“Raramente il loro appartamento sarebbe in ordine, ma proprio quel disordine ne costituirebbe il maggior fascino. Non se ne occuperebbero quasi: si limiterebbero a viverci. La sua comodità sembrerebbe loro un fatto acquisito, un dato di partenza, uno stato della loro natura. La loro vigilanza sarebbe volta altrove: al libro da aprire, al testo da scrivere, al disco da ascoltare, al dialogo quotidianamente ripreso. Lavorerebbero a lungo, senza febbrile impazienza senza acrimonia. Poi pranzerebbero in casa o fuori; ritroverebbero gli amici; passeggerebbero con loro. Talora avrebbero l’impressione che tutta una vita potrebbe armoniosamente trascorrere fra quelle pareti ricoperte da libri, fra quegli oggetti così perfettamente familiari che fi nirebbero per ritenerli creati da sempre per il loro esclusivo consumo, fra quelle cose belle e semplici, dolci, luminose. Ma non se ne sentirebbero vincolati: certi giorni, se ne andrebbero alla ventura. Nessun progetto sarebbe loro impossibile. Non conoscerebbero il rancore, l’amarezza, l’invidia, dato che i loro mezzi e i loro desideri si accorderebbero su ogni punto, in ogni tempo. Quest’equilibrio lo chiamerebbero felicità. E saprebbero, in virtù della libertà, della saggezza, della cultura, preservarla, scoprirla in ogni momento della loro vita comune”.

Questo breve scritto di Georges Perec, estrapolato dall’inizio del suo famoso romanzo Le Choses (1965), aiuta a comprendere il progetto di un interno domestico che, superando il tradizionale approccio progettuale, intende rivelarsi come “una casa che deve sapere contenere in se stessa non solo gli oggetti della nostra vita, ma anche la nostra stessa vita”, così come Italo Rota scrive in un suo recente scritto “INTERNI di INTERNI”.

Le ‘cose’ in questa casa assumono il ruolo non solo di presenze volumetriche (arredi e oggetti, libri e collezioni), ma diventano parte di un unicum spaziale, protagoniste insieme a Italo e Margherita di una sorta di moderna e privata Arca di Noè pronta a traghettare in un vicino futuro frammenti e memorie di una storia personale che diventa anche testimonianza del nostro secolo, per qualità delle collezioni, spessore culturale e instancabile curiosità dei suoi ricercatori. In questa sorta di “caverna energetica”, così come Rota descrive analizzandoli alcuni interni improbabili quanto reali, lo spazio diventa continuo; l’originale magazzino assume il ruolo di contenitore aperto ad accogliere stanze fl uttuanti e sospese che come capsule compiute si aprono con diverse angolazioni sull’ambiente complessivo. Una grammatica volumetrica scandita di incastri calibrati e precisi che in qualche modo ci fa ricordare il Merzbau di Kurt Schwitters (1933), ma che non intende proporsi come ambiente scultoreo, quanto piuttosto come interno domestico propositivo. All’idea di ‘capsula’, che ritroviamo in vari episodi sospesi nello spazio principale, si riconducono anche il bagno, aperto con una grande vetrata rosa e trasparente verso la zona giorno e le due addizioni volumetriche che alle estremità opposte della casa si aprono verso il giardino interno, ricavato trasformando un cortile chiuso. Camera da letto e cucina diventano così due piccoli padiglioni compiuti che chiudono la sequenza delle grandi vetrate aperte verso il giardino segnate da un infi sso di ferro dal sapore industriale. Così la casa disegna in pianta una sorta di forma a ‘U’ uscendo dal fi lo di facciata dello stabile di ringhiera che alzando gli occhi si rivela con i suoi ballatoi e i panni stesi, ricordando di essere a Milano, in un tessuto urbano d’altri tempi che la città del presente, alla rincorsa di modelli propri di una modernità globalizzata, sembra volere cancellare.