Brutalismo e Postmodernismo tornano sulla scena. Ma con nuove rivisitazioni da parte della critica. E anche del pubblico. Tra recuperi architettonici e mostre dedicate

La storia del più recente passato del design torna di interesse. Lo dimostrano una serie di testi e di mostre che prendono in rassegna due movimenti che hanno seguito un andamento altalenante, fatto di ascese e di cadute, e ora tornati alla ribalta. Il primo è stato il Brutalismo, mentre il Postmodernismo è tornato sulla scena da meno tempo. A rendere interessante questo fenomeno è il fatto che, in passato, il secondo ha avuto un ruolo fondamentale
nel superamento del primo. Adesso entrambi attirano l’attenzione della critica e del pubblico, sebbene siano oggetto di una rivisitazione così profonda che farebbe impallidire i loro progenitori. Ernesto Rogers, per esempio, rimarrebbe di certo stupito nel veder chiamare ‘brutalista’ la Torre Velasca, come la definisce un blogger.

Ognuno di questi movimenti nasce dall’invenzione di un critico architettonico e ha avuto avvio dalle idee esposte in un libro. Nel 1966 Reyner Banham ha pubblicato The New Brutalism, sulla base di una tesi che trovava il suo filo conduttore da Le Corbusier agli Smithsons, per dare origine a un movimento che è stato prima ammirato, poi disprezzato, e che è ora considerato parte del nostro passato architettonico. Negli ultimi anni sono stati pubblicati testi come Lost Brutalism, Brutal London, In Defense of Brutalism, SOS Brutalism e, in onore dell’eredità italiana di questo movimento, una serie di poster intitolati “Brutalismo” e molto altro. Le parole ‘cemento’ e ‘brutale’ sono ora ingredienti essenziali di quei titoli destinati a diventare (secondo gli editori) bestseller in campo architettonico. A luglio 2018 il Museum of Modern Art di New York ha inaugurato una mostra sul modernismo jugoslavo dal titolo Toward a Concrete Utopia (Verso l’utopia di cemento).

Non altrettanto concreto è il più recente fascino esercitato dal movimento post-moderno. Charles Jencks, che ha scritto la sua tesi di dottorato con la supervisione di Banham, ha pubblicato The Language of Post Modern Architecture, la sua critica al modernismo, undici anni dopo New Brutalism di Banham. All’epoca, il movimento postmoderno era considerato un vero e proprio attacco al Brutalismo. Ai suoi esordi il Brutalismo era apprezzato nella cerchia dei professionisti e ignorato dal grande pubblico che a questo stile non si è mai appassionato.
Il movimento postmoderno, invece, è stato presentato come populista. Jencks non è stato il primo postmoderno. La Biennale di Architettura di Venezia del 1980 diretta da Paolo Portoghesi, The Presence of the Past, presagiva che cosa sarebbe accaduto, e i suoi precursori sono stati Robert Venturi e Denise Scott Brown. Ma è stato Jencks a dettare l’agenda del decennio. La sua posizione è stata poi compromessa dall’apostasia dei grandi studi architettonici commerciali come KPF e SOM, che hanno cominciato a elaborare versioni proprie del movimento postmoderno. E gli eroi di Jencks – Michael Graves e Aldo Rossi – si sono ritrovati così a ricevere incarichi dalla Walt Disney. Graves ha costruito così tanto che ha finito per perdere la buona reputazione che si era costruito grazie a invenzioni delicate e sensibili con riferimenti a precedenti classici, per progettare enormi complessi turistici considerati sgradevoli e sovradimensionati. Ed è stato proprio questo a provocare l’eclissi del movimento, finito per essere considerato troppo legato al neoliberismo. Alcuni architetti, tra cui Kengo Kuma, hanno poi abbandonato l’iniziale interesse per questo tipo di interpretazione

Chi considera questi edifici orribili, così come è stato percepito l’eclettismo vittoriano che ora tanto apprezziamo, deve compiere un considerevole atto di agilità mentale per accettare il nuovo corso."

Alla riscoperta del movimento postmoderno, Terry Farrell e altri hanno pubblicato libri che cercano di ridare vita a questo movimento. All’inizio del 2018, il Soane Museum di Londra ha organizzato una mostra sulla fase radicale del movimento postmoderno. Ovviamente il lavoro di Ettore Sottsass continua a richiamare l’interesse dei musei, come testimoniano le mostre a lui dedicate al Met Breuer di New York, alla Triennale di Milano e allo CSAC di Parma, sebbene lo stesso Sottsass non si sarebbe mai definito un postmoderno. La nuova ala della National Gallery di Londra di Robert Venturi e Denise Scott Brown è appena stata inserita nell’elenco degli edifici di interesse nazionale. La torre AT&T di Philip Johnson a New York sta per ricevere lo stesso riconoscimento. Chi considera questi edifici orribili, così come è stato percepito l’eclettismo vittoriano che ora tanto apprezziamo, deve compiere un considerevole atto di agilità mentale per accettare il nuovo corso. Anche la decisione del Victoria and Albert Museum di acquisire una sezione di due piani del complesso di case popolari di Robin Hood Lane degli Smithsons e di esporla alla Biennale di Architettura di Venezia del 2018 ha dato da pensare a chi riteneva questi edifici disumanizzanti per chi vi abitava.

Essendo il più recente dei due movimenti, il postmodernismo non è stato ancora reso totalmente innocuo. È sufficientemente forte da essere ancora fonte di controversie. C’è chi ritiene che in architettura il movimento postmoderno abbia fornito un supporto ideologico alla distruzione dell’edilizia popolare nel Regno Unito e negli Stati Uniti. L’uso che Jencks ha fatto della drammatica fotografia della demolizione, realizzata con la dinamite degli appartamenti Pruitt-Igoe a St Louis, è stato un modo per minare la fede nella legittimazione dell’idea stessa di edilizia sociale. Altri giungono addirittura a vedere nel postmodernismo la radice del movimento della post-verità. Questi due ritorni non sono esclusivamente il risultato di una semplice tendenza editoriale. Riflettono il modo in cui vediamo il nostro recente passato e il cambiamento dei gusti nel tempo. James Laver, curatore del Victoria and Albert Museum, negli anni Quaranta del secolo scorso ha formulato quella che egli ha definito scherzosamente (ma non troppo) la legge di Laver, per descrivere l’andamento delle mode. Un abito è indecente quando è troppo avanti rispetto ai tempi. È audace quando è in anticipo di poco sui tempi, ed è elegante se si inserisce perfettamente nel proprio tempo. Poi viene rapidamente considerato obsoleto, per diventare infine orrendo. In seguito, qualcuno lo troverà inevitabilmente divertente, poi carino, indi affascinante, prima di trasformarsi in qualcosa di bello. Laver misurava queste fasi in decenni. Adesso la moda si muove molto più velocemente mentre in architettura questa formula si può ancora applicare.