La tipica lavorazione a impasto, di tradizione squisitamente italiana, trova inaspettate interpretazioni nell’estetica, nei processi produttivi e negli ingredienti che la compongono. In un’ottica di riuso e limitazione dello spreco, insita nella sua natura

Già nel I secolo d.C. i Romani combinavano frammenti di marmo e ceramiche rotte per creare superfici per pavimenti e marciapiedi. Era una delle prime forme di terrazzo, un materiale composito che oggi ritorna nella visione di designer intenti a cercare alternative resistenti e convenienti alla pietra solida. In parallelo a nuovi linguaggi estetici compaiono, a evocare la texture delle graniglie, materiali plastici di scarto, lavorati perfino con tecnologie robotizzate.

Il fenomeno riporta alla luce antiche lavorazioni artigiane di distretti produttivi legati al lapideo, di cui l’Italia vanta una lunga storia. È proprio queste radici che Alberto Bellamoli, designer veronese di stanza in Danimarca, ha voluto ritrovare.

“Il mio progetto è iniziato più che altro come ricerca antropologica sul contesto: la produzione si realizza da secoli nella stessa zona, in quanto il materiale necessita di una rete di piccole aziende che collaborano su tutta la catena manifatturiera. Il terrazzo è ancora un materiale artigianale con cui le persone si sporcano le mani. E il controllo sul processo produttivo è limitato: i risultati sono sempre leggermente fuori controllo. La serie Collecta presenta forme semplici, quasi archetipiche, che incorniciano l’essenza bi-dimensionale del terrazzo - da sempre lavorato in lastre piane - e ne mettono in evidenza lo schema ‘liquido’ e la natura intrinsecamente falsa”.

Anche il contenitore Dorsoduro, progettato da Antonio De Marco e Simone Fanciullacci per Secondome, ricerca la tridimensionalità e un utilizzo inedito del materiale, non più impiegato a pavimento o su rivestimenti piani. L’opera gioca sul contrasto tra le geometrie dello scheletro e il rivestimento in graniglia fine veneziana – prodotta dall’azienda Grandinetti – richiamando forme archetipiche della tradizione architettonica veneta.

 

Il furniture designer londinese Robin Grasby interpreta il terrazzo in modo artigianale con l’87% di materiali riciclati. Sfridi inutilizzabili dell’industria lapidea quali polveri, graniglie e lastre rotte sono legati con una piccola quantità (il 13%) di resina, creando una superficie resistente e a bassa manutenzione. Invece di imporre motivi geometrici, Grasby predilige una disposizione casuale dei pezzi in marmo, in grado di riflettere la naturale irregolarità della tessitura lapidea.

Si allontana dai classici schemi del terrazzo, pur preservandone le radici, il designer di Brooklyn Robert Sukrachand. Anziché frammenti di pietra, utilizza scarti di vetro provenienti da una sua collezione di specchi. Si tratta di un terrazzo ‘epossidico’, in cui al posto del cemento viene impiegata la resina come legante, miscelata con polvere di marmo per dare un aspetto opaco.

I pezzi colorati e anticati degli specchi sono tagliati in forme organiche a richiamare i frammenti di pietra. Infine, viene apposta una lucidatura a base di pasta di marmo che conferisce una finitura satinata. La collezione Mirazzo prende spunto dalle panchine di strada, i tavoli degli scacchi nel parco pubblico e gli sgabelli a tre gambe tipici di Bangkok, in omaggio alle origini della famiglia paterna del designer. Nasce così il Thai Terrazzo.

Il Silipol è il materiale che venne impiegato da Franco Albini e Franca Helg per rivestire le pareti della linea M1 della metropolitana milanese. Un prodotto industriale riciclabile, composto da sfere di granito, marmo e cemento pressati senza additivi sintetici, che è il protagonista degli arredi progettati da DWA (Frederik De Wachter e Alberto Artesani). “Lastre simili a quadri astratti, punteggiate di colori, una diversa dall’altra. Per molto tempo l’immagine di questo materiale è rimasta in un angolo della nostra mente”, raccontano i designer che poi incontrano Mariotti Fulget, l’azienda produttrice in esclusiva del materiale. Per Caffè Populaire di Alcova, DWA realizza un tavolo che reinterpreta la tradizionale palladiana, con lastre di due centimetri di spessore e i pezzi variegati di Silipol, mettendone in mostra la varietà cromatica e di texture. La versatilità intrinseca nel terrazzo suggerisce l’impiego, nel suo amalgama, di ingredienti alternativi, così come processi sperimentati per la produzione delle lastre, nell’ottica del minor spreco possibile.

La designer kazaka di stanza in Germania Enis Akiev propone piastrelle di plastica marina post consumo. Ne ha sviluppato il processo produttivo ispirandosi alla formazione delle pietre sedimentarie, dando origine a dei plastiglomerati: composti stabili in polimeri da imballaggio leggeri, con una struttura simile alla roccia e dall’aspetto naturale.

I giovani Marten van Middelkoop e Joost Dingemans fondano a Rotterdam nel 2018 l’azienda Plasticiet per ripensare il modo in cui viene percepita la plastica, trasformandola in una risorsa a livello locale. I pannelli da 800x800 millimetri sono infatti realizzati con aziende dei Paesi Bassi che dispongono di grandi impianti di triturazione. E il richiamo alla texture del terrazzo vuole evocare un materiale pregiato e durevole.

Infine, l’azienda di costruzioni tecnologiche olandese Aectual realizza pavimenti di grandi dimensioni in graniglie di marmo, con frammenti di diverse dimensioni, legati mediante resine a base biologica. Ma la novità sta nel processo: i pavimenti sono stampati in 3D da grandi bracci robotizzati. Tra i designer che hanno sperimentato questa tecnologia, Patricia Urquiola, Mae Engelgeer e DUS Architects. E una tecnica antica trova nella manifattura digitale un nuovo campo espressivo.