Produzione diffusa, progettazione condivisa, open innovation: il Covid ha insegnato a milioni di persone a fare le cose insieme meglio, con più intensità e creatività. E a dare un significato diverso alla parola globalizzazione

*Enrico Bassi è il coordinatore di OpenDot, il Fab Lab e hub di ricerca dedicato all’open innovation e alla progettazione partecipativa, fondato dallo studio di interaction design Dotdotdot, con sede a Milano.

 

Lo strano periodo in cui stiamo vivendo ha puntato un faro su aspetti fino ad ora considerati poco rilevanti per noi designer. Facendoci capire che non lo erano. Come un dolore al ginocchio che ignoriamo ma poi ci impedisce di camminare.

Prima di tutto, è emersa l’inflessibilità del sistema produttivo: così come la produzione industriale è un bellissimo marchingegno, preciso, ritmico e costante, si inceppa facilmente quando gli chiedi di modificarsi in tempi rapidi. Il sistema è calibrato per produrre esattamente quello, esattamente per quel numero di volte, usando quella quantità di materie prima alla settimana, occupando quel volume a magazzino e mettendoci quel tempo ad arrivare ai distributori. Si vende meno? Serve spingere in pubblicità che le macchine ferme sono un costo. Aumenta di colpo la domanda? Ci va del tempo per adeguarsi.

Nel frattempo, piccoli studi, Fab Lab e makers, si mettono a pensare e produrre soluzioni per arginare l’emergenza. Sono iniziative che questo genere di persone – delle quali fa parte anche il laboratorio di fabbricazione digitale che dirigo, OpenDot – porta avanti da anni collaborando con realtà industriali, un network internazionale e istituzioni di tutti i tipi. Ma che in questo periodo si sono amplificate a dismisura, coinvolgendo sempre più persone, coagulati in gruppi sempre più organizzati, sempre più grandi. Alcuni arrivano a coordinare decine di progetti, centinaia di idee e decine di migliaia di persone. Il caso più eclatante è quello di Open Source COVID19 Medica Supplies (OSCMS), gruppo nato negli USA agli inizi di marzo, che nell'arco di un paio di mesi ha raccolto 75 mila persone tra makers, medici, infermieri, avvocati, ingegneri e sviluppatori, con un obiettivo comune: supportare chi stava fronteggiando l’emergenza sanitaria e fornire soluzioni al momento non disponibili. È un progetto impressionante sotto molti punti di vista (a me ha stupito la velocità con cui si sono strutturati, il numero di soluzioni trovate e l’eterogeneità di chi ha aderito). Ma nel loro update settimanale citano praticamente solo un dato: quanti e quali pezzi sono stati consegnati. Non a caso la chiamano “Global Production Dashboard”.

Sfogliando i loro progetti, si trovano soluzioni nate al MIT‌ così come ispirate a brevetti militari degli anni ‘70, hanno tra i loro membri gente che l’anno scorso calcava i palchi di conferenze internazionali. Eppure non si concentrano su queste superstar, ma su cosa la community riesce a fare: parlano di impatto. Ad onore della cronaca, l’ultimo loro report riporta questo dato: 3.958.939 pezzi prodotti (e consegnati) in 5 settimane. Credo che nessuna azienda al mondo potrebbe nello stesso tempo e partendo da zero, raggiungere un simile risultato, globalmente.

Il secondo punto chiave lo riassumerei con un “selezione vs emersione”.

In genere i progetti che diventano prodotti sono selezionati, tramite un processo più o meno lineare, da esperti o figure chiave in azienda. Nelle community, invece, i progetti “emergono”: tutti possono esprimere idee più o meno interessanti, alcune sopravvivono meglio di altre, perché più facili, più veloci, già largamente in uso, più comode, più durature, più efficaci. Non c’è giuria, ufficio marketing o comitato di selezione. Chiunque partecipa, a chiunque può venire l’idea giusta. Spesso le idee che sopravvivono sono quelle in cui le persone mettono più energia e tempo, dandogli modo di maturare e crescere.

L’esempio più bello che mi viene in mente è quello dell’Intubation box, uno schermo protettivo per l’intubazione, che riduce il rischio di dispersione del virus durante una delle fasi più critiche: l’intubazione appunto. L’idea è venuta a un medico taiwanese, una coppia dell’Arizona l’ha ripresa, documentata e diffusa, e da lì sono poi nate mille varianti. Anche noi di OpenDot ne abbiamo progettate un paio per facilitarne l’uso con il videolaringoscopio e consegnate a due ospedali lombardi.

Chi è l’autore? Qual è la firma del progettista? Chi si deve ringraziare? Non è facile rispondere e forse non importa nemmeno. L’importante è che arrivi velocemente a chi serve.

A questo si collega il prossimo aspetto chiave, l’open innovation. Prendiamo un caso famoso: le valvole Charlotte per convertire maschere da snorkeling in respiratori. Tutti abbiamo visto il progetto di Isinnova, start-up bresciana che si occupa di innovazione, e la fotografia del primo test fatto in ospedale. La loro storia è bellissima e loro hanno reagito velocemente con cuore e idee brillanti, a una situazione d’emergenza. Questa è la storia che finisce sul giornale, ma quello che è successo dopo è ancora più importante. Nell’arco di pochissimi giorni, moltissimi laboratori in giro per il mondo e altre aziende che avevano prodotti simili, hanno seguito il loro esempio. Questo ha consentito di diffondere il progetto, questo ha generato l’impatto! Mi torna in mente la vecchia storia “se un albero cade dove non c’è nessuno a sentirlo, fa davvero rumore?” Ma dovremmo chiederci più spesso se un progetto che non raggiunge le persone, che migliora anche se di poco la vita a nessuno, come può essere valutato? A cosa serve?

Naturalmente, dobbiamo guardare ai fatti di questi giorni in prospettiva, sia rispetto al passato che al futuro. Nel primo caso è facile: qualcosa che finora sembrava essere disomogeneo, amatoriale e confusionario, si allinea su un obiettivo comune e mostra una capacità di risposta rapida, diffusa, creativa e concreta, che nessun altro è riuscito a eguagliare.

Guardare al futuro è un po’ più difficile, perché mancano ancora dei passaggi chiave prima che questa eccezione diventi una realtà costante. Alcuni aspetti chiave però possiamo immaginarli: le tecnologie produttive continueranno a migliorare, sviluppare insieme (anche se a distanza) lo stesso progetto sarà più facile, tenere traccia (e retribuire) i molteplici contributi necessari allo sviluppo di una soluzione non sarà più impossibile, il sistema di certificazioni e validazioni arriverà a normare (speriamo senza ucciderlo) anche questo mondo di innovazione informale e fluida.

In uno scenario simile è facile capire che quello che il Covid-19 ha portato a galla, potrebbe espandersi ad altre aree e diventare un’alternativa, parziale ma permanente, alla progettazione e alla produzione come l’abbiamo vista finora.

Qualcuno potrebbe dire “tutto ciò non ha nulla a che vedere con il design o con i designer”.

Sono punti di vista, dipende cosa credete sia il lavoro del designer. Personalmente credo che negli ultimi anni ci sia stato un cambiamento, silente e importantissimo, che ha trasformato il design in qualcosa di più simile allo studio della lingua inglese che dell’ingegneria meccanica. Chi fa il traduttore dall'inglese è una piccola percentuale di chi ha studiato e parla perfettamente inglese, gli altri lo usano come uno strumento per fare meglio qualcos'altro. Giornalisti, doppiatori, guide turistiche, ricercatori, eccetera, tutti traggono beneficio e accedono o producono contenuti che non potrebbero fare senza, la padronanza dell’inglese. Nonostante ciò, tradurre non è la loro attività principale.

 

OpenDot, stampa 3D di una versione rivisitata della valvola Charlotte


Ecco, se volete fare i “traduttori del design, i progettisti che collaborano con aziende per progettare e produrre nuovi prodotti industriali, questo cambiamento vi interessa poco. Al massimo, con il tempo, ci sarà una riduzione di alcuni mercati perché i gusti del pubblico stanno cambiando.

Se invece il bagaglio più prezioso che vi siete portati via dal vostro lavoro di progettista è la capacità di trovare soluzioni creative a problemi complessi, facendo dialogare estetica e tecnica, produzione e usabilità, allora là fuori c’è moltissimo da fare e da cambiare. Le community e i progetti di cui vi parlavo hanno bisogno del contributo di esperti di progettazione, di persone che ne sappiano di ergonomia, usabilità, architettura dell’informazione, che abbiamo letto Mari e Norman, che portino bellezza, eleganza, efficienza, creatività e piacevolezza, anche quando gli strumenti produttivi sono ancora acerbi. Serve che collaborino e sappiano far collaborare al meglio le persone con cui lavorano, anche se questo vuol dire non essere l’unico a firmare il progetto. Anche se vuol dire progettare un processo più che un oggetto. O magari la prossima risposta globale ad un problema inatteso.

 

In apertura La pace, foto di Olga Naglieri.