Project Architect Mariachiara Suriani
Foto di Giulia Ricagni
Testo di Antonella Boisi
“Difficile una sfida, quando dall’altra parte c’è un architetto e pittore, allievo di Bramante e vicino a Raffaello, come il senese Baldassare Peruzzi, al quale si deve la trasformazione di questa fortezza, costruita originariamente nel 1084, in uno splendido castello durante l’ultimo Rinascimento”. E se lo dice Claudio Silvestrin, un altro nome che non ha bisogno di presentazioni sul palcoscenico internazionale dell’architettura contemporanea, chiamato a firmare la direzione artistica del restauro e la riconversione di 3000 mq in una residenza per una famiglia con bambine piccole, aperta all’accoglienza di molti ospiti e di un’importante collezione di opere d’arte (allestita su uno spazio espositivo di 1000 mq), non dubitiamo.
Anche per un maestro dell’architettura minimale il confronto, con una figura chiave del Rinascimento, nominato architetto della Fabbrica di San Pietro nel 1530 (tra le sue opere più note, la villa Farnesina Chigi e il Palazzo Massimo alle Colonne a Roma) e con un edificio monumento nazionale dal 1928 vincolato dalla Sovrintendenza ai Beni Architettonici e Paesaggistici, deve essere stato piuttosto impegnativo. Pertanto, spiega “nonostante l’edificio abbia richiesto quasi nove anni di lavoro, perseveranza e dedizione, ho voluto che il recupero fosse ‘invisibile’ in modo che una volta completato, il castello sembrasse ad una prima impressione non essere mai stato toccato”.
Una filosofia d’approccio che ha ben definito con l’espressione “Ego minimum” a sottolineare quanto la visione del contesto architettonico-storico sia stata così potente e maestosa da riportare ogni intervento in una messa a fuoco che risolvesse nel modo meno arbitrario possibile le nuove esigenze. Senza concessioni a mode o tendenze o paternità di firme. Il castello domina dall’alto uno dei tanti borghi di centro Italia, che sono vanto e orgoglio del nostro Paese. Con una planimetria molto irregolare, quasi zoomorfa (richiama la forma di un’aquila ad ali spiegate per alcuni, quella di uno scorpione per altri) dovuta alla necessità di ancorarsi alla roccia della rocca e assecondare il movimento del terreno, si compone di circa 100 stanze, sobrie e severe, declinate su tre livelli di sviluppo e collegate da strette scale a spirale compresse tra solidi muri a vertiginosa altezza, fino al coronamento del tetto terrazza-belvedere sul paesaggio collinare.
L’ala sud è stata destinata alle foresterie, quella nord agli spazi per seminari, workshop, eventi e mostre, ospitate anche nel basement (dove durante il restauro è stata riportata in luce la neviera profonda 7 metri in cui i nobili conservavano neve e ghiaccio per i mesi estivi). La parte centrale accoglie il palazzo con il piano nobile e gli affreschi. “Non c’è stato un solo cm di muri, pavimenti, pareti, soffitti, archi, volte a botte, travi lignee che sfuggisse a una ricerca di presa diretta dell’anima del luogo. La sensibilità è stata quella di operare una ricostruzione fedele nelle zone ritenute come nucleo fondante del patrimonio culturale italiano.
E il restauro è stato relativamente semplice perché si è trattato di un’operazione di pulizia, ripristino e ricostruzione in chiave conservativa curata dai tecnici della Sovrintendenza, anche nel corredo di affreschi che decorano le sale. Più complesso è stato invece l’intervento su quel 30 % di nuovo come richiesto dal committente. Pensare a delle forme nuove nelle aree ritenute ‘non intoccabili’, trasformandole in spazi di vita quotidiana. Sono stato educato a credere che l’architettura abbia il compito di darci l’emozione della materia, dello spazio, della luce, dell’acqua. Un’attitudine astratta, spirituale, quasi metafisica. Io credo nella bellezza degli archetipi – cilindri, sfere, cubi e parallelepipedi – che sono al di là della dimensione temporale; in questo senso una forma può avere seimila anni ed essere contemporanea, comunicando la stessa forza e la stessa intensità”.
Per paradosso, quindi, il nostro ha spogliato ancora di più gli spazi, ripensandoli con il minimo indispensabile di elementi. Perché diventassero ancora più vuoti e potenti, figure antiche che riscoprono vitalità, matericità impenetrabili e cristalline, opacità e trasparenze, superfici d’aria e di luce. E con l’intento di entrare in punta di piedi nel contesto, lo ha in primis rispettato nel dna materico-cromatico, adottando pianelle di cotto, di memoria medioevale, nel pavimento del piano terra e interrato; travertino naturale e castagno (tipico della zona) nel pavimento del piano nobile e nelle foresterie. Un modo per rinsaldare, con una nuova patina del tempo, il legame del castello con la sua terra di appartenenza. Nella tonalità, nello spessore, nell’aspetto.
La tinta a calce data uniformemente alle pareti in una tonalità bianco avorio fa risaltare ancora meglio gli infissi scuri, le porte finestre e le travi lignee a vista in castagno del soffitto. E poi la luce, quella luce che nasce da un equilibrio tra le aperture e la possenza dei volumi con tagli che si stagliano su muri, pareti e pavimenti e convivono con le ombre. In questa atmosfera sobria e severa, si inseriscono gli arredi fissi.“Tutto made in Italy. A regola d’arte.
Nei bagni l’acqua si raccoglie in bacini rotondi in travertino appoggiati su piani di castagno, la vasca è scavata nella pietra come un grande guscio di noce. Di travertino alla stregua del pavimento. Gli unici pezzi di produzione sono la cucina e le lampade perché nella loro essenza ritrovano il pensiero e l’etica alla base di tutto l’intervento: la ricerca dell’essenza”. Partita chiusa: il castello non è il Cabanon o un cubo di pietra calcarea, ma anche nel suo proporsi come solido percepibile soltanto per frammenti, regala ordine visivo e senso di calma all’occhio e alla mente. Come è finita la sfida? Chiosa Silvestrin: “Ai committenti l’ho scritto: Peruzzi-Silvestrin: 3 – 1. Un goal l’ho fatto anch’io”.
Foto di Giulia Ricagni
Testo di Antonella Boisi



