Parlare di contemporaneità vuol dire allora parlare di questa variabilità continua, una libertà che non è conseguimento ma frequentazione, non approdo ma trasfusione e translitterazione. Se il design storico cercava di definire l’uomo attraverso i suoi oggetti, il design contemporaneo appare impegnato nello sforzo di liberare l’uomo da ogni definizione conclusiva. Ogni nuovo scarto linguistico introdotto dal progetto rinnova così non l’affermazione, ma la negazione di un’identità, di un punto di arrivo e di una resa all’essere anziché al divenire. Perché infine ciò che percepiamo non è ciò che siamo. Non siamo le nostre cose ma il punto di vista, mobile e sfuggente, sulle cose. Siamo il motore, non il risultato della variazione continua in cui consiste l’agire creativo. Non siamo la controparte statica di oggetti statici ma esplorazione non predeterminata e sguardo indagatore. Siamo ‘azione’ e non ‘cosa’, liberazione e non libertà.
E se, come è stato detto, l’arte è una forma di resistenza alla comunicazione, il design è una forma di comunicazione della resistenza – la resistenza ostinata e riproposta, risoluta e inesauribile, a tutto ciò che vorrebbe definirci una volta per tutte, sacrificando la fiamma dell’immaginazione alla fisicità delle creazioni pregresse.