I brand del design, che da sempre fanno della capacità di osare, innovare e fare ricerca i loro punti di forza, stanno trasformando il modo di rivolgersi al pubblico e ai professionisti del settore. La capacità di ascolto si rivela sempre più importante

Cover photo: Lo studio TV di Minotti

C’è chi ha usato la IGTV per ingaggiare il pubblico in conversazioni con personaggi altrimenti inarrivabili: come Cassina con le interviste ad artisti, pensatori e imprenditori della serie Out of the Box con Patricia Urquiola. Chi ha usato il suo parterre di designer per raccontare i prodotti in format più immediati: come Pedrali con la serie di video conversazioni New Ideas o Alessi con i podcast Alessi Stories (quest’ultima coinvolgendo anche il pubblico nella costruzione dell’account del marchio con le iniziative di stories come #MyAlessi).

È difficile trovare l’attimo spartiacque, quello in cui le aziende del design hanno capito che ciò che era successo al loro modo di comunicare durante la pandemia non era un incidente di percorso ma un nuovo inizio. Probabilmente è stato quando abbiamo ricominciato a uscire e ci siamo accorti che il mondo dei webinar, delle serie sulla IGTV, delle lezioni su Zoom non è scomparso. Anzi, si è elevato da arena sperimentale a presenza consolidata, ragionata e diffusa. E che il grande vantaggio che porta è la possibilità di ascoltare oltre che di emettere messaggi, di scendere da un piedistallo (il grande problema di sempre dei marchi di design) e di dimostrare, post alla mano, la propria vera creatività. Sembra semplice, ma non lo è per niente. Per i brand del design, che da sempre fanno della capacità di osare, innovare e fare ricerca i loro punti di forza, utilizzare format e linguaggi preconfezionati potrebbe essere controproducente.

Ne è convinta Barbara Corti, direttore marketing di Flos e responsabile per tutta la customer experience del marchio on e offline. “Essere ossessionati dai data insight è pericoloso. Sappiamo tutto su traffico, utenti unici, sessioni (contenuti, immaginario, tono di voce) ed è facile cadere nella tentazione di standardizzare messaggi e approcci per andare sul sicuro”. Molto meglio, secondo Corti, fare con il digitale quello che si fa anche con il design del prodotto: “Avere una bella storia da raccontare e farlo sperimentando linguaggi diversi, sapere cosa dicono i dati ma mantenere la forza e la spregiudicatezza di decidere di istinto. La differenza, oggi, quando si parla di contenuti di design, è tra chi riesce a fare cultura – nel senso più ricco e antropologico del suo significato – e chi insegue numeri e click. La bulimia contenutistica non funziona, meglio ‘poche cose, fatte molto bene’”.

Cosa significa questo, a livello di contenuti? “I nostri racconti, presentati sul sito, sui social o sul nostro magazine, partono dai prodotti ma allargano la dimensione semantica includendo il mondo intorno alle cose: relazioni, emozioni, intimità. Lavoriamo con persone, non influencer, le scegliamo per quello che hanno da dire, non per chi sono. Siamo in un momento storico in cui un certo tipo di pubblico ha bisogno più di ideali che di idee: e il digitale offre opportunità eccezionali per entrare in contatto con queste persone e continuare a dimostrare il ruolo militante e culturale del design che, da sempre, porta il bello e la cultura nelle case”. La comunicazione digitale, però, non è solo uno strumento per emettere messaggi.

Il digitale per funzionare al meglio, non deve essere una semplice trasposizione di quello che si faceva nel mondo analogico ma un ampliamento di orizzonti, uno strumento per creare relazioni nuove e dinamiche di scambio. "

Il suo vero valore è permettere di creare una conversazione, da cui nascono idee di business”, dice Filippo Berto, titolare di BertO. Lo sa bene lui che in dieci anni ha trasformato l’azienda di famiglia (con passaggio di fatturato da 300mila euro a 10 milioni) da terzista di qualità a marchio grazie al rapporto quasi intimo sviluppato con la community del suo blog, aperto quasi per gioco nel 2004. “BertoStory è stato il primo dei blog aziendali sull’arredamento. Volevo raccontare il senso della cultura dell’artigianato e del design”, dichiara. Il fortissimo desiderio di condivisione e la spontaneità dei messaggi hanno creato intorno al blog un pubblico sempre più attento e dialoghi sempre più aperti, che coinvolgevano sempre più persone. “A quel punto, l’intuizione di business: vendere senza intermediari, trasformare la comunicazione diretta in un servizio ad personam, che sia in negozio, al telefono o in rete. L’organizzazione – il come fare – è stata complessa, ma alla fine ha funzionato: la gente viene da noi perché sa che ci siamo. Sa che, come sul blog, ci mettiamo la faccia”.

È, questo, il modus operandi che ha anche salvato BertO dalla pandemia. “Con il lockdown abbiamo solo spinto l’acceleratore su un sistema già totalmente improntato al dialogo online. Una volta chiusi i negozi fisici, abbiamo potenziato le consulenze personalizzate sulla rete, che offriamo in lingue diverse con progettazioni dettagliate e simulazioni reali dell’arredo”. Risultato: +300% di vendite durante il periodo di chiusura e una chiamata di Google. Il ceo Italia del colosso americano ha scelto BertO come testimonial del progetto Italia In Digitale, che racconta le storie di chi, scommettendo appunto sul digitale, è riuscito a fiorire durante la pandemia.

È vero, mettersi in posizione di ascolto è fondamentale, come pure tradurre le intuizioni che vengono da questo ascolto in modo immediato: bisogna provare, rischiare, non avere paura di sbagliare e non restare mai fermi”, dice Daniele Lago, ceo dell’azienda che porta il suo nome e artefice della sua trasformazione, in pochi anni, da piccola realtà locale in marchio globale con una community enorme e attiva (oltre un milione di follower su Facebook, più di 300mila su Instagram e 13mila utenti unici sul sito ogni giorno). “La forza della nostra azienda è la sua gente, la sua community”, spiega Lago. “L’abbiamo costruita, prima che la parola diventasse di moda, nel mondo analogico, con l’Appartamento Lago, un hub creativo autogestito e globale. E poi nel digitale”. Durante il lockdown, quando i negozi erano chiusi, il sito lago.it ha registrato 600mila visite, cioè un 80% in più rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. Pur non avendo un e-commerce.

Interrogando la community è emerso il desiderio di informarsi sui prodotti e di approfondire la propria conoscenza su temi come allestimenti, consigli d’arredo. Abbiamo usato le sette settimane di chiusura per elargire 50 ore di formazione online e la risposta è stata inaspettatamente alta: hanno partecipato in 6000 tra consumatori e architetti”. Così, quando l’azienda ha riaperto le porte, gli ordini erano talmente tanti che la Lago Spa ha dovuto tenere attiva la produzione tutto agosto per far fronte alle comande. “A settembre, abbiamo lanciato la possibilità di fare una videocall con un consulente d’arredo partendo da un semplice click sul sito. È facile, tecnicamente parlando, ma dà un segnale fortissimo a chi entra per sbirciare contenuti, storie o altro (parliamo di 13mila persone al giorno): che ci siamo davvero, rispondiamo alle domande, li capiamo. Se poi c’è il match, l’appuntamento rimane in negozio”.

È difficile trovare l’attimo spartiacque, quello in cui le aziende del design hanno capito che ciò che era successo al loro modo di comunicare durante la pandemia non era un incidente di percorso ma un nuovo inizio. Probabilmente è stato quando abbiamo ricominciato a uscire e ci siamo accorti che il mondo dei webinar, delle serie sulla IGTV, delle lezioni su Zoom non è scomparso."

Il digitale, insomma, per funzionare al meglio, non deve essere una semplice trasposizione di quello che si faceva nel mondo analogico ma un ampliamento di orizzonti, uno strumento per creare relazioni nuove e dinamiche di scambio. Lo ha testato con mano anche Fiorella Villa, communication/marketing director di Minotti. “Paradossalmente, la pandemia ci ha portati a intensificare e approfondire le relazioni con i nostri interlocutori in modo più empatico. All’improvviso, all’inizio del lockdown, abbiamo colto la necessità di rassicurare partner e rivenditori in tutto il mondo e lo abbiamo fatto con professionalità ma con un taglio più umano, tenendo conto del trauma che colpiva tutti noi, questa volta come persone innanzitutto, in un ambito di indiscutibile importanza: quello della salute, prima che del business. Abbiamo usato tutti i nostri canali digitali, dalla newsletter ai social, per parlare ai nostri pubblici. E poi, su base quasi quotidiana, con i partner mono-marca, clienti e architetti importanti, mediante video-call e webinar. Il messaggio che volevamo far passare era: "Noi siamo al vostro fianco”. Per la presentazione della collezione, che tradizionalmente avveniva al Salone del Mobile, Minotti ha realizzato un video a più voci: la famiglia e i designer, ma anche manager e i collaboratori dell'azienda.

I cambiamenti spaventano tutti, ma percorrendo terreni nuovi si scoprono cose interessanti. Lanciare la collezione con un video di questo tipo, oltre a training e workshop con i clienti, ci ha permesso di attirare molte più persone generando un coinvolgimento e un entusiasmo al di là delle più rosee aspettative. Alla fine, al netto delle difficoltà, è ormai chiaro che queste nuove modalità di comunicazione offrono ai marchi delle opportunità di interazione più diretta, democratica, veloce e incisiva, che certamente ripagherà nel lungo periodo”.