Oggi la narrazione visiva di un prodotto pone sempre più al centro il messaggio. Si è assistito al passaggio dalla comunicazione dell'oggetto a quella del suo concept e la sua parte immateriale è diventata sempre più importante per trasmettere la filosofia del brand

Che la comunicazione abbia un valore strategico paritetico a quello del design del prodotto è dato acquisito sin dalla prima mondializzazione di metà Ottocento. È però con l’avvento delle avanguardie storiche degli anni Venti che la coppia prodotto-immagine inizia a essere più complessa e articolata. Nel 1924, infatti, un giovane Herbert Bayer, ancora studente al Bauhaus, progetta uno stand per i dentifrici Regina dove il prodotto è evocato dal sorriso di una bella ragazza, nel nome del brand pronunciato da un altoparlante e addirittura da una sorta di segnale di fumo che esce dalla copertura della scatola pubblicitaria. Ma il dentifricio non c’è: il contenitore della comunicazione punta sull’effetto, non sul prodotto in sé.

Nel 1933 Fortunato Depero amplifica ulteriormente questo concetto con il suo padiglione per la Campari, dove a troneggiare sono lettere tridimensionali che propongono solo la tipografia del brand senza alcuna presenza delle bevande o del loro packaging. Anche in Olivetti, azienda da sempre studiata come case history mondiale da tutti i colossi della tecnologia (Apple in primis), si verifica più volte il passaggio dalla comunicazione del prodotto a quella del suo concept. Se i primi anni della grafica Olivetti, infatti, puntano sulle associazioni visive di grandi illustratori/pittori come Teodoro Wolf Ferrari (la M1 e Dante Alighieri) o Xanti Schawinsky (la MP1 e la diva dalle labbra scarlatte), sarà con Giovanni Pintori che la comunicazione dell’azienda di Ivrea andrà sempre più vicina al concetto che la macchina esprime piuttosto che alla sua conformazione fisica. Verranno allora realizzate immagini che parlano dell’idea di calcolo, con soluzioni astratte che ricordano l’arte programmata, perfetta sintesi visiva della nuova ‘civiltà delle macchine’. Il passaggio successivo, in questa storia dell’emancipazione dalla grafica di prodotto alla ricerca della comunicazione della filosofia del brand, sarà quello di utilizzare mezzi che esulano completamente dalla grafica stessa.

Oltreoceano è l’Eames Office a rivoluzionare l’idea di comunicazione del brand. Charles e Ray lo fanno dapprima con la Herman Miller, per la quale ideano campagne pubblicitarie volte a trasferire lo spirito dello stile Contemporary che essi per primi incarnano. Ma sarà l’abilità come comunicatori di pensiero e formatori di idee attraverso molteplici media che farà loro conquistare le commesse per alcuni tra i più rivoluzionari progetti della storia della visual communication. Come accade nel celebre Powers of Ten, un viaggio dall’uomo alla galassia e alle particelle subatomiche, commissionato da IBM, nel quale ‘cosa’ il prodotto può fare è più forte di ‘come’ esso è conformato.

Arrivando ad anni più recenti, Studio Formafantasma inaugura una modalità di visualizzazione che farà scuola per una generazione intera. Alla base non è un singolo progetto, ma una visione che si sposta dal prodotto finito al processo della ricerca che viene prima del prodotto stesso. Se la forma è un ‘fantasma’, allora l’attenzione è tutta concentrata sulla sperimentazione, sulle fasi processuali, sulle sequenze di indagine che riguardano spesso in prima istanza il materiale. Per dare forma di narrazione visiva a tutto questo, la metafora illuminista della tavola degli elementi dell’Encyclopédie fornisce un precedente interessante.

Che la comunicazione abbia un valore strategico paritetico a quello del design del prodotto è dato acquisito sin dalla prima mondializzazione di metà Ottocento. È però con l’avvento delle avanguardie storiche degli anni Venti che la coppia prodotto-immagine inizia a essere più complessa e articolata. "

Da Autarchy a Botanica fino a De Natura Fossilium, sul piano operatorio vengono allineati con eleganza scientifica e rigore da laboratorio i passaggi e gli strumenti della speculazione materica che vanno dal grano alle plastiche organiche, alla lava. Negli ultimi progetti, Ore Streams e Cambio, oggetto di indagine sono gli scarti informatici e il legno, una materia contemporanea e una millenaria. Qui i modi della narrazione si arricchiscono di siti che raccolgono dati (documenti, interviste), di filmati prodotti ad hoc e di un uso progettuale dei social che si evidenzia nell’Instagram dello Studio. Il canale pubblico non è un mero casellario riempito dagli aggiornamenti sui lavori recenti, ma un canale utilizzato in maniera progettuale come archivio digitale a rete aperta. Così l’organizzazione dei dati prende un rilievo capace di surclassare la presentazione della materia stessa.

In Cambio, come in Ore Streams, l’enfasi non è sul prodotto finale del processo, siano scrivanie con ‘fossili’ di computer o arredi in legno. Il punto focale è l’analisi di cosa significhi oggi progettare materiali non smaltibili a danno dell’eco-equilibrio, o la cui coltura coattiva tradisce le leggi della sostenibilità naturale. Ecco allora che la comunicazione della parte immateriale del progetto assume il senso di tutto il progetto e il ‘brand’, in questo caso, è l’identità del progettista e della sua visione. La gestione della visualizzazione dei dati ha un indice di creatività assolutamente equiparabile a quella del progetto del prodotto.

Questo aspetto è ben evidente nel lavoro di Giorgia Lupi, information designer che lavora con forme e colori per rendere fruibili visivamente i data. La designer elabora codici estetici che trasmettono messaggi articolati, pensati per una riflessione ragionata in un congruo tempo di fruizione. Nel 2019 è stata coinvolta in un progetto di collaborazione dal brand di moda & Other Stories. Da subito ai suoi occhi il match tra il codice-abito (un sistema da sempre usato per comunicare identità) e il codice-messaggio si rivela foriero di una forza narrativa straordinaria.

L’occasione diviene quella di progettare una sorta di ‘messaggio indossato’, uno storytelling in forma di abito. Il tema di base sono le donne che sono state fonte di ispirazione. Ne vengono identificate tre in altrettanti campi dello scibile umano: Ada Lovelace, matematica ottocentesca considerata la prima programmatrice di ‘computer’ per la sua scoperta sugli algoritmi; Mae Jemison, prima astronauta afroamericana ad andare nello spazio; e la zoologa e biologa Rachel Carson, fondatrice del movimento ambientalista contemporaneo. Le loro vite esemplari vengono tradotte in segni e colori, ognuno rispondente a una precisa legenda che sarà poi decrittata e spiegata sulle tote bag che conterranno gli abiti. Il vestito è così ‘smaterializzato’ e il messaggio posto al centro.

Il pattern torna, come nei codici antichi, a valere per la sua bellezza, ma anche a significare, narrare, testimoniare. Se il medium è il messaggio, allora qui è il vestito a essere il messaggio e quest’ultimo sono le informazioni trasmesse e visivamente organizzate. Nel mondo contemporaneo l’immateriale (i data) incide sul materiale più della materia stessa; la sua natura liquida, informe e apparentemente evanescente viene gestita e governata dal progettista, che oggi più che mai ha un potere enorme. Le forme che possono assumere i dati sono infinite e i brand scelgono a chi affidarsi per far affiorare una storia. I prodotti cambiano, il progetto e le idee restano.