Nato a Beirut, dove ha conseguito la laurea in architettura, William Sawaya opera su più fronti. Come designer per il marchio creato insieme a Paolo Moroni e per altre aziende; come architetto d’interni, progettando a livello internazionale sia spazi pubblici che prestigiose residenze private; infine anche come art director della Sawaya&Moroni
C’è chi antepone il comunicare al fare e chi, al contrario, lavora dietro le quinte disegnando pezzi icona. È il caso di William Sawaya, autore di noti prodotti della Sawaya&Moroni, l’azienda creata nel 1984 assieme a Paolo Moroni, con il quale dal 1978 divideva lo studio dove progettava architetture e raffinati interni privati e pubblici in tutto il mondo. Nato a Beirut da famiglia cristiana, ha conseguito la laurea in architettura con specializzazione in architettura d’interni. Nel corso degli anni si è costruito un’esperienza sfaccettata, operando anche come art director per la Sawaya&Moroni che vanta una rosa di collaboratori internazionali di prestigio, tra cui Zaha Hadid, Daniel Libeskind, Jean Nouvel, David Adjaye, Ma Yansong, Snøhetta, Jakob+Macfarlane, Dominique Perrault, Michael Graves, Mario Bellini, Massimiliano Fuksas, Ettore Sottsass, Ron Arad, Borek Sipek… Dell’architettura contemporanea sottolinea la difficoltà. “Oggi va di moda”, esordisce, “disegnare un guscio esterno architettonico che sia di grande effetto e definire successivamente, indipendentemente dalla struttura, la logica degli interni, con inevitabile e sostanziosa perdita degli spazi. Progettare gli interni significa creare superfici utilizzabili, volumi, luce, non vuole dire disporre arredi secondo uno stile e creare composizioni in grado di catturare il gusto del cliente. Questo è il mestiere di un arredatore. Fare un vero progetto d’interni è molto difficile. Io penso di saperlo fare bene. Sfrutto ogni centimetro dello spazio nel modo giusto. E gli arredi li collego alle caratteristiche dello spazio. C’è una differenza: l’architettura deve durare nel tempo. Un prodotto, invece, raramente diventa un classico, anche perché, purtroppo, è più legato alle tendenze”.

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Nato a Beirut nel 1948. Architetto e designer studia all' “Institut National des Beaux Arts” del Libano, dove si laurea in architettura nel 1973. A Parigi e Milano approfondisce gli studi e le esperienze nel campo del product design, dell'architettura e dell'arte. Nel 1978 si stabilisce in Italia e apre lo studio di progettazione. Nel 1984 fonda insieme con Paolo Moroni la Sawaya & Moroni Contemporary Furniture per la quale dirige e coordina le attività artistiche e progettuali. In seguito ha iniziato a disegnare, oltre che per Sawaya & Moroni, anche per altre società. Ha partecipato a varie mostre personali e collettive d'arte e di design.

Nel creare l’architettura di un interno quanto influisce la luce, sia naturale, sia artificiale?

Moltissimo. L’apporto della luce naturale deve essere studiato e stabilito in fase di progettazione; mentre il ruolo di quella artificiale deve essere studiato in funzione delle esigenze e delle abitudini delle persone che vi andranno a abitare.
Prima di progettare qualsiasi edificio o ambiente, ho bisogno di capire tutto del committente, dall’A alla Z: come vive, quali sono le sue abitudini, cosa gli piace e cosa non gli piace… Con il cliente faccio delle sedute lunghissime, quasi psicanalitiche.
Per la luce artificiale chiedo anche il supporto degli specialisti delle aziende d’illuminazione. Sono sempre aggiornato sulle nuove tecnologie, sulle qualità e tonalità delle luci. La scelta formale degli apparecchi è puramente di gusto.

Quando disegni un prodotto di arredo lo immagini in astratto, riferito a una tendenza e a una tua idea, oppure lo metti in relazione a un determinato spazio?

Lo penso come prodotto autonomo. Nei miei progetti di architettura gli arredi non sono necessariamente disegnati da me, anzi, i miei prodotti sono sempre poco presenti, più o meno rappresentano il 3% di quelli utilizzati. L’oggetto d’arredo deve vivere per conto suo, bello o brutto che sia, e possedere una sua autonomia espressiva. Tuttavia, mi può capitare di disegnare un pezzo speciale, che non esiste sul mercato, per un determinato contesto o una situazione fuori dalla norma. È cosi che abbiamo cominciato l’avventura di Sawaya&Moroni: arredi speciali per interni di prestigio.

Se ti chiedessi di definire lo stile dei tuoi progetti d’arredo?

Senza presunzione, li ritengo sensuali ed eleganti.

Cosa è per te la sensualità nel design? Un attributo che raramente si accompagna al design, indicato piuttosto come funzionale, ergonomico, concettuale, minimale…

Sono tutte caratteristiche importanti a cui aggiungerei la parte tattile che conferisce sensualità. È raro che io faccia un progetto che la gente non abbia voglia di toccare, accarezzare, quasi fosse un corpo umano. Vuol dire morbidezza, linee fluide. Significa che il prodotto sa suscitare il desiderio.

Qual è il tuo metodo e quali sono i tuoi riferimenti culturali per rendere desiderabile un prodotto?

Tantissimi e nessuno in particolare. Leggo in quattro lingue tutto ciò che mi interessa e mi incuriosisce. Credo di possedere il dono di osservare quando guardo e di ascoltare quando sento. È una dote legata alla mia sensibilità orientale innata, contaminata dall’esperienza maturata in 41 anni di vita in Italia.

Nei miei progetti di architettura gli arredi non sono necessariamente disegnati da me, anzi, i miei prodotti sono sempre poco presenti, più o meno rappresentano il 3% di quelli utilizzati."

Quanto conta la tua origine orientale rispetto a una consuetudine occidentale?

Non conta tanto, ma ci sono aspetti della mia personalità che appartengono all’Oriente. Il rispetto che nutro per le persone è una qualità molto orientale, così come il grande valore che attribuisco alla tradizione familiare.

Cosa pensi del design che insegue le tendenze?

Non mi dice niente. Anzi, direi che lo detesto. Il design non è la moda. La moda vive di cambiamenti stagionali, di tendenze. Il design di un prodotto, invece, deve durare, non solo per il colore, l’estetica, ma per la qualità del suo servizio. Seguire le tendenze significa cercare acriticamente il consenso per ottenere facili risultati commerciali e più like sui social.

I prodotti di design che durano nel tempo vengono considerati delle icone. Pensi di aver disegnato dei pezzi definibili tali? Se sì, qual è il tuo segreto per crearle?

Non esiste un segreto, una ricetta. Non pretendo di essere in grado di disegnare un’icona, ma vorrei tanto che almeno un mio pezzo rimanga nel tempo. Esistono dei presupposti per la creazione di un evergreen: l’innovazione tecnologica, formale e tipologica. Bisogna riuscire a disegnare un archetipo valido, e in questo caso può diventare una icona. Ritengo che almeno due miei prodotti possano essere definiti archetipici, sia per il materiale utilizzato, sia per la forma: la sedia Maxima – prima non esisteva una forma analoga realizzata in poliuretano – e anche la Fei Fei.

Oggi il design deve essere, prima di tutto, llifestyle e storytelling, come sostengono le aziende storiche. Cosa ne pensi?

Sono contrario alle terminologie. Il life style lo lascio fare ai bravi decoratori e ‘ensemblier’. Non mi interessa. Il mio obiettivo è progettare una buona architettura d’interni caratterizzante, in grado di vivere autonomamente a prescindere dai prodotto d’arredo. E, come titolare di un’azienda, cerco di creare dei prodotti in grado di avere una loro identità, indipendente dal contesto.

La tua figura è trina: architetto, designer e anche imprenditore. Come riesci a conciliare questi ultimi due ruoli?

Mi confronto con Paolo Moroni, lui è il cosiddetto avvocato del diavolo. Ma, prima ancora, cerco sempre di mettermi in discussione. Questa esigenza, da un punto di vista creativo, mi ha penalizzato. Un imprenditore che fa anche il designer per la propria azienda non è ben visto dal mercato. Credo che la self production costituisca un rischio, perché viene a mancare la dialettica con il produttore. Tuttavia io esercito quotidianamante il confronto, sia con me stesso, sia con i designer che lavorano per l’azienda. Il che equivale a un allenamento indispensabile per risolvere i problemi, anche miei. Mi stimola questa pluralità di ruoli, ma non pretendo di essere un maestro di vita. In qualche misura mi ha anche limitato. Avrei potuto disegnare per altre aziende, ma non l’ho mai fatto per deontologia professionale, con l’eccezione per qualche marchio che non produce arredi. Il fatto di disegnare prevalentemente per Sawaya& Moroni mi ha incollato addosso l’etichetta di designer d’arredi, mentre ritengo di essere un progettista in grado di affrontare varie tipologie di prodotto.

Non pretendo di essere in grado di disegnare un’icona, ma vorrei tanto che almeno un mio pezzo rimanga nel tempo. Esistono dei presupposti per la creazione di un evergreen: l’innovazione tecnologica, formale e tipologica. Bisogna riuscire a disegnare un archetipo valido."

Una tua valutazione sull’attuale design italiano e sul suo futuro?

In questo momento predominano due tipologie di designer, quelli che io chiamo gli ottimizzatori di idee altrui, che s’industriano a fare cose giuste per il mercato, spesso banali, e poi ci sono i designer/decoratori, di gran moda attualmente, capaci di mettere bene assieme arredi e colori. Sulla scena del design italiano vedo poca innovazione e poca tecnologia. Anche nell’area ‘calda’ del sostenibile e del rinnovabile non scorgo valide applicazioni, ma soltanto bellissimi slogan.

Perché è così difficile coniugare il buono con il bello?

Dovrebbero essere stabilite a monte delle norme politiche severe che impediscano lo spreco e l’uso indiscriminato di materie non rinnovabili. Per esempio, perché i supermercati continuano a vendere i prodotti confezionati nella plastica? Se ci fossero norme precise e precise indicazioni sui materiali sostenibili a disposizione, io, come tutti i designer, sarei obbligato ad attenermi a queste. Bisogna partire dalle materie e inventarne di nuove per creare un bello che sia anche etico.