Di Chiara Alessi

Forse c’è spazio in Italia perché il design si affermi come nuovo e prescelto agente della riflessione politica e come strumento della sua critica sociale, economica e di genere. E questa di per sé è una notizia, anche se in parte anticipata da alcuni analoghi esperimenti rilevanti nell’ambito dell’architettura contemporanea.

Intendiamoci: ciò non sostituirà il design di prodotto e nemmeno il design dei processi e della produzione così come li conosciamo tradizionalmente o abbiamo visto instaurarsi nell’ultimo decennio, ma se siamo abbastanza bravi potrà affiancarne le prassi e moltiplicare i risultati.

Quindi non parliamo di design politico o sociale nel senso che sfocia in manufatti (di piccola, media o grande scala) come per esempio quelli che abbiamo potuto apprezzare in due importanti mostre straniere proprio quest’anno – “Disobedient Objects” al V&A di Londra o “Design and Violence”, in progress al MOMA di New York – e neanche di design come critica sociale e politica inscritta nell’approccio al progetto e alla sua produzione, in Italia così notevolmente risolto in esempi degli anni Settanta poi studiati e aggiornati a cavallo degli anni Zero da una generazione di mezzo ‘impegnata’.

Si tratta, ribadisco, di ‘momenti’ o accadimenti – e non a caso la performance ha molto a che fare con questi episodi – in cui il design concentra nell’azione il suo essere media e contemporaneamente il suo essere contenuto della riflessione. Il design è allora un concentrato significativo intorno a cui scatenare, tramite strumenti che appartengono al design stesso, riflessioni che hanno un portato, appunto, economico, politico, antropologico.

Vorrei proporre come esempi di questa ‘buona nuova’ tre particolari esercizi politici: il lavoro di Martina Muzi con “Cargocollective”, quello di Giovanni Innella con “IoRS – Institute of Relevant Studies” e le ricerche del collettivo Brave New Alps, che ricordiamo già come motore, insieme al Cantiere per pratiche non-affermative, dell’importante inchiesta sull’economia dei giovanissimi designer (vedi Designers’ Inquiry, 2012). Tre esempi di realtà italiane che, forse non a caso, si sono configurate all’estero, pur continuando a mantenere l’Italia come sponda prediletta del loro dialogo.

Il termine stesso ‘esercizio’, che alcuni di loro nominano spontaneamente raccontando i propri progetti, non è casuale ed è preso in prestito dal lavoro esperienziale che da qualche anno il designer Riccardo Blumer ha avuto la felice intuizione di portare avanti nei suoi corsi di studio con le Università: “Si può riassumere tutto nel concetto che io chiamo ‘fare conoscenza’ nel senso di progettare esercizi di verità che la scuola non ti insegna a fare, trovare elementi che costituiscano una capacità critica sul mondo”.

Da quella che loro stessi definiscono una specie di ‘allergia’ a certi modi schizofrenici del design e delle sue pratiche affermative, nasce il progetto COMUNfARE: la parte pratica di un dottorato ‘by practice’ che Fabio Franz di Brave New Alps ha iniziato a ottobre 2014 alla Sheffield School of Architecture con Doina Petrescu come relatrice. In questo caso ci troviamo di fronte a una riflessione sulla collettività, la relazione e, appunto, il fare comune come base di “un percorso partecipato e inclusivo che cerchi di fronteggiare, in una situazione di apprendimento condiviso, gli effetti negativi dei diversi tipi di crisi che stanno mettendo alla prova la società contemporanea, tanto a livello mondiale quanto in una dimensione locale, interrogandosi di volta in volta sulla capacità di tali attività di rendere la comunità coinvolta più resiliente”.

Se il presupposto del progetto muove da considerazioni che cavalcano volente o nolente un tema caldo (e in certi casi strumentalizzato) della politica, come la salvaguardia dei saperi, meno scontata è la scommessa che punta a fare del progetto una ricerca intimamente strutturata sulla relazione intergenerazionale, interculturale, antirazzista e attenta alle questioni di genere.

Poi c’è chi quelle dinamiche schizofreniche invece le assorbe e le ritratta con strumenti aggiornati degli anni Dieci. Così, per esempio, tentano di fare i progetti dell’Institute of Relevant Studies, un network informale aperto a Rotterdam da Giovanni Innella e Agata Jaworska, che da qualche tempo ragionano in special modo intorno al tema della comunicazione nell’industria culturale del design e al designer come media. L’esplicitazione di alcune di queste dinamiche si trova sui siti internet di “design tunes”, “design words” e “design graphs”, in cui per esempio una serie di grafici animati mostra i risultati che l’IoRS ha rilevato monitorando i flussi di determinati profili twitter durante il Salone del mobile 2013. I grafici esibiti nei siti dedicati ai tre progetti evidenziano sostanzialmente i meccanismi che regolano la popolarità mediatica dei designer, delle key words dei loro progetti, dei loro diffusori critici, delle scuole e di alcuni marchi di design.

Proprio il ‘come’ sono narrati questi esiti (nel caso di “design tunes” una paracompilation con le voci mixate dei nostri ‘beniamini’…) risulta molto affascinante e godibile di per sé, indipendentemente dall’altrettanto interessante ‘cosa’ viene svelato: è un modo ironico e dissacrante, assolutamente nuovo e parodistico di parlare di design.

Questo aggiornamento dei toni in favore di un’evoluzione contemporanea della narrazione, fosse pure sarcastica, leggera, giocosa, investe anche l’articolata tesi di Martina Muzi, studentessa prima alla Sapienza di Roma, poi diplomata alla Academy di Eindhoven col progetto “The feminine space in-between”. Sottotitolo “From home-place to home-space”. In pratica: un video in soggettiva in cui la protagonista è Martina stessa, ritratta in un rito di accompagnamento dalla casa di origine (a Rebibbia) all’appartamento di Eindhoven, passando per una serie di luoghi (o non luoghi) fortemente connotati dal punto di vista spaziale come marcatori di socialità: prima il cortile del condominio, poi l’aeroporto, la fermata dell’autobus, il mercato etc. Si tratta, secondo la stessa autrice, di un esercizio personale per la produzione di quello che immagina essere un capitolo di un’opera in necessario divenire: in questo caso la realizzazione di un abito/corredo che i genitori, coinvolti nella performance, riempiono di oggetti d’affezione e utilità per aiutare il suo passaggio.

Il risultato, più finito di quanto non riesca a convincersi la Muzi, è un video carico di simbologia e onirismo, ma al tempo stesso precipitato in un realismo narrativo definitivamente attuale e riconoscibile: è il tentativo di trovare una formula più contemporanea e accettabile per raccontare l’evoluzione del genere femminile (anzi la femmina italiana nata negli anni Ottanta) dall’intimità dello spazio domestico, dove genera e matura la propria specificità di genere, alla socialità degli spazi pubblici. Se la storia del femminismo in Italia è stata prettamente elitaria, il design può essere un ponte democratico per immaginare che il discorso sul femminismo entri nelle case di tutti. Di nuovo: contenuto fortemente politico e media scelto (il video) decisivo a trasformare una ricerca e riflessione private in una presentazione pubblica e libera.

“Chiedo alla disciplina del design di considerare le donne nel loro stadio temporaneo di cittadine di passaggio come la forza per una riproduzione sociale, culturale e politica e di celebrarle con il diritto ad un luogo dove espressione, condivisione e trasmissione sia pubblico e visibile”, dice Martina Muzi. “La disciplina del design, abbracciando diversi media, tecnologie e forze di comunicazione, deve agire nel quotidiano, interpretando i fattori sociali e culturali necessari per un cambiamento e processandoli con i mezzi che il design possiede”. Non siamo molto distanti dal manifesto di Giovanni Innella: “Benvenuti in un’epoca di grandi cambiamenti. Un’epoca caratterizzata da enorme complessità e sfide senza precedenti. A questo punto, vorrei ricordare a tutti il potere del design. Il design è un agente di cambiamento mondiale. Il design può semplificare processi complessi. Può porre le domande giuste, fornire una visione critica e aprire nuove prospettive”.

 

Chiara Alessi

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Fotogrammi tratti dal video “The feminine space in/between”, a cura di Martina Muzi, Roma-Eindhoven 2013. www.cargocollective.com
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Fotogrammi tratti dal video “The feminine space in/between”, a cura di Martina Muzi, Roma-Eindhoven 2013. www.cargocollective.com
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Una veduta dell'Alta Vallagarina a nord di Rovereto, al centro del progetto “COMUNfARE” di Brave New Alps.
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La mappatura preliminare delle aree tematiche prese in considerazione dalla ricerca che propone una riflessione sul ruolo della collettività nello sviluppo di un territorio.
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Due progetti a cura del network Institute of Relevant Studies aperto da Giovanni Innella. “Design graphs”, in alto, è un grafico che mostra i risultati di un monitoraggio effettuato durante il Salone del Mobile 2013, volto a registrare la popolarità di designer, brand, scuole, critici e media attraverso le loro presenze su twitter.
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“Design tunes”, in basso, è una sorta di compilation delle voci di noti protagonisti del design internazionale. www.designtunes.org, www.designgraphs.org, www.designwords.org