Il biodesign indica una nuova strada di ricerca orientata alla creazione di materiali viventi, coltivati in vitro, che si adattano all’ambiente circostante. Sono la soluzione di prodotto più estrema in un’ottica di economia circolare, proposta dalla XXII Esposizione Internazionale della Triennale di Milano che mette al centro il progetto quale atto riparatore dell’interrotto rapporto con la Natura

Non più materiali chimici né presi in natura in scala volumetrica, bensì materie o strutture che si generano in laboratorio a partire da microparticelle biologiche quali proteine naturali, batteri, lieviti, miceli e alghe. Quando il design incontra la biologia o l’ingegneria genetica, travalica la progettazione della mera forma per partecipare ai processi di creazione, indicando la strada per un radicale cambiamento nella produzione, nell’economia e nell’impatto sull’ambiente.

È uno dei temi portanti della XXII Esposizione Internazionale della Triennale di Milano, dal titolo Broken Nature: Design Takes on Human Survival, che mostra in differenti ambiti applicativi, tra cui quello del biodesign, la potenzialità di riparare i legami interrotti tra gli esseri umani e la Natura.

Nuovi materiali biofabbricati si affacciano nel settore della moda che si dimostra il più ricettivo, da un lato per la pesante impronta che l’industria ha sul pianeta, dall’altro per la maggiore facilità di applicazione dei biomateriali sintetici finora disponibili. Sono prodotti ibridi, in parte biologici in parte artificiali, che costituiscono un sistema vivente in simbiosi con l’ambiente circostante o sono parte stessa dell’ecosistema naturale.

L’americana Suzanne Lee ha proposto per prima l’idea di “biocouture”, di “coltivare i propri vestiti” sintetizzando un materiale dalla coltura simbiotica di batteri e lieviti che appare simile alla pelle di animale. Da queste sperimentazioni ha preso forma nel 2011 la società newyorkese Modern Meadow, pioniera nella creazione di materiali biofabbricati. Tra i loro brevetti c’è Zoa, nato dalla proteina del collagene non di derivazione animale.

In laboratorio viene sintetizzato il dna del lievito che viene quindi fatto fermentare per far crescere miliardi di cellule produttrici di collagene. Quindi la proteina è assemblata in strutture tridimensionali che creano materie nonwoven. Il risultato è possibile grazie ai progressi nell’editing genetico e nella scienza dei materiali, che hanno abbassato i costi e aumentato la velocità dei processi biotecnologici, rendendo possibile la produzione di beni di consumo da organismi viventi.

Fondata nel 2015 a Filadelfia, Biorealize è un’azienda di progettazione biologica che produce strumenti di biofabbricazione, tecnologie hardware e software e prodotti da microorganismi come lieviti, alghe o batteri per realizzare probiotici, nuovi materiali o biosensori. L’azienda ha recentemente collaborato con Puma e il MIT Design Lab al progetto Puma Biodesign, che esplora le possibili applicazioni della fabbricazione biologica nella vita quotidiana attraverso i prodotti sportivi.

Ne sono nati una maglia da calcio ricavata dalla seta di ragno, una scatola da scarpe cresciuta dal micelio e suole di nuova generazione (Deep Learning Insoles) in grado di migliorare le prestazioni dell’atleta attraverso feedback in tempo reale. I microorganismi contenuti fungono da biosensori che reagiscono a determinate molecole chimiche capaci di indicare lo stato di affaticamento o benessere dell’utilizzatore. Interessante notare quanto utente, ambiente e tecnologie siano in uno stato di simbiosi, in cui il prodotto non è una sommatoria di componenti ma un sistema vivente.

Oltre ai nonwoven di sintesi compaiono nuovi filati che possono ridisegnare non solo la produzione tessile ma anche la conformazione di prodotti che impiegano il tessile, come le scarpe sportive. Già sono note le Adidas che impiegano una suola dalla struttura a rete, realizzata in stampa 3D con plastica riciclata da rifiuti marini. Ma l’inglese Jen Keane, master in Material Futures al Central Saint Martins di Londra, ha sviluppato una tomaia in un unico pezzo e senza cuciture, manipolando il processo di crescita dei k. rhaeticus bacteria.

È una sorta di tessitura microbica che utilizza un telaio su cui sono messi in posizione dei fili, a loro volta tenuti insieme dalla nanocellulosa sviluppata dai batteri, otto volte più forte dell’acciaio e più rigida del Kevlar. La tomaia è estremamente leggera e impiega il filo solo dove è necessario, riducendone la quantità utilizzata ed eliminando virtualmente gli sprechi. Il processo è in attesa di brevetto.

I biomateriali possono evolvere la produzione sostenibile e l’economia circolare per il limitato impatto ambientale in termini di risorse impiegate e una produzione a ciclo chiuso, in cui gli scarti ritornano nell’ecosistema senza generare inquinamento (potenzialmente). Con dei filati derivanti dall’alga kelp, la newyorkese Algiknit ha creato un prodotto iper compostabile e biodegradabile. Le macroalghe kelp sono coltivate nelle fredde acque costiere dell’emisfero settentrionale e sono uno degli organismi di più rapida crescita al mondo, nonché capaci di catturare efficientemente la Co2 filtrando l’acqua circostante.

I filati bioderivati sono destinati al settore della moda con gli utilizzi più diversi e hanno recentemente conquistato un finanziamento di 2,2 milioni di dollari da Horizons Ventures per l’implementazione di prodotto. Sono composti stabili che degradano solo se esposti ad ambienti umidi e ricchi di funghi per un periodo prolungato di tempo.

Design, arte e ingegneria molecolare sembrano aver abbattuto i tradizionali confini. Lo dimostrano istituti come SymbioticA, il dipartimento di biological arts all’interno della University of Western Australia, o il laboratorio di ricerca di Boston Ginkgo Bioworks, che promuovono la ricerca creativa all’interno delle scienze biologiche per sviluppare nuovi materiali e metodi di produzione o, a un livello più speculativo, nuove forme d’espressione. Ginkgo Bioworks mette a disposizione l’ingegneria genetica per realizzare prodotti più sostenibili per settori quali cibo, medicinali e agricoltura.

Promuove anche residenze creative, tra cui quella di Natsai Audrey Chieza che ha consentito alla designer di implementare il progetto di tintura con pigmenti sviluppati da batteri, ricerca che sta portando avanti con la sua società londinese Faber Futures. I coloranti tessili sono sintetizzati dallo streptomyces coelicolor senza l’uso di sostanze chimiche e con un fabbisogno idrico notevolmente ridotto rispetto ai processi standard di tintura.

Chieza sta realizzando una serie di protocolli progettuali che esplorano come modifiche alle condizioni di laboratorio – quali la temperatura, il pH e il periodo di incubazione – influenzino l’esito del processo. E una serie di metodi per la stampa dei pigmenti. Questi processi inducono a ripensare l’industria attraverso la biologia, per sviluppare non solo nuove prassi produttive ma anche modi alternativi di considerare lo spreco o di affrontare i cicli della moda e il consumismo in generale.