A 2900 metri di altitudine, all’ingresso della cittadina di Pai, in Tibet, può non essere semplice trovare le misure di un progetto per un centro d’arte contemporanea.

Le tradizioni sono forti e presenti e il paesaggio, con i suoi colori, i materiali, le texture, i panorami, è un partner molto stimolante ma anche molto ingombrante. A questo si aggiunge il fatto che i progettisti provengono da Pechino e quindi sono esponenti di una cultura egemone che, ormai da molti anni, si trova spesso in conflitto con la minoranza tibetana. Standardarchitecture è uno studio giovane che si è costituito nel 1999 ed è formato da Zhang Ke, Zhang Hong, Ru Lei e Claudia Tabora, e dove confluiscono la cultura cinese, gli studi condotti anche in America e la provenienza portoghese di Claudia che, dopo la laurea a Evora, si è specializzata, come il fondatore Zhang Ke, all’università di Harvard. E nel loro progetto, infatti, sembrano confluire con molta naturalezza elementi di culture diverse. Per esempio, è inevitabile supporre che quell’idea, così paesaggistica, dei semplici volumi in pietra appoggiati sullo zoccolo del basamento non sia proprio estranea alla stereometria così frequente nell’architettura portoghese, e proprio a iniziare dal progetto di Alvaro Siza a Evora, la città di Teresa. D’altro canto, la libertà d’invenzione e il pragmatismo, nell’organizzare gli spazi e nel modellare la topografia del terreno, sono i caratteri distintivi dell’architettura cinese di oggi. Si pensi, per esempio, al lavoro di Wang Shu che, non ancora cinquantenne, è appena stato insignito del Pritzker Prize 2011. Il suo Amateur Architecture Studio ha prodotto una serie di lavori di grande qualità, e molto diversi tra loro, che ogni volta affrontano il tema e il sito con una libertà d’azione totale, senza porsi il problema di restare fedeli a una data cifra stilistica e formale. Anche il portfolio di Standardarchitecture spicca per la varietà delle soluzioni. Osservando le differenze tra progetto e progetto, si capisce che il team crede nella forza delle proprie idee e ha la consapevolezza che solo portando al suo pieno sviluppo un concept coraggioso, senza timori e senza autocensure, si può ottenere, tanto nell’architettura che nel design, progetti veramente innovativi e originali. E anche questo centro d’arte d’alta quota è un progetto che affronta un tema complesso con leggerezza e con grande autorità. Il segno è forte e preciso, riesce a rispettare profondamente il luogo e, nello stesso tempo, si impone con la forza della propria logica formale, dei propri materiali, dell’invenzione di un paesaggio nuovo ma non alieno. All’esterno, gli spazi sono ben calibrati, con la pietra locale che esalta la geometria irregolare dei volumi, unifica pareti e pavimentazioni in una dimensione quasi vernacolare e trasforma la spianata in una specie di rappresentazione astratta, e scultorea, di un villaggio tradizionale. E anche all’interno, dove i finestroni e i lucernari costruiscono una serie di sguardi incrociati, tra un ambiente e l’altro, che definiscono una specie di paesaggio urbano in miniatura.