Il Mediterraneo, storica musa ispiratrice della cultura del progetto, continua a essere luogo di grandi contaminazioni culturali. Come sottolineano i lavori di tanti designer contemporanei nati in quest’area geografica.

Nella storia dell’architettura e del design il Mediterraneo è stato una grande musa ispiratrice e un passaggio quasi obbligato del Grand Tour per gli intellettuali di ogni epoca. In più di un’occasione, per esempio, Le Corbusier cita l’insegnamento appreso dall’architettura mediterranea con i suoi giochi di dinamismo volumetrico di pieni e vuoti.

Il saggio più devoto all’idea di mediterraneità è però forse quello di Gio Ponti quando nel 1961 viene incaricato dall’ingegner Fernandes di progettare il suo albergo Parco dei Principi a Sorrento. Qui Ponti sceglie appieno il Mediterraneo e i suoi colori come riferimento e progetta un lusso impensabile prima di lui, quello di una sequenza vivace e istrionica di variazioni sullo stesso tema.

Al posto del lusso esibito, quello dell’unicità nella moltitudine, fatto di linee sobrie come quelle nautiche, in un paesaggio marino che prosegue con continuità in quello abitativo. Azzurro, blu e bianco divengono i temi quasi ossessivi del suo percorso tra rivestimenti piani e rilievi, arredi e architettura, spazi interni inondati di luce tersa e balconcini a picco sul mare.

D’altra parte la storia geo-economica del Mediterraneo ne faceva un campo perfetto per il programma pontiano di conciliazione tra tradizione artigianale e serialità industriale; un luogo dove l’artigianato non ha mai realmente ceduto il passo all’industria (se non a quella pesante imposta dalle logiche della politica) ed è restato base e riferimento per quanti ancora oggi operano su quel territorio o ne traggono preziose occasioni di conoscenza e riflessione.

Il Mediterraneo, infatti, resta ancora un grande mare di cultura e tradizione in cui il ‘fatto a mano’ tiene in qualche modo testa alla globalizzazione (seppur a fatica); ma anche un luogo di scambio tra le culture che vi si affacciano con un’intensità e complessità che nessun’altra condizione geografica potrà mai registrare.

Consapevoli di questa peculiarità, diversi designer, nati in area mediterranea, hanno continuato a ragionare sulla fluidità dei confini che la liquidità fisica e mentale genera. Un emblema dell’incrocio tra culture, divenuto un vero e proprio archetipo del Mediterraneo, è quello delle teste di moro di Caltagirone.

Esaltate dal rinnovato interesse alla sicilianità veicolata da celebri case di moda, questi manufatti di antichissima derivazione narrano proprio la storia di innesto tra la cultura araba e quella siciliana. Molti gli autori che da questo riferimento hanno tratto ispirazione, da Piero Fornasetti a Ugo La Pietra.

Anche l’esordio del duo Formafantasma è stato segnato, con la serie di vasi Moulding Tradition, proprio da una riflessione sull’origine di questo archetipo ceramico che, dietro alla leggenda della principessa palermitana e del suo fedifrago amante arabo decapitato, nasconde un interessante caso di iconografia condizionata dal pregiudizio fisiognomico verso lo straniero.

Più di recente Gaetano di Gregorio ha unito, nella sua testa di Doge, Venezia alla Sicilia, sue rispettive patrie di adozione e origine, in una contaminazione portata al raddoppio: “Sul doge”, spiega il designer, “non vi sono storie di teste mozzate e basilico, ma la sua figura è il simbolo di una città straordinaria, dominatrice del Mediterraneo e di un sistema democratico che non contemplava il culto della personalità, bensì richiedeva al principe di donare con le sue risorse un’opera pubblica alla città”.

Anche i tessuti Imprinting di Carla Garipoli – elaborati per la sua tesi all’interno del progetto Migra-n-ti per l’Accademia Abadir di Catania, sotto la guida di Francesca Lanzavecchia – parlano di un intreccio di esperienze di cui il Mediterraneo è stato il crocevia. La giovane designer utilizza la tecnica batik di stampa per i tessuti Wax con l’intento di far convivere i tradizionali pattern africani con alcuni simboli della sicilianità, quali il carretto o l’arancia.

Ad aumentare l’indice di trasversalità di questo lavoro è anche il fatto che i Wax sono a loro volta tessuti nati dalla colonizzazione olandese di alcuni territori africani, i cui abitanti oggi migrano nuovamente seguendo rotte economiche e politiche che sono indice del nostro tempo storico.

Il siciliano Giuseppe Arezzi, invece, prosegue il suo lavoro su un design fortemente debitore non tanto all’acqua quanto alla terra, alla natura agricola della sua origine, anche quando è l’oggetto a migrare lontano dalle terre assolate di cui porta indelebilmente un codice genetico progettuale. Solista è infatti un servomuto che esalta le qualità della materia prima con una presenza discreta ma incisiva al tempo stesso.

È prodotto dalla start-up Desine, la quale esporta la storia della falegnameria di Grammichele, una piccola città a pianta esagonale di origine illuminista (l’unica in Italia insieme alla friulana Palmanova) che, per rinascere dopo un devastante terremoto, nel Settecento scelse la via dell’artigianato e creò una tradizione di falegnameria che nulla ha da invidiare da un punto di vista tecnico e qualitativo a più noti centri del settentrione.

E sempre da qui nasce anche DiSé, realtà produttiva tra la Sicilia e Londra, che propone arredi frutto della reinterpretazione di vetrine per liquori o piccoli armadi. Nati tipologicamente nella sobrietà degli interni delle campagne siciliane, si sposano perfettamente con le richieste di contenimento e riduzione degli appartamenti metropolitani. Magari portandovi profumi di essenze che sanno di storia e di calore mediterraneo.

Con analogo spirito di contaminazione lavorano anche diversi designer della scena libanese. In particolare Khaled El Mays, che da qualche anno si sta impegnando nella traduzione in arredi contemporanei non solo di tecniche artigianali, ma anche di grandi classici. È il caso della sedia Fishawy, ispirata a quella dello storico caffè del Cairo che, a sua volta, riprese in chiave mediterranea la Thonet. Come la sorella maggiore mitteleuropea, divenne un classico d’arredo nei luoghi pubblici delle città magrebine. Tanto per ricordarci che le vere migrazioni culturali sono sempre a doppio senso di marcia e basate su uno scambio in cui tutti hanno da guadagnare.