di Stefano Caggiano

Il design è per definizione un “ossimoro”, figura retorica consistente nell’unire due termini di significato opposto in una sola espressione. Fuor di metafora, se per fare oggetti che funzionino bene occorrono bravi tecnici e per comunicare la bellezza occorre la sensibilità degli artisti, quando si tratta di fondere l’anima della forma con il corpo della funzione sono i designer a scendere in campo.

Ecco perché le formule riduzioniste, che cercano di inquadrare il progetto all’interno di una definizione univoca, risultano sempre monche, incapaci di catturare il senso profondo dell’agire progettuale. Per contro è proprio la capacità di mediazione virtuosa tra oppostia permettere al design di giocare un ruolo chiave nell’integrazione della nuova sostanza digitale con la tradizionale antropologia materiale.

Progetti come le sedute con portaoggetti Fraga di Gamfratesi per Ligne Roset, o come Refill di Filippo Protasoni per Clique (dotata di caricabatteria wireless), si propongono in questo senso come soluzioni di riassorbimento dell’algida astrazione digitale in corpi oggettuali ‘caldi’, rispondendo al bisogno di dotare le nuove estetiche di sintesi di una conferma materiale che parli non solo alla punta delle dita ma accolga il corpo e i suoi sensi.

Si tratta di un lavoro quanto mai urgente a cui è chiamato il progetto. La fusione a freddo tra reale e digitale sta infatti portando alla progressiva delega delle azioni quotidiane all’automatismo fantasmatico dei dispositivi computerizzati. Dal fiorire di app che prendono in appalto le più disparate operazioni mentali alle auto che si guidano da sole, oggi è in atto un massiccio trasloco di attività umane pratiche e cognitive all’ecosistema digitale, che le gestisce in remoto occultandone i nessi causali. Ciò ha certamente effetti positivi sulla performance dell’apparato oggettuale, perché lo rende più elastico e reattivo (si pensi alle integrazioni ‘social’ di prodotti e servizi).

Ma quando lo scollamento tra la superficie di rapporto con gli oggetti e il loro funzionamento interno si allarga al punto da coincidere con l’intero ambiente culturale – e il sistema degli oggetti diventa ecosistema degli oggetti – ecco che si manifesta il lato oscuro di questo epocale ‘esonero’ tecnologico, ovvero, come molte ricerche mediche dimostrano, aumentano gli stati d’ansia.

L’ansia deriva infatti dalla sensazione di una minaccia indefinita e non localizzabile a cui ci sente esposti. Si tratta in altre parole del timore derivante da ciò su cui non si ha una verifica cognitiva, come avviene con il funzionamento degli oggetti a controllo digitale, di cui ci sono familiari le interfacce ma non i gangli funzionali.

È qui che interviene il genio mediatore del design: bilanciando la perdita di controllo sulla struttura articolatoria del quotidiano con complementi d’arredo portatori di una rassicurante fisicità, che se da un lato non volta le spalle al senso estetico del digitale, dall’altro lo ospita portandolo a una temperatura più mite e vicina a quella del corpo.

Le finiture, i tessuti, i materiali e smussature di sofà come Rise di Note Design per Fogia o come Plank disegnato da Knudsen Berg Hindenes + Myhr e prodotto da DK3 impastano le nuove farine digitali in volumi di calma allo stato solido, capaci di aspettare la lentezza del corpo con spirito zen.

Anche le lampade Mika 350 di André Simón e Jachin di Giorgio Biscaro per Bosa si fanno portatrici di questo tepore sintetico, accogliente come il passato ma orientato al senso fresco del futuro. Oggetti come i tavolini SAM disegnati da Note Design con Stefan Borselius e Andreas Engesvik per Fogia, i taglieri Sasso di Nao Tamora per Discipline, o ancora il set di portacandele e specchi Piled Stones di Sebastian Jansson – di evidente sapore nordico come molti di questi progetti – sono allora altrettante ‘metafore funzionali’dell’accoglimento del digitale in un tempo solidificato nella materia gentile del progetto. Sintetico ma anche terso e sereno come una pietra zen.

 

Stefano Caggiano

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La serie Sasso di Nao Tamura per Discipline valorizza materiali come il marmo, il legno Niangon e la quercia Bay, traendo ispirazione dalla forma delle pietre scolpite dagli elementi naturali.
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Il sistema di sedute a isola con tavolini Refill, disegnata da Filippo Protasoni per Clique, è dotato di accessori di supporto per dispositivi digitali, tra cui un caricabatteria wireless. Foto: Silvia Rivoltella.
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Sono i contrasti ad ispirare la danese Stine Gam e l’italiano Enrico Fratesi, in arte GamFratesi, nella definizione della seduta con portaoggetti Fraga per Ligne Roset, modellata da linee morbide rivestite con un tessuto elastico senza cuciture.
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Il divano Plank, disegnato da Knudsen Berg Hindenes + Myhr per DK3, è sollevato da terra in modo da trasmettere un senso di leggerezza.
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Disegnato da Note Design per Fogia, il divano Rise esprime la propria identità scandinava tramite la base in legno. Foto: Mathias Nero.
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La lampada a sospensione Mika 350 è progettata da André Simón di A/Studio in granito e legno per richiamarsi alla tradizione architettonica della Galizia.
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Jachin di Giorgio Biscaro per Bosa è una lampada a sospensione in ceramica bianca o colorata, ispirata a una torcia.
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Sam, tavolo da pranzo disegnato per Fogia degli svedesi Note e Stefan Borselius e dal designer norvegese Andreas Engesvik. Le gambe filettate in massello sono tenute in posizione da elementi di fissaggio industriali nascosti dietro piccoli dettagli in legno curvato. Foto: Jonas Lindström.
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I candelabri e specchi della serie Piled Stones (letteralmente, “pietre accatastate”) di Sebastian Jansson sono realizzati da morbidi solidi geometrici scolpiti in legno di betulla.