Il Museo ebraico di Berlino di Daniel Libeskind, inaugurato nel 2001, è senza dubbio una delle opere tra le più significative e intense dell’architetto americano, figlio di due ebrei polacchi sopravvissuti all’Olocausto. Il Museo, frequentato da più di 750.000 visitatori all’anno, ha visto crescere nel tempo le sue attività didattiche e formative, con il conseguente bisogno di spazi per personale ed eventi che necessariamente erano dislocati in vari punti della città, con una dispersione delle possibili sinergie.

L’occasione di riutilizzare e reinventare l’edificio prospiciente il Museo Ebraico, progettato da Bruno Grimmek tra il 1962 e il 1965 per accogliere il mercato dei fiori cittadino, ha consentito di riunire le strutture di servizio del Museo in un unico luogo, organizzando al meglio biblioteca e archivio, e creando una sala polivalente per spettacoli e conferenze. Daniel Libeskind si è confrontato in questo progetto con il costruito; ha scelto la strada di assumere il manufatto urbano come risorsa con cui relazionarsi piuttosto che come ‘ingombro’ funzionale da sostituire con un nuovo edificio.

Il risultato dell’Accademia del Museo Ebraico è quello di un dialogo e di un riuscito innesto compositivo all’interno di quello che da semplice ‘edificio di servizio’ si è rivelato un’architettura di una certa qualità (come lo sono molte di questo tipo), in grado di accogliere nuove funzioni e figure, sotto la forte copertura, scandita da settori bombati paralleli a shed, composta da elementi prefabbricati di cemento grigio.

La struttura modulare del mercato dei fiori, rimasta nelle sue forme originarie, è segnata nel fronte d’ingresso da un cubo inclinato rivestito in doghe lignee, una pelle architettonica che sembra ricordare i vagoni ferroviari in cui gli ebrei erano stivati per raggiungere i campi di sterminio. La geometria del nuovo volume si innesta sfondando la facciata dell’edificio per organizzare il percorso d’ingresso in diagonale, tra due pareti inclinate a specchio che incorniciano sul fondo il primo edificio storico che compone il complesso del museo.

Nell’interno, subito dopo l’accesso, altri due cubi, sempre inclinati rispetto al piano di calpestio e dello stesso trattamento materico, compongono la nuova scena architettonica, definendo un andamento volumetrico che ricorda gli interni del museo del 2001. In quello sulla destra è ubicata la biblioteca con passaggi che conducono alla zona uffici, organizzata lungo il lato nord dell’edificio e a una sala di lettura sull’angolo.

A sinistra, incastrato nella seconda fascia degli uffici perimetrale, il secondo volume inclinato ospita la sala polivalente-auditiorium. La dinamica e stridente disposizione dei nuovi tre elementi architettonici che organizzano l’intera zona d’ingresso e caratterizzano il progetto interno, funge da cerniera compositiva per collegare l’accesso alle due fasce degli uffici e per raggiungere lo spazio centrale pensato come una sorta di corte coperta su cui si affacciano tutti gli spazi dell’Accademia.

Proprio in questo spazio interno centrale si coglie la figura complessiva e la maglia strutturale dell’edificio del mercato, con le travi di cemento armato colorate di azzurro che sostengono la grande copertura a volte interrotte dalle finestre a nastro continuo degli shed rivolti a nord. Una pedana lignea cinge le quattro piattaforme didattiche tra loro inclinate del “Giardino della Diaspora”, un progetto degli artisti-paesaggisti dell’Atelier Balto, spazio di scambio e riflessione, ma anche luogo simbolico dedicato al tema della diaspora.

Le quattro piattaforme di acciaio rialzate che accolgono una grande varietà di piante presentate nelle diverse fasi di sviluppo (semina, radicamento, crescita e avvizzimento), sono dedicate al paesaggio, ai rapporti tra cultura e suolo, al legame tra natura e razza umana. L’ultima piattaforma, denominata “Accademia”, funge da laboratorio per i partecipanti alle attività educative, miscelando tracce e documenti della memoria ebraica, con tematiche legate allo sfruttamento alimentare del suolo.

 

Matteo Vercelloni
Foto di Nelson Garrido

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Uno scorcio dell’ingresso dell’Accademia segnato da pareti inclinate specchianti che incorniciano sul fondo l’edificio storico del Museo Ebraico della città.
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Il cubo inclinato rivestito con assi di legno si aggiunge come innesto volumetrico alla facciata su strada dell’edificio trasformato, sede un tempo del mercato dei fiori.
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Uno scorcio dell’ingresso all’interno dell’edificio esistente trasformato.
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Vista della biblioteca-archivio.
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Il Museo ebraico di Berlino di Daniel Libeskind, inaugurato nel 2001, è senza dubbio una delle opere tra le più significative e intense dell’architetto americano, figlio di due ebrei polacchi sopravvissuti all’Olocausto. Il Museo, frequentato da più di 750.000 visitatori all’anno, ha visto crescere nel tempo le sue attività didattiche e formative, con il conseguente bisogno di spazi per personale ed eventi che necessariamente erano dislocati in vari punti della città, con una dispersione delle possibili sinergie. L’occasione di riutilizzare e reinventare l’edificio prospiciente il Museo Ebraico, progettato da Bruno Grimmek tra il 1962 e il 1965 per accogliere il mercato dei fiori cittadino, ha consentito di riunire le strutture di servizio del Museo in un unico luogo, organizzando al meglio biblioteca e archivio, e creando una sala polivalente per spettacoli e conferenze. Daniel Libeskind si è confrontato in questo progetto con il costruito; ha scelto la strada di assumere il manufatto urbano come risorsa con cui relazionarsi piuttosto che come ‘ingombro’ funzionale da sostituire con un nuovo edificio. Il risultato dell’Accademia del Museo Ebraico è quello di un dialogo e di un riuscito innesto compositivo all’interno di quello che da semplice ‘edificio di servizio’ si è rivelato un’architettura di una certa qualità (come lo sono molte di questo tipo), in grado di accogliere nuove funzioni e figure, sotto la forte copertura, scandita da settori bombati paralleli a shed, composta da elementi prefabbricati di cemento grigio. La struttura modulare del mercato dei fiori, rimasta nelle sue forme originarie, è segnata nel fronte d’ingresso da un cubo inclinato rivestito in doghe lignee, una pelle architettonica che sembra ricordare i vagoni ferroviari in cui gli ebrei erano stivati per raggiungere i campi di sterminio. La geometria del nuovo volume si innesta sfondando la facciata dell’edificio per organizzare il percorso d’ingresso in diagonale, tra due pareti inclinate a specchio che incorniciano sul fondo il primo edificio storico che compone il complesso del museo. Nell’interno, subito dopo l’accesso, altri due cubi, sempre inclinati rispetto al piano di calpestio e dello stesso trattamento materico, compongono la nuova scena architettonica, definendo un andamento volumetrico che ricorda gli interni del museo del 2001. In quello sulla destra è ubicata la biblioteca con passaggi che conducono alla zona uffici, organizzata lungo il lato nord dell’edificio e a una sala di lettura sull’angolo. A sinistra, incastrato nella seconda fascia degli uffici perimetrale, il secondo volume inclinato ospita la sala polivalente-auditiorium. La dinamica e stridente disposizione dei nuovi tre elementi architettonici che organizzano l’intera zona d’ingresso e caratterizzano il progetto interno, funge da cerniera compositiva per collegare l’accesso alle due fasce degli uffici e per raggiungere lo spazio centrale pensato come una sorta di corte coperta su cui si affacciano tutti gli spazi dell’Accademia. Proprio in questo spazio interno centrale si coglie la figura complessiva e la maglia strutturale dell’edificio del mercato, con le travi di cemento armato colorate di azzurro che sostengono la grande copertura a volte interrotte dalle finestre a nastro continuo degli shed rivolti a nord. Una pedana lignea cinge le quattro piattaforme didattiche tra loro inclinate del “Giardino della Diaspora”, un progetto degli artisti-paesaggisti dell’Atelier Balto, spazio di scambio e riflessione, ma anche luogo simbolico dedicato al tema della diaspora. Le quattro piattaforme di acciaio rialzate che accolgono una grande varietà di piante presentate nelle diverse fasi di sviluppo (semina, radicamento, crescita e avvizzimento), sono dedicate al paesaggio, ai rapporti tra cultura e suolo, al legame tra natura e razza umana. L’ultima piattaforma, denominata “Accademia”, funge da laboratorio per i partecipanti alle attività educative, miscelando tracce e documenti della memoria ebraica, con tematiche legate allo sfruttamento alimentare del suolo.   Matteo Vercelloni Foto di Nelson Garrido
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Uno scorcio dell’ingresso dell’Accademia segnato da pareti inclinate specchianti che incorniciano sul fondo l’edificio storico del Museo Ebraico della città.
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Il cubo inclinato rivestito con assi di legno si aggiunge come innesto volumetrico alla facciata su strada dell’edificio trasformato, sede un tempo del mercato dei fiori.
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Uno scorcio dell’ingresso all’interno dell’edificio esistente trasformato.
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Vista della biblioteca-archivio.
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Il Museo ebraico di Berlino di Daniel Libeskind, inaugurato nel 2001, è senza dubbio una delle opere tra le più significative e intense dell’architetto americano, figlio di due ebrei polacchi sopravvissuti all’Olocausto. Il Museo, frequentato da più di 750.000 visitatori all’anno, ha visto crescere nel tempo le sue attività didattiche e formative, con il conseguente bisogno di spazi per personale ed eventi che necessariamente erano dislocati in vari punti della città, con una dispersione delle possibili sinergie. L’occasione di riutilizzare e reinventare l’edificio prospiciente il Museo Ebraico, progettato da Bruno Grimmek tra il 1962 e il 1965 per accogliere il mercato dei fiori cittadino, ha consentito di riunire le strutture di servizio del Museo in un unico luogo, organizzando al meglio biblioteca e archivio, e creando una sala polivalente per spettacoli e conferenze. Daniel Libeskind si è confrontato in questo progetto con il costruito; ha scelto la strada di assumere il manufatto urbano come risorsa con cui relazionarsi piuttosto che come ‘ingombro’ funzionale da sostituire con un nuovo edificio. Il risultato dell’Accademia del Museo Ebraico è quello di un dialogo e di un riuscito innesto compositivo all’interno di quello che da semplice ‘edificio di servizio’ si è rivelato un’architettura di una certa qualità (come lo sono molte di questo tipo), in grado di accogliere nuove funzioni e figure, sotto la forte copertura, scandita da settori bombati paralleli a shed, composta da elementi prefabbricati di cemento grigio. La struttura modulare del mercato dei fiori, rimasta nelle sue forme originarie, è segnata nel fronte d’ingresso da un cubo inclinato rivestito in doghe lignee, una pelle architettonica che sembra ricordare i vagoni ferroviari in cui gli ebrei erano stivati per raggiungere i campi di sterminio. La geometria del nuovo volume si innesta sfondando la facciata dell’edificio per organizzare il percorso d’ingresso in diagonale, tra due pareti inclinate a specchio che incorniciano sul fondo il primo edificio storico che compone il complesso del museo. Nell’interno, subito dopo l’accesso, altri due cubi, sempre inclinati rispetto al piano di calpestio e dello stesso trattamento materico, compongono la nuova scena architettonica, definendo un andamento volumetrico che ricorda gli interni del museo del 2001. In quello sulla destra è ubicata la biblioteca con passaggi che conducono alla zona uffici, organizzata lungo il lato nord dell’edificio e a una sala di lettura sull’angolo. A sinistra, incastrato nella seconda fascia degli uffici perimetrale, il secondo volume inclinato ospita la sala polivalente-auditiorium. La dinamica e stridente disposizione dei nuovi tre elementi architettonici che organizzano l’intera zona d’ingresso e caratterizzano il progetto interno, funge da cerniera compositiva per collegare l’accesso alle due fasce degli uffici e per raggiungere lo spazio centrale pensato come una sorta di corte coperta su cui si affacciano tutti gli spazi dell’Accademia. Proprio in questo spazio interno centrale si coglie la figura complessiva e la maglia strutturale dell’edificio del mercato, con le travi di cemento armato colorate di azzurro che sostengono la grande copertura a volte interrotte dalle finestre a nastro continuo degli shed rivolti a nord. Una pedana lignea cinge le quattro piattaforme didattiche tra loro inclinate del “Giardino della Diaspora”, un progetto degli artisti-paesaggisti dell’Atelier Balto, spazio di scambio e riflessione, ma anche luogo simbolico dedicato al tema della diaspora. Le quattro piattaforme di acciaio rialzate che accolgono una grande varietà di piante presentate nelle diverse fasi di sviluppo (semina, radicamento, crescita e avvizzimento), sono dedicate al paesaggio, ai rapporti tra cultura e suolo, al legame tra natura e razza umana. L’ultima piattaforma, denominata “Accademia”, funge da laboratorio per i partecipanti alle attività educative, miscelando tracce e documenti della memoria ebraica, con tematiche legate allo sfruttamento alimentare del suolo.   Matteo Vercelloni Foto di Nelson Garrido [gallery ids="50831,50833,50835,50837,50839,50841,50843,50845,50847,50849"]
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L’innesto del volume ingresso nella zona interna.
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Un’immagine del dinamico confronto volumetrico tra i cubi inclinati realizzati all’interno dell’edificio.
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Vista del “giardino della diaspora” all’interno dello spazio centrale dell’edificio.
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Pianta
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Pianta e sezione longitudinale di progetto.
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L’innesto del volume ingresso nella zona interna.
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Un’immagine del dinamico confronto volumetrico tra i cubi inclinati realizzati all’interno dell’edificio.
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Vista del “giardino della diaspora” all’interno dello spazio centrale dell’edificio.
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Pianta
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Pianta e sezione longitudinale di progetto.
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