* Mario Trimarchi, industrial designer e artista. Fondatore e direttore dello studio di corporate identity Fragile
Oggi il vuoto è impopolare, forse è il momento di rivalutarlo. Dopo decenni di rincorsa del pieno, tra bulimia consumistica e multitasking pervasivo, potremmo fermarci per comporlo insieme.
Anche se non ce ne rendiamo conto, ci confrontiamo spesso col mistero del vuoto. Quando ascoltiamo la musica e capiamo l’importanza delle pause e dei momenti di silenzio. Quando progettiamo un oggetto e misuriamo l’ampiezza dei gesti di chi lo userà. Quando leggiamo un libro e ci immergiamo nell’armonia dello spazio vuoto che circonda il testo. Quando scegliamo un carattere tipografico e ci sforziamo di comprendere se i tratti neri abbracciano con amore il vuoto dei bianchi.
Il vuoto è dappertutto, fuori e dentro di noi.
La maggior parte dello spazio interno dell’atomo è vuoto, proprio lì dove gli elettroni percorrono le loro orbite quantistiche. Anche se non ci piace ammetterlo, noi stessi siamo fatti praticamente di materia vuota.
A differenza della natura, che non ama il vuoto, tutto quello che l’uomo progetta non può prescinderne. Progettare significa quindi fare un uso sapiente del vuoto.