Il Centre Georges Pompidou segue da sempre l’evolversi del mio lavoro, al punto che, nell’archivio storico della fondazione, sono conservate 250 opere, compresa la ricostruzione filologica della mia tesi di laurea (1966) e il primo esame sperimentale del periodo universitario (1964), elaborato con alcuni dei futuri membri del gruppo che prenderà il nome di Archizoom, costituito, oltre che da me, da Gilberto Corretti, Paolo Deganello, Massimo Morozzi e, successivamente, da Dario e Lucia Bartolini.

Da questo gruppo ebbe inizio Il movimento Radical fiorentino, a cui fecero seguito il Superstudio, gli Ziggurat, i 9999, gli Ufo e vari altri sperimentatori, come Ugo La Pietra, Gianni Pettena, Remo Buti; quindi, nei primi anni Settanta, i post-radical milanesi, come Alessandro Mendini e Franco Raggi, veneti come Gaetano Pesce e Michele De Lucchi, napoletani come Riccardo Dalisi e Filippo Alison.

Ma l’elenco non si ferma qui perché echi del movimento Radical giunsero fino in Austria e Giappone. Palazzo Strozzi di Firenze ha dedicato la prima e completa esposizione del movimento (Utopie Radicali. Oltre l’architettura: Firenze 1966-1976), e le grandi università americane stanno studiando il suo ruolo profetico come “prima prefigurazione del progetto nell’epoca della globalizzazione”.

Ma questa storia è nota ed è inutile ripeterla. Più passa il tempo e più quel movimento giovanile è andato a collocarsi stabilmente nella tabella dei padri storici della post-modernità; più passa il tempo e più la storia ha confermato che il mondo attuale del progetto coincide con quel caos che i Radical intuirono in maniera contraddittoria.

Lo scorso ottobre il Centre Pompidou ha dedicato una sala permanente al mio lavoro, come testimonianza di questa coincidenza tra la No-Stop City (1967) e l’attuale Metropoli primitiva; coincidenza assolutamente non formale, ma derivata da un lungo percorso teorico che ha attraversato molte stagioni: dai Radical del design primario, al nuovo design italiano (Alchimia e Memphis), alla Domus Academy, alla nuova didattica universitaria, fino alla nuova preistoria attuale.

Durante gli anni Trenta, Kurt Schwitters teorizzava la ‘reversibilità’ della legge di Darwin – per cui se l’uomo “deriva dalla scimmia” l’uomo può tornare alla sua ‘condizione animale’ – quando realizzava i suoi merzbau, grandi grotte instabili fatte di oggetti, prodotti, detriti, refurtiva, frammenti, metafore di una modernità destinata a perdere il controllo del proprio indotto.

Su questa traccia profetica si collocarono il dripping di Jackson Pollock e l’uomo animale di Francis Bacon, gli attuali  parkours che come scimmie si gettano nei baratri urbani, i voguers che abitano il solo mondo mediatico, gli hikikomori eremiti metropolitani che conoscono il mondo soltanto attraverso i computer e i cellulari: i tatuaggi, i piercing, le droghe utilizzate non per evadere dal mondo, ma per ‘sopravvivere’ al mondo…

Questo scenario – che il filosofo Pierre Restany aveva già intuito negli anni Settanta – si fonda sulla coincidenza tra la condizione esistenziale dell’indios dell’Amazzonia e l’abitante delle attuali metropoli: entrambi immersi in uno spazio integrale, dove coesistono tecnologie, natura, miti, tribù, delirii, vita e morte; entrambi immersi “come pesci nel mare, che non vedono mai il mare”…

In questa “metropoli senza esterno” si ripetono dunque le condizioni antropologiche dei nostri padri preistorici, disinteressati al passato e al futuro, ma immersi in un presente senza fine, e seduti in attesa (come nel teatro di Samuel Beckett) di un Godot che non arriverà mai.

di Andrea Branzi

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Andrea Branzi, Dolmen 7, 2015.
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Andrea Branzi, Carnac, 2012.
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Andrea Branzi, Grandi Vasi, 1997.