Gli spazi di lavono assumono una connotazione sempre più domestica. Mentre le abitazioni perdono via via la dimensione della privacy. La riflessione di Deyan Sudjic sull’evoluzione dell’abitare, tra individualismo e rappresentazione del sé

Un concetto ingannevolmente semplice come quello di ‘casa’ risulta estremamente difficile da affrontare per via del suo rapporto, incerto e ambiguo, con una nozione radicalmente diversa: quella di ‘abitazione’. L’abitazione è un edificio, la casa è un’idea. La casa contiene numerosi elementi emotivi: il ricordo, il rituale, ma quello maggiormente evocativo è il legame intimo con il senso di noi stessi. Essere a casa è poter essere se stessi.

Nel nostro mondo essenzialmente narcisista, non c’è caratteristica più desiderabile. Di conseguenza, l’idea di casa è diventata troppo preziosa perché riguardi esclusivamente l’abitazione. L’ufficio, la lounge dell’aeroporto e i club privati si stanno trasformando in ambienti sempre più simili a una casa. Vogliamo sentirci a nostro agio ovunque, e questo è più o meno lo slogan di una delle campagne pubblicitarie di Airbnb, che in realtà si riferiva a case trasformate in alberghi.

Nella Silicon Valley, l’epicentro del narcisismo, dei selfie e dei post su Instagram, la sede di Facebook a Menlo Park nasce e continua a espandersi con l’idea di essere il più simile possibile a una casa. Come il Googleplex, il quartier generale di Google all’uscita dell’autostrada di Mountain View, questi edifici sono degli incubatori per menti creative che devono essere accuratamente coccolate.

Questi cervelli appartengono a persone giovani e narcisiste. Vogliono officine interne per la riparazione di biciclette che gli consentano di aggiustare le loro Pinarello. Vogliono poltrone a sacco e pizzerie; vogliono artisti in pianta stabile nell’edificio in cui lavorano. Vogliono cibo vegano e tofu. Devono avere la possibilità di interagire tra di loro senza limiti e in ogni momento.

I giganti del mondo digitale stanno rendendo infantili i propri dipendenti, li trattano come eterni adolescenti, incatenandoli ai divani e ai biliardini che hanno sostituito le scrivanie, i mobili bar, il bagno dei dirigenti e l’ufficio all’angolo come elementi costitutivi del luogo di lavoro attraente.

Accade la stessa cosa nel milione di metri quadri dedicati alle start-up di tutto il mondo gestiti da WeWork, società fondata otto anni fa.

Questi spazi sono arredati con sedie tutte diverse tra loro, raggruppate intorno a tavoli da cucina realizzati con legno di recupero e affollati di laptop. Sono pieni di divani, divani e ancora divani, disposti su pavimenti in parquet e tappeti disseminati casualmente, e di tavolini illuminati da lampadari moderni della metà del secolo scorso.

Non mancano musica, birra, feste e una palestra. E a fare da competitor britannico a WeWork c’è una società chiamata Second Home, per rendere il messaggio ancora più inequivocabile. La domanda è se tutti questi divani e questi biliardini permettano davvero a chi ci lavora sopra e intorno di essere se stessi, o se l’intenzione sia quella di consentire loro di recitare un ruolo, proprio come facevano in passato la scrivania e l’ufficio disposto in un angolo. Rappresentano effettivamente una vera e propria casa per l’individuo o sono solo una ‘casa’ generica?

Nonostante le ataviche associazioni con il focolare e i rituali domestici, quello che intendiamo come casa è fondamentalmente un concetto moderno, emerso con l’ascesa dell’individualismo alla fine del XVIII secolo. Si tratta del prodotto della costante lotta tra fondamentalisti di vario tipo che vedevano l’idea di casa scaturire da un cambiamento radicale delle circostanze e avvertivano la possibilità di imporre agli altri quello che nella loro visione era il modo giusto di vivere la vita. Per alcuni si trattava di una questione politica o morale, per altri era una questione di business. Alcuni erano politici radicali, altri architetti. E alcuni  entrambi. Proponevano idee competitive che spaziavano da un modello di vita comunitaria alla villa ideale, da un elaborato decorativismo alla sobrietà estetica.

Oggi gli stessi conflitti sono ancora combattuti dai post di Pinterest e da Ikea, il gigante dell’arredamento che in reazione alla resistenza del mercato ha deciso non di cambiare i propri prodotti, bensì i gusti dei clienti. Ha chiesto agli inglesi di buttare via il tessuto chintz e si è presa gioco dei designer con la campagna pubblicitaria di Van Der Puup.

I giganti del mondo digitale stanno rendendo infantili i propri dipendenti, li trattano come eterni adolescenti, incatenandoli ai divani e ai biliardini che hanno sostituito le scrivanie, i mobili bar, il bagno dei dirigenti e l’ufficio all’angolo come elementi costitutivi del luogo di lavoro attraente"

Willi Baumeister era un artista, non un architetto. Ma il suo poster per il Wiesenhof Siedlung di Stoccarda del 1927, con le bianche case a schiera progettate da Mies van der Rohe, Le Corbusier, Walter Gropius e altri, costituisce un’espressione sorprendentemente diretta dello sdegno architettonico per quelle che avremmo chiamato le tradizionali idee di casa, ma che la maggior parte delle persone avrebbe considerato il modello di vita domestica all’epoca. “Come dobbiamo vivere?”, si chiede. E non lascia dubbi sulla risposta.

A giudicare dalla croce rosso sangue tracciata sull’immagine di un interno Biedermeier dall’aspetto decisamente innocuo, certo non così. Il poster presenta un divano rivestito di morbido velluto, incastrato nei pressi di un camino decorativo, sopra cui è stato affisso un bello specchio. La stanza è illuminata da un pomposo lampadario di ottone. Le pareti sono adornate da file ordinate di quadri incorniciati, lussureggianti composizioni floreali sono disposte dentro vasi di porcellana su una schiera di tavolini.

Tutto ciò risulta maledetto agli occhi di Baumeister e della sua infatuazione per le macchine e per idee poco sentimentali come l’efficienza e l’igiene. Baumeister sintetizzò in un’unica immagine tutto quello di cui Adolf Loos scriveva più o meno nello stesso periodo. Tracciò una strada che altri avrebbero seguito. Buckminster Fuller, che prese in giro il Bauhaus per essersi preoccupato dell’aspetto dei rubinetti più che del modo di creare una fornitura d’acqua domestica, si pose sulla stessa lunghezza d’onda. Così come il sarcastico critico inglese Reyner Banham, con il suo attacco a quella che egli definì la futurizzazione strisciante: giunse addirittura a suggerire, senza traccia di ironia, che la soluzione al problema del sedersi fosse una colonna invisibile di aria compressa. Altri hanno proposto un’immagine più permissiva del possibile significato di casa, in particolare "This is tomorrow", l’esposizione londinese del 1956, che vide l’artista Richard Hamilton celebrare la nuova ricchezza della cultura consumistica e scatenare il movimento della Pop Art.

L’idea che la casa fosse una macchina per vivere ha avuto una forte risonanza, da Le Corbusier a Margarete Schütte-Lihotzky con la sua cucina tayloristica di Francoforte. All’epoca della mostra “Italy: the new domestic landscape” del 1972, Ettore Sottsass trasformò l’idea modulare che aveva sviluppato per il computer Elea 9000 nell’ispirazione per un sistema di arredo completo.

L’esposizione presentò ulteriori idee sulla natura della casa che si ponevano al confine tra utopia e satira. Come la griglia infinita di Superstudio che aboliva la città e trasformava la casa in un’esperienza nomade.

La domanda che dobbiamo farci è quanto di quello che in passato sembrava essere critical design si sia trasformato in una previsione. Il fenomeno di Airbnb, da un certo punto di vista, potrebbe essere considerato come la trasformazione dell’idea di nomadismo proposta da Superstudio in una banale realtà, con tutte le conseguenze negative non intenzionali.

Ci troviamo in un momento in cui la domanda posta da Baumeister, come viviamo, ha la stessa enorme valenza che aveva nel 1926. Le politiche economiche hanno trasformato le case in beni finanziari fuori dalla portata di molti, le tecnologie hanno prodotto innumerevoli categorie di oggetti superflui, i cambiamenti demografici hanno aumentato la durata della vita, ma hanno ritardato il momento in cui i giovani riescono a crearsi una propria abitazione. Questo ci sfida a riesaminare la natura della casa.

La privacy, la sicurezza e la memoria sono necessità umane fondamentali o riflettono momenti specifici nella storia dell’uomo e possono essere abbandonate quando non servono più? Ci diciamo che la privacy costituisce un elemento fondamentale della dignità dell’uomo, ma postiamo costantemente immagini di noi stessi che rendono pubblici gli aspetti più intimi della nostra vita e il progetto Amazon Key ci invita ad affidare a perfetti sconosciuti il potere di sbloccare le serrature ed entrare nelle nostre case mentre siamo assenti.

Se riempiamo le nostre case di oggetti che non hanno alcuna utilità se non quella di ricordarci chi siamo e di mostrare agli altri come vogliamo che ci vedano, come possiamo farlo in un mondo in cui l’oggetto utile sta perdendo di significato? Siamo convinti che sia giusto continuare ad affinare le nostre tecniche per costruire sempre più abitazioni per risolvere i problemi demografici che affliggono le città più ricche e il caos del sud del mondo. Ma è molto più difficile accettare l’evoluzione continua del nostro habitat più privato, forse perché non sappiamo più chi siamo esattamente quando, alla fine della giornata, fuggiamo da un posto di lavoro diventato domestico e cerchiamo di essere noi stessi a casa.