La città devono smettere di essere voragini idrovore. Dobbiamo usare risorse locali e amplificarle sul territorio, abbattere gli sprechi. Per salvare la nostra risorsa più importante – l’acqua – dobbiamo riprogettare case, campagne e città sulla metafora dell’oasi
* Pietro Laureano, architetto, urbanista, consulente Unesco per zone aride ed ecosistemi in pericolo. Fondatore dell'ONG per la salvaguardia del paesaggio Ipogea. Sta lavorando per Unesco alla stesura di una nuova Convenzione sul Paesaggio
Ho imparato tutto quello che so sul deserto e sull’importanza dell’acqua vivendo con i Tuareg nel Sahara algerino. Fare l’urbanista nel deserto sembra un paradosso ma non lo è: perché il mio mestiere non consiste solo nel fare piani territoriali ma nell’imparare dalla sapienza delle comunità. Come quelle delle oasi, dalle quali si può trarre enorme conoscenza su come progettare un ambiente onorando una risorsa primaria e fondamentale come l’acqua.

Ho usato il verbo progettare non a caso. L’oasi, infatti, è legata a molti luoghi comuni. Il più diffuso è che si pensa che nasca spontanea mentre è un ambiente agricolo, pensato e curato dall’uomo sfruttando le opportunità geomorfologiche e producendo acqua dove non c’è.

L’oasi è un sistema complesso, capace di modificare situazioni inabitabili rendendole fertili. Nasce da piccole azioni che scatenano dinamiche favorevoli. Un piccolo scavo nella sabbia condensa umidità, un filare di rami secchi protegge dalla sabbia, un sasso dà ombra, il palmeto cresce, ombreggia gli orti e attrae insetti che producono l’humus. Chiamo effetto oasi un circuito virtuoso capace di autopropulsione e autorigenerazione, il risultato della comprensione delle leggi naturali per attivare un processo autocatalitico.

Possiamo imparare molto dai sistemi oasiani dell’erg, l’implacabile deserto di dune. Essi infatti coesistono con le leggi del grande mare di sabbia utilizzando i diversi principi di produzione dell’acqua: la captazione, la percolazione e la condensazione. Se la scarsità delle precipitazioni è compensata dalla costruzione di enormi bacini di raccolta, la produzione d’acqua maggiore viene dalle precipitazioni occulte: la condensa prodotta dall’escursione termica, superiore ai 60°. Cumuli di pietre, muretti in terra cruda, strati di vegetazione e appropriati dispositivi idraulici permettono di raccogliere l’umidità, ottenendo fino a 4 litri d’acqua per metro quadro a notte.

Lo strumento architettonico più imponente è la foggara, sistema di gallerie sotterranee che convoglia l’acqua dai bacini di raccolta, si irradia nel terreno, passando sotto le abitazioni, creando pozzi e permettendo alle costruzioni in terra cruda di raffrescarsi. All’uscita del villaggio, l’acqua viene ripartita in canalizzazioni a cielo aperto che intrecciano le logiche di distribuzione con la struttura sociale. I canali, sapientemente suddivisi dai maestri d’acqua, raccontano un’idrogenealogia, il succedersi delle generazioni, rafforzando i legami della comunità e tramandando simbologie. Come un giardino della memoria, l’oasi trascrive nello scorrere dell’acqua la sua storia.

Tutto questo potrebbe essere risolto con una pompa meccanica? Certo sul breve termine funzionerebbe, ma la velocità meccanica di assorbimento, non permettendo l’autorigenerazione, porterebbe a una maggiore desertificazione del suolo.

Un altro luogo comune è che l’uso oculato dell’acqua riguardi solo il deserto, senza rendersi conto che molti territori si stanno inaridendo. Con Ipogea abbiamo lavorato in tutto il mondo per sfatarlo: l’esempio più lampante è Tucson. Il fiume Colorado viene talmente sfruttato dalla città di Las Vegas da non portare più abbastanza acqua in Texas e in Messico, abbiamo quindi riprogettato il sistema idrico basandoci sulle tecniche dei nativi americani che meglio valorizzavano la risorsa.

Questo ha prodotto due risultati: Tucson ora ha un impianto di captazione e di riuso delle acque di scarto per i sistemi agricoli; inoltre i nativi condividendo il proprio sapere hanno riscoperto, e fatto riscoprire, la loro identità ancestrale.

La città non può più permettersi di essere una voragine idrovora. Deve diventare un luogo che usi risorse locali e le amplifichi sul territorio, che non sprechi e smetta di produrre materiali non riciclabili. Non è la tecnologia il problema ma la mentalità da predatore, la mancanza di visione olistica. È sulla metafora dell’oasi che dobbiamo riprogettare le case, le campagne e le intere città.

Con l’Unesco ho viaggiato nello Yemen e a Petra, fino a tornare nella mia Matera, un’oasi di pietra dal complesso sistema di captazione e cisterne. Da vergogna nazionale a esempio illuminato, grazie al recupero dei saperi tradizionali. Il lavoro sui Sassi è stato la scintilla per creare la Banca Mondiale della Conoscenze tradizionali che archivia e mette a disposizione liberamente le tecniche, seguendone le evoluzioni. Un inventario fondamentale per innescare nuove sperimentazioni: senza smanie nostalgiche o folkloristiche. La bioarchitettura, le microturbine e i sistemi duali di uso dell’acqua sono frutto della continua ricerca. L’intreccio profondo tra uomo, cultura e ambiente permette un approccio progettuale basato non sull’immediatezza del risultato ma sulla circolarità e sulla coabitazione in armonia tra tutti gli organismi del pianeta.

 

Link per approfondire: Ipogea: progetti e attivita - L’oasi didattica di Al Ain (Emirati Arabi) - Oasi di Timimoun (Algeria).

Tutte le fotografie nell'articolo sono di Pietro Laureano, tratte dal suo libro Atlante d'acqua. Conoscenze tradizionali per la lotta alla desertificazione edito da Bollate Boringhieri.

Testo raccolto da Giulia Capodieci