Una sviluppata da Philippe Starck con Kartell, l’altra da Patrick Jouin con 3DExperience, due nuove sedie pongono l’attenzione sul ruolo che l’intelligenza artificiale potrebbe assumere nella progettazione di oggetti d’uso quotidiano. Non per rubare il lavoro ai designer, ma per migliorare la produzione e l’impatto sull’ambiente

Anche vista da lontano la sedia AI che Philippe Starck ha realizzato con l’Intelligenza Artificiale (prodotta da Kartell, è stata presentata al Salone del Mobile) non potrebbe essere altro che una sedia di Philippe Starck. Eppure lui insiste: “l’ha progettata il computer, non io”, ha detto alla conferenza stampa.

È naturale chiedersi dove risieda il vantaggio di un progetto effettuato da un computer, ma sempre guidato da un designer, se il risultato finale assomiglia in tutto e per tutto a quello che lo stesso designer avrebbe realizzato. Al di là della portata comunicativa dell’operazione, il beneficio reale c’è e si chiama efficienza produttiva.

Non è una novità. Già anni fa nel think tank multi-disciplinare Pier 9 di San Francisco di proprietà di Autodesk, l’azienda che ha fornito a Starck il software che ha generato il progetto di AI, era stato realizzato un piccolo oggetto che sembrava fatto di osso ma che in realtà rappresentava il miglior elemento di connessione possibile tra il manubrio di una bicicletta e il telaio. Un oggetto generato (e poi stampato in 3D) non dall’uomo ma dal computer. A cui il designer aveva però fornito degli obiettivi e dei paletti fondamentali entro i quali muoversi.

Philippe Starck
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Philippe Starck, architetto e designer,è tra i più importanti designer europei. Inizia la carriera con la produzione di mobili gonfiabili nel 1968. Nel 1974 si stabilisce negli Stati Uniti per tornare a Parigi due anni dopo, dove progetta La Main Bleu. Svolge anche attività di architetto, progettando locali a Parigi, New York e Tokyo. Ha disegnato pasta, barche, posaceneri, lampade, spazzolini da denti, maniglie, spremiagrumi, posate, orologi, scooters, uffici, letti, contenitori termici, giocattoli, bagni, televisori, radio...

Perché il design generativo rappresenta un processo in cui il designer comunica con il software (e non a caso Starck stesso ha parlato di un ‘dialogo’ con la macchina) dandogli precisi ordini. Per esempio, quello di disegnare il miglior connettore tra telaio e manubrio in funzione di precisi requisiti: garantire una determinata capacità di assorbimento delle scosse, rispettare le dimensioni minime e massime stabilite, usare la minore quantità possibile di materiale, raggiungere il minor prezzo possibile.

È divertente immaginarsi una stampante che produce pile di fogli di schizzi: in realtà, tutto avviene in un ambiente paperless ma i progetti sono davvero centinaia. Al designer (quello in carne e ossa) sta il compito di selezionare i migliori e magari perfezionarli.

Nell’aeronautica, il design generativo - cioè l’intelligenza artificiale applicata al progetto - è praticato da anni. Nel 2016, infatti, è stata presentata una ‘partizione bionica’ per gli Airbus  sviluppata da The Living, uno studio di sperimentazione di Autodesk con base a New York che applica al design generativo dati provenienti dal mondo biologico. Traforata ma più resistente di quelle attuali, grazie al disegno basato su un algoritmo che imita la crescita delle ossa umane, permette la riduzione del 55% del peso delle pareti interne: il che significa aerei molto più green.

E la stessa Airbus ha deciso di proseguire le ricerche in questa direzione firmando un accordo con il think tank multi-disciplinare 3DExperience di Dassault Systèmes, che già si era distinto per l’invenzione di Catia, il software di design parametrico – l’antesignano di quello generativo – usato da Frank Gehry per le sue architetture a partire dal Peix d’Or di Barcellona del 1992.

“È stato Starck a proporci questo esperimento”, racconta Lorenza Luti di Kartell. “Philippe era in contatto con Autodesk, che possedeva il know how tecnico per realizzare un progetto del genere ma non aveva mai lavorato nel mondo dell’arredo. È vero che il prodotto finale ha inevitabilmente ‘un’aria Starck’, ma questo perché lo sviluppo si è avvalso della sua regia: Philippe ha infatti fornito all’algoritmo gli input principali, insistendo sulla necessità di avere meno materiale possibile e affinando poi il risultato formale. Ma angoli, raggiature e curvature, nonché l’apertura a V rovesciata sul retro, sono state concepite dalla macchina per ottimizzare il rapporto tra struttura, peso e quantità di materiale utilizzato”.

Il vero vantaggio di usare gli algoritmi per produrre una sedia, spiega Luti, sono produttivi. Anche quando ci si avvale di stampi tradizionali e non di stampa 3D. “Innanzitutto abbiamo impiegato mezzo chilo di materiale in meno”, precisa. “Che su una sedia di circa 5 chili significa una differenza consistente. E siamo riusciti a ridurre in modo sostanziale i tempi di sviluppo del prodotto”.

Il prodotto finale ha inevitabilmente ‘un’aria Starck’, ma questo perché lo sviluppo si è avvalso della sua regia: Philippe ha infatti fornito all’algoritmo gli input principali, insistendo sulla necessità di avere meno materiale possibile e affinando poi il risultato formale (Lorenza Luti)"

Tradizionalmente, infatti, dalla fase del disegno alla prototipazione (anche usando quella rapida in 3D) per arrivare all’industrializzazione passano almeno due anni. “Ma non in questo caso. Nonostante lo sviluppo di AI sia partito a ottobre, la sedia è arrivata nei negozi a luglio. Perché il computer genera il disegno ottimale per far sì che i flussi del materiale liquido coprano alla perfezione tutto lo stampo e lo distribuiscano in modo da creare la struttura solida più funzionale. La riduzione di tempi, risorse e materiali è strabiliante”.

Malgrado alcune affermazioni iperboliche di Starck (davanti alla domanda di Wired: “lei prospetta la fine dei designer umani”, la risposta è stata: “certamente, è una prospettiva che non mi fa paura”), l’intelligenza artificiale non costituisce quindi una minaccia per la creatività umana.

“Al contrario”, dice Anne Asensio, capo Design, Upstream thinking, Innovation and Experience Design di Dassault Systèmes. Che proprio all’ultimo FuoriSalone, all’interno dell’evento Design in the Age of Experience a Superstudio Più, ha presentato la sedia Tamu progettata da Patrick Jouin con 3DExperience (il già citato think tank che lavora con Airbus) usando il design generativo.

Patrick Jouin
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Nato a Nantes nel 1967, Patrick Jouin si diploma all’Ensci-les Ateliers. Lavora come designer alla Compagnie des Wagon-lit e inizia una breve collaborazione con un’azienda produttrice di televisori, sotto la direzione artistica di Philippe Starck, nel cui studio lavorerà fino al 1999. Jouin firma le proprie creazioni dal 1998: sedie, divani e letti, un progetto d’auto e stand per vari saloni dell’automobile, in collaborazione con Imaad Rahmouni. La collaborazione con Alain Ducasse, cuoco francese, lo porta alla ribalta internazionale: per lui realizza ristoranti a Parigi e a New York, progettando l’architettura d’interni e l’arredamento.

“La gente ha un’idea fantasmagorica delle macchine. In realtà, quello che i programmi di generative design fanno è creare uno spazio in cui l’uomo può proporre qualcosa di nuovo e migliorato rispetto all’esistente. All’interno di questo scenario, il designer rappresenta l’intenzione, l’inventiva. Il software è uno strumento potentissimo che gli permette di arrivare dove non avrebbe mai potuto. Per esempio, per rendere un oggetto meno impattante a livello ecologico: più compatto per il trasporto, più leggero, realizzato con una minore quantità di materiale ma con uguale resistenza e durabilità. Gli algoritmi generativi ci permettono anche di riprodurre esattamente il modo in cui un materiale naturale cresce e di imitarne il divenire, secondo un approccio che spesso si chiama biomimetismo”.

È proprio questo il caso di Tamu: la novità della seduta risiede infatti nella replica di processi organici che rende più semplice la progettazione e la stampa in 3D, usando una quantità minima di materiale. E nell’idea di una seduta piegata su se stessa, che da piatta diventa tridimensionale con una mossa sola.

Non scompariranno quindi i designer. Ma dovranno sapersi evolvere. “E cambiare il modo di pensare”, continua Asensio. “La sfida non è più legata a funzione e forma, perché con il generative design non si progetta solo quello che si vede ma anche la natura strutturale dei prodotti: quindi il materiale stesso, che viene inventato a seconda del peso che si vuole ottenere, delle forze in gioco e dell’uso che si farà di un prodotto. Per questo i nuovi designer dovranno necessariamente lavorare in team, capire in profondità i materiali sintetici, avere nozioni di biologia”.

La gente ha un’idea fantasmagorica delle macchine. In realtà, quello che i programmi di generative design fanno è creare uno spazio in cui l’uomo può proporre qualcosa di nuovo e migliorato rispetto all’esistente. (Anne Asensio)"

E sviluppare un linguaggio comune con le macchine che usano una logica diametralmente opposta alla loro. Gli algoritmi, infatti, procedono analizzando dati e si muovono all’interno di una scatola ben definita. “I progettisti, quelli bravi, pensano e inventano al di fuori di schemi predefiniti”, precisa Asensio.

“Invece di arroccarsi su posizioni di sfida ai computer, dovrebbero quindi capire cosa può fare l’algoritmo per aiutarli a essere ancora più inventivi. È una questione di formazione e non a caso stiamo già lavorando con tante scuole in tutta Europa. Tutto questo ci permetterà di vedere il mondo con occhi diversi. Le macchine saranno per il design quello che la fotografia è stata per l’arte: un glorioso nuovo inizio, un cambio di prospettiva che ha portato i grandi autori a esplorare oltre il visibile, con l’espressionismo, il cubismo, il concettuale...”.

Secondo Daniele Speziani, ceo di Phitec Ingegneria (uno studio di Rivoli, riconosciuto nel mondo e  specializzato in simulazioni numeriche e design generativo applicato alla ricerca e sviluppo di prodotti – soprattutto per l’automotive), è bello che si parli di algoritmi applicati al design dell’arredo. Speziani interviene spesso ‘da dentro’ su prodotti già in commercio, calcolando come eliminare materiali e ridisegnando elementi che erano stati ‘over-progettati’.

“Sono errori che si sarebbero potuto evitare. Ecco perché è bene che si parli di queste cose: essendo un mondo sconosciuto fuori dalla nicchia degli specialisti del settore, pochi designer e imprenditori sanno quali sono le potenzialità che offre il generative design. Occorre applicarlo fin dall’origine di un progetto, per arrivare a risultati – in termini di ottimizzazione delle risorse e sostenibilità – decisamente di impatto”.