La vastità e la varietà del territorio rendono approssimativa qualsiasi lettura dell’architettura contemporanea cinese nel suo complesso. Nondimeno, è evidente che l’espansione poco controllata delle metropoli cinesi ha preso come modello prevalente le forme dell’edilizia commerciale occidentale in versione da “esportazione”, ovvero arricchita occasionalmente di ipertrofiche applicazioni ornamentali.

In queste costruzioni è difficile individuare una specificità e un carattere nazionale cinese, neppure approssimativo, anche perché in molti casi i progetti sono stati elaborati dalle sedi distaccate di grandi studi internazionali che hanno trovato in Cina, per le dimensioni degli interventi e per la rapidità delle richieste, un inatteso campo di espansione.

Nelle grandi città questo modello di sviluppo ha segnato l’impoverimento del tessuto urbano storico dei vecchi quartieri e di conseguenza l’allontanamento della popolazione verso l’immensa periferia, stipata in condomini multipiano, anonimi e addossati.

Questo panorama ha messo in particolare evidenza l’originalità del lavoro autonomo di Wang Shu, premio Pritzker dell’architettura nel 2012. Ad un primo sguardo si direbbe una figura d’eccezione, invece si tratta dell’avanguardia di un vento nuovo, la punta di una miriade di interventi recenti che punteggiano le città in espansione. Il fenomeno si può spiegare in vari modi.

In primo luogo osserviamo l’entrata in scena di una nuova generazione di progettisti formati dalle università cinesi, tra le quali spiccano la nota Tsinghua University di Pechino e la non meno prestigiosa “scuola di Shanghai” che ruota intorno alla Tongji University dove lo stesso Wang Shu insegna.

Da alcuni anni si direbbe che il futuro dell’architettura cinese dipenderà proprio dalla formazione offerta da scuole che oggi dimostrano una significativa apertura alle influenze internazionali, anche attraverso un fitto scambio di visiting professor e accordi con le università occidentali, tra le quali il Politecnico di Milano è molto attivo.

Al tempo stesso le scuole di architettura sono anche diventate un luogo di riflessione e confronto sul futuro delle città, un dibattito propositivo perché la maggior parte dei docenti si divide tra l’attività accademica e quella professionale con molta intensità.

Sarà anche per questo che in Cina da qualche tempo l’importanza delle università si misura anche come simbolo di appartenenza ad una comunità da parte delle ultime generazioni di professionisti. Non stupisce allora vedere una fioritura di progetti dal tratto indipendente, che mescolano elementi inediti e riferimenti alla cultura tradizionale senza cedere allo storicismo generico e caricaturale.

È ben chiaro che l’obiettivo di questi progettisti non è la riproposizione dei “tetti a pagoda”, ma la conoscenza e l’interpretazione delle tipologie e delle tecniche di costruzione tradizionali in chiave contemporanea, senza trascurare le esigenze di una società in cambiamento.

Determinante, per esempio, è la necessità di dotare i nuovi quartieri suburbani di servizi collettivi, scuole, asili, uffici comunali, sedi amministrative e luoghi per l’arte, un genere di commissione ideale per sperimentare i caratteri di un’architettura nazionale che non rappresenti solo la florida economia, ma soprattutto i bisogni della comunità e le relazioni con il contesto alla grande e alla micro scala.

Misurare e prevedere la portata del fenomeno in termini di qualità dell’architettura è ancora difficile. In buona parte dipenderà dalla politica e dalla sensibilità degli amministratori nel comprenderne l’opportunità, come nel caso della regione suburbana di Shanghai, in particolare l’area di Qingpu e Jiading, dove il Sun Jiwei – governatore del distretto con alle spalle una formazione in architettura – ha affidato allo studio Deshaus un buon numero di opere che hanno messo in evidenza le potenzialità del territorio e le capacità degli architetti.

A Shanghai è stato inaugurato il Long Museum West Bund su progetto dello stesso studio, un’opera che segna un salto di scala e che ha consolidato la reputazione internazionale dei suoi fondatori, Liu Yichun e Chen Yifenge, anch’essi ex-alunni della Tongji University.

L’edificio sorge sulle rive del fiume e dall’esterno la sobrietà del volume non lascia intuire la potenza degli interni. La pianta è impostata a partire da uno schema geometrico molto chiaro, l’assemblaggio e la contrapposizione di setti in cemento armato con sezione a “ombrello”, che proseguono nella copertura. Le fessure create tra i setti lasciano filtrare la luce all’interno che ammorbidisce le superfici in cemento a vista.

Le volte alte otto metri formano uno spazio imponente e sacrale, primordiale e contemporaneo, un luogo ideale per esporre una vasta collezione permanente dell’arte cinese. In particolare, le superfici ruvide creano un contrasto efficace con i toni accesi della ricca sezione di opere legate alla pittura del Nuovo Realismo, una corrente che rappresenta le contraddizioni della società in cambiamento negli ultimi decenni.

All’esterno, l’edificio abbraccia e avvolge le “rovine” di una struttura industriale degli anni ’50, un ponte per lo scarico del carbone, conservato come vestigia del recente passato industriale dell’area e come perno della composizione architettonica.

Una spiccata sensibilità per le caratteristiche del sito la ritroviamo anche nel progetto per Huaxian Business Center di Shanghai, opera dello studio Scenic Architecture, declinata in modo molto differente. In questo caso sono gli alberi esistenti nell’area di costruzione a disegnare la disposizione articolata dell’edificio, quasi una palafitta di vetro e acciaio riflettente immersa nella natura.

In questo progetto non sono i materiali a definire il rapporto con il contesto, ma la scelta compositiva. I rami degli alberi intersecano le frange in metallo della facciata e partecipano alla bellezza dello spazio interno, aperto verso l’alto e racchiuso su tutti i lati secondo una tradizione tipica cinese. L’articolazione spaziale invece è slegata dalle tipologie tradizionali ma è originata dall’inserimento della costruzione tra gli interstizi di sei grandi alberi di canfora.

La sensibilità e la valorizzazione del contesto è una caratteristica evidente nelle nuove architetture made in china, ma non si tratta di un’architettura mimetica, perché la logica costruttiva dell’edificio non viene mai nascosta, bensì esibita come segno distintivo del progetto.

L’architettura mantiene un carattere semplice, ruvido ed è molto diversa dalle soluzioni posticce dei quartieri commerciali delle città. La texture dei materiali da costruzione non viene celata da vetrate e curtain wall uniformi, ma utilizzata per articolare il disegno delle facciate.

Questo è anche il tratto peculiare dei progetti dello studio Archi-Union, fondato e diretto da Philip F. Yuan, docente della Tongji University impegnato nell’applicazione dei processi digitali alla costruzione dell’architettura.

Anche in questo caso è bandito un approccio decorativo e l’architettura nasce dai suggerimenti e dalle costrizioni dei luoghi, tradotti in configurazioni geometriche tridimensionali in alcuni casi difficili da rappresentare in pianta.

Una difficoltà che si riflette anche nell’individuazione di tecniche di realizzazione manuali il più fedeli possibile alla complessità ideativa del progetto. Per Philip F. Yuan la sfida è proprio quella di interpretare l’architettura tradizionale cinese attraverso la combinazione di strumenti di progettazione digitali, metodi di fabbricazione lo-tech e materiali locali.

Così può capitare che un algoritmo trasformi il rigido pattern di un muro di mattoni prefabbricati e lo trasfiguri nella texture cangiante della seta, solo ruotando l’angolo di posa. Le affinità nel lavoro degli architetti cinesi sono difficili da individuare come affinità linguistiche o tipologiche, campo dove prevale la sperimentazione, quanto invece nelle scelte costruttive e materiche.

L’architettura della “scuola di Shanghai” alterna superfici compatte, spesso cemento armato a vista e texture di mattoni, legno e metallo, scelte in stretta relazione con la luce che le sfiora e le attraversa.

Il timbro deciso di molte soluzioni prevale in modo netto sulla cura del dettaglio e fa pensare alla velocità dei tempi di progettazione e costruzione. Individuare delle analogie di linguaggio nel lavoro di questi studi rischia di essere un esercizio poco interessante; meglio sottolineare l’indipendenza e l’autonomia delle scelte che semmai condividono le condizioni di partenza e l’obiettivo di dare vita ad una nuova e riconoscibile architettura cinese.

Nel vasto territorio cinese, Shanghai per tradizione è stata una delle città della Cina maggiormente cosmopolita, aperta alle influenze straniere. Molto più di Pechino, anche per la permanenza di comunità straniere, inglesi e francesi in particolare, che avevano i loro territori precisi e svolgevano traffici commerciali in misura spesso indipendente dal governo centrale.

La città di Shanghai appare oggi come un terreno di ricerca sperimentale dove sta nascendo un nuovo interesse nei confronti della progettazione architettonica, forse una vera e propria scuola, un modello significativo che, anche in rapporto al settore universitario, potrà essere esteso ad altri contesti, per un nuova architettura cinese.

Testo di Alessandro Villa, Francesco Scullica