A cura di Maddalena Padovani

L’utopia della trasformazione

Design è l’utopia di dare a tutto il mondo una forma felice. È forse questa l’ipotesi che persegue Interni da tanti anni? In effetti la ricerca iconografica di questa rivista è enorme, continua e infinita. È un meccanismo sempre più collaudato di informazioni e immagini che arrivano da tutto il pianeta, e che vengono catalogate e rese sistematiche per restituire al lettore una utilissima documentazione, sempre più ora collocata sul web.

Nella storia delle riviste di settore, la longevità e la continuità di Interni è davvero ammirabile. E dalle pagine, dalle infinite pagine emerge la tensione di questa documentata ricerca. La questione antropologica di un oggetto è quella di infondergli un’anima? Dalla profondità dei tempi, gli oggetti delle etnie del mondo hanno posseduto un’anima, quella delle aspirazioni spirituali degli uomini e dei loro popoli. E pure l’oggetto di serie dell’epoca industriale è alla ricerca dell’anima perduta. Forse può trovare una completezza umana tornando alle origini del mondo, percorrendo l’utopia di un’epoca collocata al di là e oltre quella del modello economico.

Perché un oggetto deve essere rispettoso di una civiltà a sua volta rispettosa dell’uomo. Un oggetto che aspiri a dignità umana è un oggetto controcorrente, e si innesta nella società dei consumi in posizione critica. I mirabili oggetti presenti ormai solo nei musei di etnologia, esempi di armonia fra vita e rito in civiltà passate, non sono di fatto più riscontrabili nel mondo delle società industriali e post-industriali. Gli oggetti di design, in generale, non hanno maturato il diritto di affiancarsi agli oggetti dell’antropologia storica.

Il tentativo di reinserire con evidenza il gradiente estetico nel processo di ideazione dell’oggetto d’uso, fa parte di questa ricerca di dignità. E Interni spesso ha indagato dentro queste zone. Si cerca così di ricondurre il flusso deviato degli infiniti oggetti del consumismo anche elettronico e virtuale del design, dentro il tranquillo, lento fiume delle arti applicate. È chiaro che il problema non è il linguaggio, ma consiste nell’utopia di una radicale trasformazione dei cuori, cioè in nuovi modelli di civiltà capaci di sostituire i valori umani ai valori economici. E auguro ad Interni di continuare a contribuire a questo mirabile intento.

Alessandro Mendini

Da una rivista mi si è aperto un mondo

Alcuni degli oggetti esposti nell’edizione 2010 del Triennale Design Museum curata da Alessandro Mendini e intitolata Quali cose siamo. Mattone Faccia a vista, serie Classico, produzione San Marco; statua di Sant’Antonio da Padova, produzione Splendart; Boli, 1900-1950, produzione Richard Ginori. Ambrogio Pozzi, Cono, 1969; Gaetano Pesce, Mano, anni 70.

Da una rivista mi si è aperto un mondo
Negli anni 70, quando abitavo a Padova, studiavo a Firenze e avevo una fidanzata a Roma, ho iniziato a frequentare Milano proprio perché attratto dalle riviste di architettura che raccontavano quanto stava avvenendo nel mondo del progetto e allo stesso tempo erano fonte di ispirazione per quanto di nuovo si poteva fare. Anche la conoscenza di Sottsass è avvenuta tramite una rivista diretta da Ugo La Pietra che si chiamava Spettacoli e Società. Ettore aveva scritto un articolo che parlava dei ragazzi di Padova che, come me, facevano i pendolari con altre città per frequantare gli studi universitari. Lui scriveva per varie testate e per me era una fonte d’attrazione fortissima. In particolare scriveva per Casabella, ai tempi in cui la rivista era diretta da Mendini. Ricordo di averne comperata una copia in occasione del mio primo viaggio da Padova a Firenze, fatto nel 1969 per andare a iscrivermi all’università e per trovare una sistemazione. La conservo ancora.

Pubblicava un articolo di Sottsass che parlava del “Pianeta come festival” e che mi era piaciuto tantissimo, perché presentava l’idea di un’architettura, indipendente e al di fuori delle regole, a cui non avevo mai pensato. Per me è stata una vera e propria rivelazione. Da una rivista mi si è aperto un mondo. Da quei tempi a oggi sono cambiate tante cose nel mondo della comunicazione del progetto. Le riviste sono diventate sempre più identificate, personalizzate. Oggi siamo in una fase di trasformazione; l’unica cosa di cui possiamo essere sicuri è che tutto cambia e che tutto continuerà a cambiare. Penso che Milano sia oggi un luogo dove questo senso della trasformazione è fortemente tangibile, percepito, rincorso.

Se non fosse per il costo degli immobili, Milano avrebbe oggi un potere attrattivo superiore a quello di altre metropoli come Londra, Pechino, New York. Oggi non ce ne accorgiamo più, ma Milano offre costantemente tante iniziative, eventi e opportunità legate al mondo della creatività; forse hanno una dimensione più piccola rispetto a quelle di altre città, ma funzionano tutte bene e si distinguono per un elevato livello qualitativo. Anche l’uscita mensile delle riviste del progetto rappresenta un appuntamento importante della vita creativa della città. Oggi abbiamo bisogno della sintesi, di una selezione critica, di qualcosa che ci offra la chiave di lettura delle tante cose che succedono. Ogni giorno trascorro almeno due ore sul treno, un tempo che dedico a guardare quello che succede nel mondo attraverso il web. Mi rendo conto di quanto sia improduttivo perdersi nell’oceano di informazioni aperte che la rete offre e di quanto sia invece importante disporre di uno strumento di lettura critica. Per questo abbiamo bisogno della sintesi, così come di modelli di riferimento.

Michele De Lucchi

Impariamo dalla moda

Qualche volta mi sono chiesto se il mio ruolo sulle pagine di Interni non sia quello di un opinionista poco ascoltato, ma mi sono risposto che questo pericolo non mi riguarda ed eventualmente riguarda la direzione di Interni e i suoi lettori. Esprimo la mia opinione dove mi propongono di esprimerla e la mia responsabilità si ferma a quel punto…
Durante 20 anni di collaborazione, nessuno mi ha mai censurato e ho sempre scritto su argomenti che mi interessavano; ho quindi uno spazio libero invidiabile, un osservatorio dove riflettere senza interferenze.

Mettendo insieme i miei contributi credo di avere cercato di dimostrare che “il progetto è una cosa seria” che non appartiene alle sole competenze del mercato, ma piuttosto alla storia degli uomini, della società, della cultura. Questo è l’unico motivo per cui me ne interesso… Negli ultimi tempi si sentono molte critiche sul design attuale e sulle ultime generazioni; come se queste non fossero una parte significativa della ‘crisi’ che investe l’Occidente; crisi economica e crisi di idee. Su questo argomento io ho un’opinione del tutto diversa  e penso che i giovani abbiano il diritto di essere diversi da noi e che il mondo abbia il diritto di cambiare.

E infatti il mondo è cambiato profondamente; le certezze del XX secolo sono sparite, il Movimento Moderno ha terminato la sua corsa, la politica è in piena evoluzione, ma la vitalità del ‘nuovo design italiano’ continua a interessare tutto il mondo; la mostra che organizzammo nel 2007 in Triennale e che fu molto criticata, continua da allora a girare il mondo: Madrid, Istanbul, Pechino, Taiwan, San Francisco, Santiago del Cile, Città del Capo. Nella stragrande maggioranza si tratta di oggetti auto-prodotti, leggeri, apparentemente superflui, indifferenti alle tipologie classiche dell’arredamento (poltrone, divani, sedie, tavoli, lampade) ma interessati a inserirsi negli interstizi della vita domestica.

Sono queste le novità interessanti del design all’inizio del XXI secolo; come nella moda  coesistono e collaborano tre categorie: l’alta moda (sperimentale), gli accessori autonomi, il pret-à-poter per la produzione di serie. Ognuno di questi settori ha una propria autonomia, ognuno il suo ruolo, ognuno il proprio mercato, creando nell’insieme una sinergia non conflittuale. Un mondo che si alimenta di sogni, tecnologie, marketing e che ogni stagione rinnova il suo repertorio, creando uno scenario in continua evoluzione. Uno scenario fascinoso che vive soprattutto sulle pagine patinate delle riviste di settore; questa è la funzione centrale dei media, una funzione centrale capace di rappresentare simultaneamente il mondo presente, quello del futuro o come potrebbe essere acquistato già oggi. Un mondo fatto di infinite varianti, eccezioni, tendenze, scenari, innovazioni, revival.

Questo non è soltanto l’universo della moda ma è il nostro mondo; ingovernabile, imprevedibile, che esiste soltanto per entrare nell’universo infinito della comunicazione, su internet, sulle riviste, nella televisione. Come la musica che non esiste come realtà fisica, ma soltanto se può essere ascoltata, registrata, diffusa, per creare un’emozione, un pensiero creativo e misterioso: capace di produrre enormi economie. Il ruolo di una rivista di design o di moda, è allora quello di dare vita a questa incessante energia di innovazione, a un mondo che altrimenti resterebbe catatonico.

Allora anche gli ‘opinionisti poco ascoltati’ hanno diritto di ospitalità, non per insegnare a vivere ma per contribuire a guardare senza paura un mondo opaco, senza avere la pretesa di illuminarlo, ma magari per renderlo ancora più nebuloso e incomprensibile; il caos del resto non è più la mancanza di ordine, ma la legge che governa l’universo…

Andrea Branzi

A cura di Maddalena Padovani
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Alcuni degli oggetti esposti nell’edizione 2010 del Triennale Design Museum curata da Alessandro Mendini e intitolata Quali cose siamo. Boli, 1900-1950, produzione Richard Ginori.
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Alcuni degli oggetti esposti nell’edizione 2010 del Triennale Design Museum curata da Alessandro Mendini e intitolata Quali cose siamo. Mattone Faccia a vista, serie Classico, produzione San Marco
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Alcuni degli oggetti esposti nell’edizione 2010 del Triennale Design Museum curata da Alessandro Mendini e intitolata Quali cose siamo. Statua di Sant’Antonio da Padova, produzione Splendart
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Alcuni degli oggetti esposti nell’edizione 2010 del Triennale Design Museum curata da Alessandro Mendini e intitolata Quali cose siamo. Ambrogio Pozzi, Cono, 1969
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Alcuni degli oggetti esposti nell’edizione 2010 del Triennale Design Museum curata da Alessandro Mendini e intitolata Quali cose siamo. Gaetano Pesce, Mano, anni ’70
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Michele De Lucchi
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Michele De Lucchi, colonne portanti, viste della mostra. Fondazione VOLUME!, Roma 2012. Foto di Federico Ridolfi
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Andrea Branzi, collezione Solid Dreams, 2013