Foto di Helenio Barbetta
Testo di Antonella Boisi
“L’hanno trasportata in cinque, imbragata dentro una cassa di legno, su per le scale fino al quinto piano: la lastra in marmo bianco di Carrara spessa tre cm, stondato sui bordi e fresato con un’incisione di un mm a rappresentare, con la trama di un tartan esploso, l’ immagine di una tavola da picnic. Davvero un’impresa” racconta l’architetto-designer Diego Grandi, romagnolo d’origine e milanese d’adozione, che ha trovato casa in città all’ultimo piano di un palazzo signorile anni Venti in zona Città Studi.
Partiamo dal tavolo, piano marmoreo e base in metallo, tre mesi di prove e campionature, perché ben racchiude lo spirito della sua poetica progettuale in trasferta negli 80 mq di un appartamento di stampo tradizionale (ingresso, corridoio centrale, infilata di stanze sui lati) dove nulla è stato lasciato al caso. Il rigido impianto preesistente è stato reinterpretato a favore di un open space di 36 mq che integra ora in un tutt’uno flessibile e controsoffittato le aree d’entrata, living, pranzo e cucina (quest’ultima collocata dov’era in origine l’ingresso), per poi ridefinire il corridoio di disimpegno che introduce, da un lato l’ambiente studio, dall’altro il nuovo ampio bagno e, sul fondo, come conclusione prospettica, la camera da letto corredata di cabina-armadio confinante con la parete attrezzata a libreria.
Di questo microcosmo “a room is the beginning of a city” citando Richard Rogers, sono interessanti soprattutto i dettagli che disegnano, con chirurgici tagli grafici, rigore di linee e di forme, pieni e vuoti, un’atmosfera di estrema pulizia visiva. E non solo. Dal tavolo al letto, dal bagno alla cucina, dalle librerie alla panca, dai contenitori alle porte a tutt’altezza, ogni elemento doveva infatti in primis rispondere a un intento specifico, spiega Grandi: “produrre un effetto di espansione illusoria, di dilatazione spaziale, quasi di straniamento visivo alla Escher, restituendo profondità di campo a un involucro dalle dimensioni contenute”.
Non c’è da stupirsi. La cifra progettuale di Diego ha sempre visto l’architettura interagire con gli oggetti tramite un sapiente lavoro sulle superfici che diventano trama di segni e significati, pattern materici e cromatici cangianti, decorazione non certo fine a se stessa. Soprattutto quando il pensiero della sua mano interpreta la prediletta ceramica, colore e matericità su lastra sottile, diventando strumento di percezione spaziale in 3D. Punti forti e precisi si declinano, dunque, nelle stanze. A partire dalla quinta con alette laterali che veicola l’attenzione appena entrati, inquadrando, come una cornice teatrale, le tende in cotone grigio tinta unita, sipario delle due aperture-belvedere sulla città. Tra queste, al centro, un basso contenitore a doghe bianche integrato alla parete, resta al servizio dell’isola living, popolata di arredi e oggetti selezionati dalla migliore antologia del design internazionale.
Sul lato opposto si sviluppa, invece, in modo continuo e fluido la zona pranzo comunicante visivamente con la cucina delimitata da una vetrata trasparente a tutt’altezza scorrevole: una scena neutrale, nei toni del bianco e del nero, del blu e del grigio, nuances calde e fredde, l’effetto vellutato di una finitura in smalto opaco grey che satura la lunga parete e la panca corredata di cuscini. Nell’alchimia d’insieme, l’unico elemento di contrappunto dinamico è rappresentato proprio dall’ortogonalità distorta proposta dal rivestimento ceramico della cucina che interrompe la pavimentazione uniforme a doghe di quercia. Una soluzione ad alto effetto di tridimensionalità e amplificazione prospettica, che si valorizza incontrando la luce modulata con la regia di due binari paralleli fissati al controsoffitto per tutta la lunghezza dell’ambiente living. Questi integrano sia i faretti (prototipo) chiamati a sottolineare in modo discreto la sorpresa dei quadri impaginati sulle pareti che le lampade anni Cinquanta di design scandinavo riposizionabili alla bisogna sul conviviale tavolo marmoreo.
Il concept del binario è un punto forte del progetto che ritorna nell’ambiente bagno, dove lavabo e accessori restano flessibili nella configurazione, proprio grazie alla barra a muro sulla quale scorrono, mentre il ricercato effetto di sfondamento tridimensionale ritorna sostenuto nello spazio, in tutta la sua ampiezza espressiva, grazie alle geometrie della ceramica che riveste come un fondale le pareti della doccia. “C’è una storia dietro alcuni miei progetti. Le ceramiche, ad esempio, della serie Mauk si ispirano al lavoro di Escher (Mauk era il nickname di Escher); come il tappeto nel living disegnato per Skitsch riproduce una porzione di mappa di Milano postnapoleonica… intrecci di pieni e di vuoti e di percorsi di vita” racconta.
Alla fine, in questa “casa come me”, risulta sottotraccia ma ben percepibile proprio il piacere intellettuale dell’autore per quei segni della memoria in grado di suscitare, tra vintage contemporaneo e citazioni colte, sensazioni di preziosità: il vaso di artigianato francese in vetro soffiato, i piatti Lavenia anni Trenta di Guido Andlovitz, le opere di Giovanna Sarti, Peter Würthrich, Guido Guidi, Luigi Ghirri, Roberto Maioli, Tim Ellis. Piccole perle. Ciascuna racconta a modo suo una storia, per affinità elettive riconducibile alla poetica di Grandi. Come la bellissima poltrona Swan di Fritz Hansen, scelta nella versione in pelle naturale. Dichiara “con la mappa del suo dna già impressa in ogni punto del rivestimento, che è pronta a trasformarsi, trovare nuovi colori e invecchiare con me. Come la casa”.
Foto di Helenio Barbetta
Testo di Antonella Boisi





