La nostalgia porta con sé quel sapore dolce-amaro che ci fa stare bene. Ma quando la connessione con il passato diventa ostinazione, il rischio è smettere di vivere

* Rosalia Giammetta, psicologa e psicoterapeuta, direttore di QuiPsicologia

“Il passato è una terra straniera: là le cose si fanno in un modo differente”. La frase di L. P. Hartley, che Gianrico Carofiglio ha preso in prestito come titolo di un suo romanzo descrive bene la natura paradossale dei ricordi. Che sono, nel nostro percepito, quanto di più intimo esista ma che, in realtà, non sono del tutto nostri, né sotto il nostro controllo.

La psicologia ci insegna, infatti, che i ricordi mutano: senza un’intenzione consapevole, la memoria seleziona esperienze e le modifica, reinventando a tratti il passato. Malgrado la loro instabilità’ in relazione a ciò che è realmente accaduto, essi sono comunque essenziali alla nostra sopravvivenza: per percepire la continuità di noi stessi nel tempo, sapere chi siamo, cogliere la nostra identità. Coltivare i ricordi, mantenere un contatto con il passato ma anche riuscire a attraversarli e dimenticare, sono componenti fondamentali del nostro benessere.

La nostalgia tra desiderio e dolore

La nostalgia è uno dei legami con il passato: è la sensazione di mancanza di persone, luoghi, esperienze. Un misto tra il desiderio di un ritorno a un altrove (amato, perduto e forse in parte idealizzato) e il dolore per l’impossibilità di questo ritorno. La relazione tra la nostalgia e l’esperienza effettiva è però più complessa. Come rilevavano Baudelaire e Bloch, si può provare nostalgia anche per ciò che non si è conosciuto, per possibilità mai intraprese e vite non vissute ma solo fantasticate: una nostalgia del futuro, colorata di speranza.

Il passato come ricerca di appartenenza

Può tutto questo spiegare il nostro amore per tutto ciò che è vintage?

Sì, perché la nostalgia ci fa sentire più vicini agli altri, soddisfa il bisogno di appartenenza, aiuta a trovare un significato alla vita. Per chi propende alla nostalgia, l’acquisto di oggetti legati al passato – specialmente quelli entrati a far parte dell’immaginario collettivo – è una strategia concreta per appagare questi bisogni.

La probabilità di effettuare acquisti vintage è maggiore quanto più la persona bisognosa di compagnia, sicurezza, appoggi e connessioni. Gli oggetti provenienti dal passato – o che ne riprendono forme, colori, sapori – fortificano la propria identità e l’immagine di Sé: sono un rimedio con cui accedere transitoriamente ad altre possibilità, a una vita migliore, diversa.

Una sedia degli anni Cinquanta non basta ovviamente a riorganizzare in modo maturo una personalità o a sviluppare una sensazione di profondo radicamento. Ma l’acquisto può illudere di aver impresso una modifica all’esistenza e di averlo fatto in modo sicuro, puntiforme, controllabile, inglobando isole di passato. Un cambiamento a rischio zero, dentro la comfort zone: gli oggetti fissati nel tempo, vecchi ma diversi dal presente, familiari ma estranei, nutrono il Sé ideale e sostengono l’identità, danno la sensazione di essere completi, arricchiscono.

Un cocooning collettivo

E quando si sperimentano minacce significative, come in questi mesi di angosce da Covid-19? La tensione psicologica e l’incertezza economica non faranno diminuire l’attuale interesse per questo tipo di acquisti, tutt’altro.

Questo cocooning collettivo ha però un rovescio della medaglia. Perché anche se i ricordi e la connessione con il passato sono fondativi per l’essere umano portano con sé il rischio di trasformare il passato nell’unica terra possibile. Se la connessione con ciò che è stato si irrigidisce tanto da diventare ostinazione, si finisce come la biblica moglie di Lot: incapace di vincere la nostalgia, è trasformata in una statua di sale. Se la connessione con il passato diventa ostinazione, non c’è spazio per nessun altro pensiero. Quindi nemmeno per la vita stessa.

Nelle foto di Daniele Bozzano, Poetic Hotel, un progetto culturale ideato da Simone Berno in un albergo fatiscente e inaccessibile a Padova. Trenta artisti ‘ospiti’ creano installazioni che poi abbandonano per sempre. Solo quando l'edificio decadente sarà demolito, il progetto artistico vedrà il suo compimento. Poetic Hotel è un luogo che custodisce passioni dirompenti, visitabile soltanto on line, a tutela – e per rispetto – degli spazi e di chi quegli spazi li ha abitati.