La casa è un potente strumento terapeutico se viene capita e utilizzata con una consapevolezza nuova

*Donatella Caprioglio, psicologa, psicoterapeuta e scrittrice, autrice di Nel Cuore delle Case’, Edizioni Il Punto d'Incontro

 

Durante lo scorso confinamento abbiamo imparato molto di noi dalle nostre case.

Sei mesi fa, forse per la prima volta nella nostra vita, ci siamo abitati: cioè abbiamo capito che la casa siamo noi, il nostro corpo e i nostri bisogni primari. Abbiamo colto il valore simbolico delle stanze e usato questa conoscenza per entrare in contatto con il nostro mondo interno e per tenera a bada le paure sottostanti con i gesti del quotidiano. Alcuni di noi hanno capito che la casa può essere il centro del nostro stare bene.

E ora? Possiamo pensare a questo nuovo, seppur si spera diverso, confinamento come una possibilità di mettere a frutto quello che abbiamo imparato per trovare un nuovo benessere domestico? Per creare una rinnovata geometria di noi stessi, più in sintonia con i nostri bisogni e con la nostra poetica interiore?

Io credo di sì. Se partiamo da un atto essenziale: guardare con occhi critici il nostro spazio domestico e il nostro modo di abitarlo.

La casa, in generale, si costruisce lentamente, procedendo per strati successivi, tra errori e trovate geniali. Ogni trasformazione – un oggetto nuovo, il liberarsi di qualcosa di vecchio, spostare mobili o cambiare colori – è un’occasione di conoscere noi stessi.

Pensiamola quindi come un percorso, un’opera d’arte da costruire affidandoci al nostro intuito, al nostro bisogno di calmare le inquietudini, alla ricerca di un’armonia che inglobi quello che per noi è bellezza (ce lo siamo mai chiesto cos'è per noi la bellezza nella nostra casa?).

Da dove iniziare? Da un ascolto maggiore alle nostre esigenze profonde, dalla capacità di osservare, cambiare, modellare lo spazio alla ricerca di un sottile godimento: ricordandoci che attraverso i gesti che compiamo controlliamo le ansie del nostro mondo interiore, lisciamo le asperità della vita come lenzuola su un letto.

Capire cos’è il godimento per noi – per ognuno è diverso – è fondamentale. Guardiamoci dentro e troviamo punti fermi in questo momento di incertezza. Forse il corpo richiede cibo preparato con cura. Forse il piacere è una pianta in terrazzo, una biblioteca con libri che si ha voglia di sfogliare, una candela profumata mentre si fa un bagno rilassante, lenzuola morbide per l'inverno incipiente. Ai nostri muri abbiamo opere che ci piacciono o riempiamo lo spazio per un orrore del vuoto?

Per stare bene nel nostro abitare abbiamo bisogno di case e spazi personali ma anche di natura, città, intimità e confronto continuo. L'uomo solo, dentro casa, può anche impazzire. Come ormai è chiaro alla maggior parte di noi.

Le architetture del futuro dovranno quindi tenere conto di questo bisogno di integrazione psicologica e strutturale: penso ai gradini delle case dei piccoli villaggi costruiti per sedersi fuori, architetture transizionali che permettono uno scambio protetto con l'esterno; penso ai bow-windows che prolungano la presenza della casa e rimangono in contatto con la città. Abbiamo bisogno dell'incontro, dell'imprevisto per dare un limite al pensiero che, lasciato senza confronto, può diventare ipertrofico e anche delirante.

Per stare bene, allora, bisognerebbe creare spazi metaforici di connessione tra gli edifici: giardini pensili, portici, passerelle, ponti e ballatoi. Abitare più le soglie e viverle non come barriere, frontiere, ma aperture, scambio fluido di energia essenziale.

È lo stesso processo che ho suggerito di fare per le nostre case (guardarle e guardarci dentro, crescere in osmosi) ma applicato alla città. Quello che ci sta succedendo può, in questo senso, essere una bella avventura, l'occasione di scoprire qualcosa di bloccato, o semplicemente  negato. Potremmo alla fine aver imparato ad abitare per abitarci a fondo, liberarci da ricordi ingombranti, respirare in uno spazio nuovo. Nelle nostre case come nelle nostre città.