Ho conosciuto Afra e Tobia Scarpa nel 1988. Li intervistai per scrivere  “Trent’anni e più di design”, un libro voluto da Aldo Bartolomeo, fondatore di Stildomus con cui i due progettisti avevano realizzato innovativi progetti di design. Mi resi conto di aver incontrato due persone speciali, dotate di una grande umanità, anche se Afra schermava la sua disposizione affettiva con una maschera di apparente rudezza, facile da smascherare.

Annotai in quell’occasione: “Tobia, nel corso dell’incontro, alternando lodi e rimproveri all’imprenditore Aldo Bartolomeo, passò in rassegna il passato della Stildomus, citando frammenti di una storia che si ricomponeva, con ogni tassello al suo posto: la cartolina spedita dall’America di Bruno Munari, la sua lettera scritta alla rovescia da leggersi allo specchio… I fogli dell’agenda con gli schizzi dei giunti, gli omaggi augurali” (“Trent’anni e più di design”, Idea Book, Milano, 1988).

Nel film L’anima segreta delle cose curato da Elisa Pajer ed Elena Brigi con la regia di Elia Romanelli, proiettato lo scorso ottobre al Design Film Festival di Milano, ho ritrovato molto del Tobia incontrato nel 1988, a cominciare dalla casa di Trevignano nella campagna veneta dove Afra e Tobia “erano esuli volontari, vestiti di una rusticità che era solo scorza” (ibidem).

Il filmato, intenso e commovente, “è costato” scrive Elisa Pajer nell’introduzione del libro che lo accompagna e lo integra “quasi cinque anni di lavoro, durante i quali abbiamo fatto capolino nella vita di Tobia, guadagnandoci la sua fiducia e il privilegio di poterlo raccontare”.

Nel film Scarpa si lascia raccontare, ma soprattutto si racconta con parole meditate, intime, accompagnate da disegni che scorrono fluidi sui fogli e da gesti precisi con i quali accarezza le materie che ama e rispetta, al pari di creature vitali e che indaga per rivelarne i segreti e, persino, le sonorità.

Arriva anche a prodursi in un concerto di canne di bambù, tagliate nel giardino selvaggio della casa di Trevignano. Come nel film, anche le parole del libro sono tenute per mano da un ragionare sommesso sull’esigenza di dare intelligenza al gesto, di imparare le tecniche per realizzare al meglio i propri manufatti e di coltivare la vocazione all’artigianato, inteso come elemento sapiente del costruire.

Il suo narrare di progetto, più che un parlare di cose necessarie al vivere, è un riflettere personale; “sullo stare al mondo che domanda di perdere la corteccia costruita per difendersi, rivelando il profondo di se stessi”.

Progettare” dichiara Tobia Scarpa “vuol dire buttare in avanti un pensiero, una volontà, un modo di eseguire; significa donare essendo bisognosi d’ogni cosa, è una cavalcata nella dimensione intima”. Pare si perda nel suo ragionare, costellato di citazioni colte, di memorie di poeti e musicisti che conosce personalmente, come Mario Brunello, menomato nel fisico, che suona una musica forsennata che gli è necessaria per stare al mondo; eppure tiene sempre in pugno il filo che riconduce al progettare.

Le offese della vita l’hanno reso saggio. Nelle sue parole si coglie il rimpianto per i rapporti personali con le intelligenze della fabbrica, che si vanno perdendo nella rincorsa alle richieste del mercato. Confessa di non avere un grande amore per le cose che ha fatto, anche se ritiene che alcuni suoi prodotti, come la lampada Papillon per Flos, più che al mondo degli oggetti appartengano a quello delle sculture.

Gli interessa il fare attraverso i processi, la conoscenza delle materie, la relazione con le intelligenze degli imprenditori e con le competenze degli artigiani. “Ho dedicato” aggiunge “il mio sapere e la mia capacità alle aziende. Realizzo le cose come le so fare e cerco di essere semplice, senza arroganza”. Parla dei materiali e sostiene “che bisogna trattarli in maniera amorosa, lasciando che siano loro a indicare la forma che dovrà avere l’oggetto”.

Frequenta le fonderie, le falegnamerie, le vetrerie, persuaso che non si debba abbandonare il disegno all’esecutore. “Se vuoi riporre un sentimento in qualcosa” dichiara “ti devi mettere all’opera affinché quel sentimento entri nella dimensione del sacro.

Quando si lavora a un oggetto non lo si può fare secondo schemi geometrici; bisogna lasciarsi condurre dalle cose che nascono e si sviluppano secondo natura, non secondo la nostra volontà” (L’anima segreta delle cose, Gli specchi Marsilio, 2015).

“Il desiderio del progettista” conclude “è di esplicitare quello che desidera, creando interazione tra chi pensa l’oggetto e chi lo usa. È un obiettivo difficile da raggiungere, non basta la volontà, ci vuole l’aiuto del destino e il cortocircuito degli eventi”. In questo rimettersi al destino si legge in filigrana il rammarico di chi patisce la corruzione del mestiere, le idealità appannate e l’omologazione delle culture. “Un tempo” rammenta “studiavo le tecnologie costruttive, assieme agli imprenditori. Oggi le aziende accettano il disegno, ma dimenticano che bisogna saperlo produrre”.

La sua consolazione si chiama Atanor (il nome si riferisce al crogiuolo arcaico, dove, secondo la leggenda, gli alchimisti sperimentavano la materia), una collezione di prodotti dalle forme semplici creata da Merotto Milani, che gli offre la possibilità di esprimersi autonomamente senza seguire i canali tradizionali; per questo marchio ha di recente disegnato alcuni complementi d’arredo in legno massello di frassino.

Scrive ancora alla rovescia con la mano sinistra e nello sguardo ceruleo ha il guizzo di chi ha la certezza di saper fare le cose, come ha rivelato l’essenziale mostra dei suoi prodotti icona allestita nello showroom Flos di Milano lo scorso autunno.

Testo di Cristina Morozzi