La casa del presente digitale assomiglia sempre più alla casa del passato analogico. Lo dimostra il design di tanti strumenti tecnologici dal contenuto antropologico ed emozionale, incline ad accogliere la cura dei materiali, la lavorazione artigianale e il gusto dell’imperfezione

Una hostess si muove lenta su un’astronave, impedita nei passi dalle speciali calzature che la tengono agganciata alle superfici ed evitano che svolazzi nell’assenza di gravità del volo spaziale. Sorride affabile mentre si arrampica con un vassoio in mano lungo le pareti per poi servire il pranzo all’astronauta che, da lì a poco, si imbarcherà sulla Discovery e inizierà il difficile rapporto con Hal 9000, il soave computer di bordo di 2001: Odissea nello spazio.

Quella breve scena di folclore fantascientifico, che tanto ha fatto per aiutare il mondo a immaginare un futuro che nel 1968 pareva molto vicino, ha una qualità evidente: il silenzio. O meglio: un rumore di fondo che Stanley Kubrick definisce industrial noise ed è una espressione impeccabile della coabitazione fra uomo e tecnologia. Un silenzio che i tecnici audio chiamano rumore rosso o browniano, usato da Kubrick come contrappunto a voci e suoni forti, che inevitabilmente creano una faticosa suspense per la tutta la durata del film. Quel viaggio nella relazione fra intelligenza organica e intelligenza artificiale che, a distanza di cinquant’anni, ancora provoca qualche brivido di paura e un senso di rifiuto.

Kubrick immaginava l’habitat umano-tecnologico come un luogo silenzioso, in cui non si sprecano né parole né gesti, i suoni sono ovattati e le macchine mormorano costantemente il loro suono a bassa frequenza, nascondendosi alla vista. Ma è ormai chiaro che quel mondo non piace e che la tecnologia del XXI secolo non assomiglia a Hal 9000, perlomeno quella con cui coabitiamo e che usiamo nelle nostre case. Il livello di riproduzione e trasmissione di immagini e suoni è oggi eccellente, superiore a quello che noi esseri umani possiamo percepire e apprezzare. La tecnologia è ‘piccola’, tende a smaterializzarsi. Gli oggetti che la supportano potrebbero svanire, rendersi invisibili. Ma inaspettatamente non lo fanno, anzi. Come aveva capito Stefano Marzano, chief designer e ceo di Philips fin dal 2011, la casa del presente tecnologico è uguale alla casa del passato analogico. E gli abitanti del mondo occidentale a volte sembrano dei Fred Flintstone con automobili di pietra magistralmente scolpite a mano dotate però di Bluetooth e impianti audio impeccabili.

Quando addirittura non si dilettano di un ritorno al low tech, all’imperfezione dell’archeologia digitale. Rod White, che da Philips TV Sound and Vision prosegue il lavoro iniziato da Marzano e oggi è chief designer di TP Vision, conferma: “Abbiamo immaginato per un po’ di tempo di progettare le forme della tecnologia con un’attitudine e una qualità maschili: linee rette e geometrie razionali, nessuna concessione a riflessioni progettuali che non fossero espressione delle funzioni e di un’estetica a loro conseguente”. Ma fondare una via europea al design della tecnologia ha significato, per Marzano prima e per Rod White dopo, guardare in un’altra direzione. “Disegnare un televisore significa coglierne il contenuto antropologico e, soprattutto, uscire dalla confort zone dell’essenzialità”.

Un’operazione che per White corrisponde ad abbracciare un atteggiamento di curiosità e di interesse per le qualità femminili del design. Che si traduce nel dialogo coi materiali, con la loro lavorazione artigianale e con le competenze e la tradizione manifatturiera che la rende possibile. La partnership con Georg Jensen, che ha portato al lancio del Georg Jensen 9104 TV, è il risultato di una ricerca intorno alle qualità della materia, ai suoi comportamenti in relazione all’ambiente, alla luce e alle forme. Un lavoro che Rod White descrive come “molte ore di ricerca negli archivi di Georg Jensen, che raccolgono il sapere intorno ai materiali e alla loro relazione con le forme e la luce”. Un’escursione in un mondo progettuale apparentemente molto distante dalla tech company, eppure necessario. “In questo modo”, spiega White, “ho potuto guardare alle cose in modo poetico, metaforico, includendo la presenza dell’intervento manuale in un oggetto hi-tech”.

Si parla molto di tecnologia ‘calda’, Ma Rod White in realtà suggerisce altro, si immerge in temi che riguardano le scienze umane e osserva abitudini, aspettative, comportamenti dell’uomo nei suoi habitat più sensibili. L’uomo circonda la tecnologia, la include. Il lavoro progettuale rende possibile l’equilibrio di questa relazione e concede, con segni minimi eppure molto potenti, di rimanere umani anche davanti alla perfezione delle funzioni. Di pretendere che i tech tool siano parte della scenografia emozionale e parlino la lingua imperfetta, ambivalente e poetica di noi umani. Che si possano manipolare, sentire, amare anche perché sono portatori di qualità manifatturiere e di materie tradizionali.

La storia di Victrola è un esempio chiaro. L’azienda nasce del 1903 nel New Jersey per produrre e commercializzare le voice machines, i primi giradischi. Prestissimo, nel giro di due o tre anni, diventa anche la prima casa di produzione musicale: His master’s voice / La voce del padrone. Tutto farebbe pensare che dai dischi in vinile ai file musicali digitali, il concetto del mobile giradischi si sia perso per strada. Invece Victrola è ancora un produttore di pezzi di arredamento destinati alla riproduzione audio. Oggi i giradischi a valigetta o i mobili radio sono dotati di tecnologie Bluetooth e di riproduzione del suono all’avanguardia. Ma fuori, intorno al cuore tecnologico, c’è ancora Victrola, con i materiali pregiati, il progetto scrupoloso e equilibrato delle manopole, lo streamline facile e seducente.

Lo stesso pensiero che ha informato il lavoro dei fratelli Bouroullec quando hanno disegnato per Samsung il televisore Serif. Una cornice self standing che, volendo, si appoggia a piedi di memoria retrò e inquadra le immagini concettuali di una funzione Ambient anch’essa progettata dal duo francese. Un oggetto su cui posare oggetti, da infilare in una libreria come una vecchia foto, da mettere in mezzo al soggiorno e girarci intorno, tanto è bello da qualsiasi parte lo si guardi, come un pezzo disegnato negli anni ’50 da Saarinen. I confini tra analogico e digitale si fanno sempre più rarefatti.

L’imperfezione, l’intervento manuale, la possibilità di far scomparire lo strumento hi-tech per mimetizzarlo fra le altre presenze domestiche e ricondurlo per mano a una molto umana quotidianità. È quello ha fatto anche Polaroid, tornando a produrre i modelli Instamatic senza quasi toccare le forme originali, proponendo al mercato un oggetto francamente superato e rudimentale, come era tipico della tecnologia anni ’70. Il lavoro innovativo è stato fatto invece sulle pellicole, che danno effetti blur, fané, caldi, freddi, cremosi. Basta scegliere, come se Instagram fosse improvvisamente diventato analogico. Un oggetto tridimensionale che esegue fotografie che si toccano, non immagini social.

Cosa ne faremo? Probabilmente le appenderemo come preziosi cimeli a frigoriferi dalle linee tonde, in cui si solidifica il ghiaccio da buttare in un bicchiere di cedrata Tassoni. E il televisore intanto riproduce impeccabilmente immagini e suoni di un episodio di Fireplace, di Netflix. Il camino televisivo che ci ricorda in versione high fidelity l’irresistibile bisogno di sicurezza, calore e condivisione di noi umani che viviamo intorno alla tecnologia.