, bensì un’occasione di sperimentazione per accelerare la trasformazione del presente. Qualcosa di simile all’idea di ‘anticipatory design’ – o progettazione preventiva – teorizzata nel ventesimo secolo dal grande inventore americano Buckminster Fuller e basata sull’“affrontare problemi esistenti attraverso l’introduzione nell’ambiente di nuovi manufatti”.

È proprio con questo approccio che ci siamo avvicinati al Future Food District. Stimolati da Coop Italia, partner di Expo determinato a far toccare con mano un’esperienza di acquisto reale, abbiamo cercato di sperimentare nuove interazioni tra le persone e i prodotti all’interno di un vero e proprio supermercato. Ci interessava in particolare il mondo delle informazioni: quella grandissima mole di dati di cui disponiamo oggi – a cui spesso ci si riferisce con il nome di Big Data – e che potrebbe innescare nuove dinamiche di consumo.

Ricordate il signor Palomar di Italo Calvino quando, immerso in una fromagerie parigina, ha l’impressione di trovarsi in un museo? “Dietro ogni formaggio c’è un pascolo d’un diverso verde sotto un diverso cielo (…) Questo negozio è un museo: il signor Palomar visitandolo sente, come al Louvre, dietro ogni oggetto esposto la presenza della civiltà che gli ha dato forma e che da esso prende forma”. Ecco, è stata questa una delle nostre ispirazioni: cercare di usare nuovi strumenti per permettere ai prodotti di raccontare le loro storie – e in ultima analisi per stimolare un consumo più informato e consapevole.

Gli articoli, esposti non su scaffali bensì su grandi tavoli come in un mercato tradizionale, ci raccontano la loro origine e le loro caratteristiche in modo immediato (sfiorandoli con la mano si attivano contenuti interattivi su grandi vele specchianti che li sovrastano). Una maggior tracciabilità dei prodotti permette anche l’instaurarsi di nuove relazioni tra le persone. Grazie alle maggiori possibilità di condivisione offerte dalle reti, perché non pensare al supermercato come luogo di scambio aperto a tutti?

Nel solco della tradizione cooperativa italiana, alcune aree saranno dedicate proprio ai micro-produttori, come l’associazione delle “Cesarine”, casalinghe che si propongono di “custodire e diffondere il patrimonio di sapienza, tradizione e cultura nascosto nelle mille ricette della nostra cucina regionale.” Insomma, una specie di condivisione dei prodotti alla Airbnb, in cui ciascuno può potenzialmente diventare sia produttore sia consumatore.

Alcuni aspetti del progetto avranno più successo, altri meno – lo scopriremo durante i sei mesi dell’Esposizione Universale. Ma questo ci sembra il fattore più interessante: sfruttare un grande evento per effettuare un esperimento insieme a decine di migliaia di persone. Un test da cui tutti impareremo molte lezioni, alcune delle quali potranno poi essere trasferite al mondo reale.

Se è vero, come diceva Alan Kay, che “il miglior modo per predire il futuro è inventarlo”, è fondamentale che architetti e designer partano da una sperimentazione condivisa – per costruire un futuro di cui tutti possiamo essere artefici.

di Carlo Ratti 

 

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Il Supermercato COOP all’interno del Future Food District aprirà contestualmente a Expo il 1 maggio 2015. Il rapporto tra progettazione e futuro sarà al centro di una retrospettiva sul lavoro dello studio di progettazione Carlo Ratti Associati presso lo spazio FMG di Milano (dal 13 Aprile). I temi legati ad architettura e partecipazione sono discussi nell’ultimo libro di Carlo Ratti e Matthew Claudel, Architettura Open Source (Einaudi).