Foto di Luc Boegly, Maxime Delvaux, Matteo Vercelloni
Testo di Matteo Vercelloni

“Architetti. Imbecilli tutti. Dimenticano sempre le scale delle case”. La famosa massima che Gustave Flaubert dedicava agli architetti nel suo Dizionario dei luoghi comuni, Catalogo delle idee chic, Sciocchezzaio, pubblicato in appendice al romanzo Bouvard e Pécuchet, scritto tra il 1874 e il 1880 e rimasto incompiuto, non sembra valere per questa radicale edizione autocelebrativa del Koolhaas-pensiero della Biennale di Architettura in corso a Venezia.

La scala, infatti, insieme al tetto e al pavimento, al corridoio e alla facciata, alla finestra e al soffitto, alla porta e alla rampa, all’ascensore e alla scala mobile, al gabinetto e al camino, al muro e al balcone, costituisce il ‘cuore’ della mostra nel Padiglione Centrale ai Giardini. Una serie di elementi assunti quali ‘ingredienti fondamentali’ appunto di ogni costruzione, “usati da qualunque architetto, in qualsiasi luogo e in qualsiasi momento” e qui annunciati dal portale cinese della tarda dinastia Qing (XIX secolo), ricostruito in modo impeccabile quale archetipo di riferimento dalla Xiegu Construction all’ingresso dei Giardini e affacciato sulla laguna.

Sono Fundamentals offerti in una visione che unisce all’innegabile catalogazione tardopositivistica il sapore d’indagine parte di quella “psicostoria analitica” che Koolhaas inaugurava nel 1978 con il suo ‘fondamentale’ – questo sì – Delirious New York, magistrale ritratto storico-progettuale di New York (pubblicato per l’edizione italiana da Electa nel 2001). Per parallelismo e confronto, ad esempio, rispetto alla collezione veneziana di finestre, parte dell’archivio di Charles Brooking, chiamate a comporre una composita parete come in un museo ottocentesco, ci piace ricordare la validità innovativa della ricerca WindowScape Window Behaviourology (raccolta nell’omonimo volume edito da PageOne) sullo stesso tema, condotta da Yoshiharu Tsukamoto Laboratory del Tokyo Institute of Technology e offerta all’evento di Interni dello scorso aprile a Milano con l’installazione dell’Atelier Bow-Wow.

Qui l’elemento finestra, indagato nel tempo e nei Paesi del mondo, è rapportato all’idea di spazio e di soglia che crea tra interno ed esterno, affrontato in chiave architettonica e spaziale, lontano da ogni catalogazione e rassegna tipologica, che forse i singoli piccoli cataloghi dedicati ad ogni elemento della mostra veneziana cercano di colmare con argomentazioni storiche e sociologiche. Ma che la rassegna in sé non riesce a disvelare.

Al viaggio tra gli “elements of architecture”, risultato di due anni di lavoro con la Harvard Graduate School of Design, introdotti da un suggestivo collage cinematografico di David Rapp che anticipa la serie di stanze dedicate, si affianca la sezione Monditalia alle Corderie dell’Arsenale. Qui, dopo avere oltrepassato lo spettacolare portale iridescente in bilico tra il Fellini di “8 e mezzo” e le luminarie delle feste paesane -“in un momento di trasformazione politica cruciale, abbiamo scelto di guardare all’Italia come a un Paese ‘fondamentale’, unico nel suo genere ma anche emblematico di una situazione globale nella quale molti Paesi si trovano in bilico fra il caos e la piena realizzazione del loro potenziale”.

Koolhaas, insieme a Ippolito Pestellini Laparelli, partner di OMA e curatore dell’allestimento degli spazi alle Corderie, dedica al Bel Paese un viaggio zig-zagante tra casi specifici, scanditi dallo scenografico tendone su cui è stampata la Tabula Peutingeriana, mappa dell’Italia Imperiale del V secolo (in realtà quella riprodotta è copia del XII-XIII secolo di quella originale andata distrutta). I 41 casi affrontati, accompagnati da spezzoni di 82 film, formano una sommatoria metastorica di un ritratto globale che appare però affastellato e interrotto da positivi momenti di performance teatrali, che sembrano suggerire quanto sia importante il ruolo delle persone e della loro vita nel progetto di architettura e del farsi urbano in senso lato.

Dopo una pausa misteriosa tra le ombre dell’allestimento onirico della Thailandia, progettato dallo studio OBA guidato da Smith Obayawat, il primo riscatto a questo viaggio di suggestioni, testimonianze cinematografiche e casi emblematici raccontati in vari modi, si incontra alla fine delle Corderie con il padiglione del Marocco, a cura di Tarik Oualalou per la Fondation pour L’Art, Le Design et l’Architecture.

Sotto un soffitto composto da proiezioni dedicate alle case delle città marocchine si confrontano, tramite modelli in scala, tipologie abitative storiche con sperimentazioni per abitare il deserto; il Sahara come spazio possibile, cui il pavimento di sabbia dell’allestimento si rapporta in modo diretto. Nello spazio esterno ci si imbatte in una colonna di marmo, silenziosa e possente, distesa verso il bacino interno, che sembra essere appena arrivata da lontano.

Opera dell’artista albanese Adrian Paci, la colonna costituisce il cuore della presenza dell’Albania(che delega a due artisti la presenza alla Biennale). Questa sì ‘elemento fondamentale’ di ogni architettura, la colonna di ordine corinzio (avremmo preferito l’ordine dorico, ma siamo pur sempre a Venezia) sbarcata all’Arsenale, è parte di una performance offerta in un filmato che vede il blocco marmoreo partire dalla Cina ed essere lavorato a mano en plein air, nel ventre del barcone metallico durante il suo viaggio di arrivo in Europa. Un modo per ricordare, non solo un elemento archetipo dell’architettura, ma la fatica dell’uomo nel costruirla.
Il Padiglione Italiacurato da Cino Zucchi è dedicato al tema dell’innesto, della rivalutazione del tessuto urbano come risorsa di confronto e dialogo, dove Il nuovo come metamorfosi, Milano-Laboratorio del Moderno e Italia un paesaggio contemporaneo sono organizzati in un allestimento chiaro e convincente illuminato da Artemide esteso all’esterno con il portale metallico Archimbuto (destinato probabilmente ad essere permanente) e nel giardino retrostante con il Nastro delle vergini sinuosa panca paesaggistica, realizzati su disegno da De Castelli con Lavazza.

Zucchi affronta la storia di Milano, la sua città, senza complessi; parafrasando Savinio, ascoltando il cuore della città, le sue storie i suoi protagonisti “dove un moderno orgoglioso è capace al contempo di adattarsi al contesto, di farlo suo e di trasfigurarlo all’interno di una nuova visione urbana. La metropoli milanese è quindi considerata come un case study di estremo interesse, capace di rivelare al meglio il carattere particolare della cultura architettonica italiana dell’ultimo secolo”.

Una cultura che si ritrova nella selezione dei progetti del paesaggio contemporaneo, dove in modo ‘anonimo’ ogni architettura è presentata con una sola immagine (per trovare solo in un pieghevole di accompagnamento i credit dei progetti) così da enfatizzare in chiave soggettiva il viaggio per immagini proposto dal percorso di allestimento e dal montaggio a cura di Studio Azzurro dei filmati pervenuti da tutta Italia. Meno convincenti invece appaiono le ex-tempore dei futuri possibili del dopo EXPO Milano 2015, esercitazioni di sapore troppo scolastico che non raccontano le vere esperienze progettuali sperimentali in corso, quali l’operazione dei padiglioni Cluster, nuovo valido modello espositivo definito da EXPO e dal Politecnico di Milano con varie Università del mondo.

Come già accennato, merito di questa edizione della Biennale e del suo guru-curatore Rem Koolhaas, se da un lato è stato quello di evitare la strada (in parte percorsa in alcune passate edizioni) di rivestire del ruolo di artisti gli architetti, con installazioni che non appartenevano a nessuno dei due ambiti disciplinari, il tema Absorbing Modernity ha portato ogni Paese a raccontare le sue storie declinate per elementi, casi, documenti e confronti (è il caso del padiglione sudcoreano, Crow’s Eye View: The Korean Peninsula curato da Cho Min-Suk, ex OMA e considerato una delle promesse del panorama mondiale, vincitore del Leone d’Oro per la migliore partecipazione Nazionale).

Il composito panorama ha offerto molti temi di grande interesse come quello della prefabbricazione affrontato dal Cile (Leone d’Argento) con la mostra Monolith Controversies dedicata alla prefabbricazione del pannello cementizio per strutture residenziali e in parte dalla Franciacon il padiglione curato da Jean-Louis Cohen (menzione speciale) con Modernity: promise or menace?, dove il plastico dell’ipermoderna e automatizzata ‘villa Arpel’, protagonista insieme a Jacques Tati del film Mon Oncle (1958), è assunto come metafora e minaccia di un modernismo poi affrontato per alcune componenti specifiche: dal pannello sperimentale metallico di Jean Prouvé a quello della prefabbricazione pesante che oscilla tra “economia di scala e monotonia”.

La Russia propone una sorta di fiera dell’architettura con stand concettuali, dedicati ad architetti e ad esempi reali, in cui si mischia in modo ironico e sapiente storia e contemporaneità con punti espositivi che si chiamano, solo per citarne alcuni, Lissitzky e VKhUTEMAS (avanguardie costruttiviste); Chernikhov Creative Solutions o Shaping Inspiration. In quest’ultimo, ‘forme architettoniche’ astratte (derivanti da una lettura della stagione delle avanguardie architettoniche del Paese) sono affiancate una all’altra nella forma di modelli sulle mensole del display come prodotti in vendita, a disposizione dell’acquirente.

Agli interni sono dedicate alcune interessanti installazioni come quella declinata per stanze sensoriali della Danimarca; il bungalow del Cancelliere a Bonn ricostruito nel Padiglione della Germania, quale rappresentazione domestica del potere politico; gli uffici degli Stati Uniti d’America catalogati come in un archivio a disposizione del visitatore-critico (nessuna sintesi è offerta dalla lettura sistemica); le due microarchitetture verticali della Finlandia, una costruita secondo le tecniche tradizionali dell’architettura lignea del Paese, l’altra gemella in bambù realizzata dalla Biennale di Shenzhen in Cina, solo per citarne alcune.

È tuttavia il Belgio, già nelle edizioni passate impegnato sul tema degli interni, a emergere per intensità e ricerca sugli spazi vissuti. Intérieurs. Notes et Figures curata da Sébastien Martinez Bart, Bernard Dubois, Sarah Levy, Judith Wielander, affronta il tema degli interni domestici tramite una campagna fotografica appositamente promossa dedicata agli spazi vissuti del Paese. “Gli interni sono una nozione fondamentale della concezione architettonica […] Una visione opposta del pensiero moderno come fenomeno di assorbimento; la considerazione di un patrimonio d’interni rivela un’architettura vernacolare che porta a considerare piuttosto come la modernità stessa sia assorbita [dal quotidiano e dalla vita di ogni giorno]”.

Al catalogo, rassegna e sintesi dell’indagine sul campo, con il repertorio fotografico degli interni celati dietro le facciate moderniste, corrisponde nell’installazione veneziana un’astratta stilizzazione degli elementi topici incontrati; bianche e minimali esibizioni tipologiche rapportate alla fotografia-documento di riferimento.

 

Matteo Vercelloni

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Il portale d’ingresso ai Giardini della Biennale; portale cinese della tarda dinastia Qing (XIX secolo), ricostruito dalla Xiegu Construction.
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La colonna di marmo opera dell’artista albanese Adrian Paci, parte dell’allestimento Potential Monuments of Unrealised Futures, partecipazione dell’Albania. L’opera, The Column, è parte della performance documentata nel film proiettato nello spazio espositivo; un racconto visionario che descrive l’estrazione di un blocco di marmo da una cava cinese e la sua successiva lavorazione nella forma di una colonna di ordine corinzio. La lavorazione avviene in mare, per mano di operai che formano un tutt’uno con la scultura, con la quale viaggiano giorno per giorno all’interno di una nave-officina, la cui destinazione appare incerta.
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Uno scorcio della sala del Padiglione Francese, Modernity: promise or menace? con i pannelli metallici sperimentali prefabbricati di Jean Prouvé. Foto Luc Boegly
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Vista della parete classificatoria di finestre, parte della collezione di Charles Brooking, ospitata nella sezione Fundamentals al Padiglione Centrale dei Giardini.
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Vista del portale iridescente che segna la soglia d’ingresso alla sezione Monditalia alle Corderie dell’Arsenale. Il portale è stato realizzato con la partecipazione di Swarovski.
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L’ Archimbuto disegnato da Cino Zucchi per l’ingresso al Padiglione Italia, realizzato da De Castelli con la partecipazione di Lavazza.
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Uno scorcio della sala dedicata alla ‘Città che sale’, un confronto figurativo e formale sui grattacieli di Milano. Progetto luce di Artemide, main sponsor.
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Padiglione del Marocco; in primo piano il progetto “sottosopra” dello studio Linna Choi & Tarik Oulalalou – Kilo per un modello di residenze da costruirsi nel deserto del Sahara. Foto Luc Boegly
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Il suggestivo scaffale di ‘prodotti in vendita’ dello stand Shaping Inspiration nel padiglione Russo. Come oggetti da commercializzare per il migliore acquirente i modelli delle architetture derivanti da una lettura della stagione delle avanguardie architettoniche del Paese, affiancati uno all’altro, in un serrato confronto formale.
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Un interno domestico parte della ricerca fotografica sugli spazi privati vissuti del Belgio cui la mostra Interieurs. Notes et Figures si riconduce. Foto Maxime Delvaux
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Un'immagine dell’allestimento minimale e tipologico del Padiglione del Belgio. Foto Maxime Delvaux
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Un'immagine dell’allestimento minimale e tipologico del Padiglione del Belgio. Foto Maxime Delvaux