di Germano Celant

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di Germano Celant - [gallery ids="9601,9602,9603,9604,9605,9606,9607,9608"]Qual è stato l’impianto teorico e stiocro che ha sostenuto la rivisitazione e la ricostruzione ,”così com’era”, della mostra curata da Harald Szeemann nel 1969 alla Kunsthalle di Berna? “È sempre la lettura della storia dell’arte a sostenere un progetto. Se si pensa alla logica che ha sostenuto la comunicazione artistica nel corso dei secoli passati si può verificare che – in generale – fino all’Ottocento gli interventi degli artisti erano eseguiti in relazione o in situazione, vale a dire rispondevano a una commissione o a un contesto che veniva loro suggerito od offerto. Quindi le opere erano messe in relazione o erano situate in un territorio ambientale o informativo che era scelto dialetticamente tra committente e artista stesso. Per un lungo periodo l’arte, che non aspira a circolare liberamente come prodotto di scambio e di consumo, si nutre di osmosi con il contesto, dalla caverna al palazzo, dalle pareti al soffitto, e forma un unicum indivisibile. Tale dialogo si spezza quando nell’Ottocento, una volta scomparso il mecenatismo dei nobili, le opere si devono adeguare ad un mercato borghese che si nutre di artefatti disponibili alla circolazione, nel 1863 si creano i Salons. Sono queste le nuove ambientazioni degli artisti ‘non integrati’, vale a dire dei ‘refusés’ e degli ‘indipendenti’ in cui sono raccolti non più integrati, ma appesi ai muri i lavori artistici da mettere in vendita. Tale salto contestuale che sradica l’intervento dall’inserimento murario crea un altro tipo di relazione e di situazione, quella tra le opere stesse e il loro allestimento. È un passaggio che non è mai stato studiato completamente, perché mancano le tracce della logica con cui gli stessi artisti entravano in relazione tra di loro, ponendo i quadri sopra velluti o sculture su piedestalli, e le poche fotografie dell’epoca non permettono una tale ricostruzione. Tuttavia l’input dell’artista sul modo di vedere la sua opera doveva essere importante e controllato, non affidato al caso o ad altri, come mercanti. E se lo era, anche questo elemento può essere soggetto di studio. Tuttavia a partire dal Novecento, le esposizioni sono sempre più controllate dagli artisti stessi, che le adottano per lanciare i loro movimenti linguistici, da Der Blaue Reiter a Monaco nel 1911 a Les Peintres Futuristes Italiens a Parigi nel 1912. Sono momenti di installazione a cui gli artisti partecipano arrivando a creare insiemi dirompenti e sorprendenti, come The First International Dada Fair, a Berlino nel 1920 e Esposition Internationale du Surréalisme a Parigi nel 1938. Si potrebbe affermare che tali insieme diventano un dispositivo dove l’apparente confusione diventa una fusione visuale che argomenta la poetica del gruppo. Il fatto di organizzare le cose o gli oggetti, le fotografie o i materiali secondo un accadere, che sembra fuori di ogni aspettativa, suscita interrogativi e domande. È la stessa cosa successa con When Attitudes Become Form, dove le opere si devono considerare in funzione dell’insieme. Qui ogni entità singola sembra scomparire a favore di un intreccio tra le parti, qualcosa che lo spettatore deve sbrogliare da sé. La concettualità nasce prima delle opere, perché il discorso deriva dal dispositivo curatoriale. Qui sta l’importanza di Szeemann che abbandona la mostra a ‘composizioni’ curiose e caotiche, dense e aperte. Se si assume la mostra come un tutto, in maniera barocca, si capisce come la mostra sia riuscita nel 1969 ad allontanarsi dal display classico e museale, vigente allora nel mondo dell’arte moderna e contemporanea. Lavorando sulle attitudini e sui loro risultati improvvisati ed effimeri, ottiene infatti effetti poetici, inventati e scoperti in situ. In tal modo il piacere del concetto si traduce in conoscenza del piacere. Non si pone alcun criterio di convenienza solo di legame, che deriva da una reciproca familiarità tra gli artisti e il loro fare. Ricostruire questo campo di energia, con le sue varietà espressive, ha significato rivisitare un dispositivo che se anticamente era architettonico, come una cappella o una chiesa, qui era basato sulla varietà e sulla variabilità di una sintonia che non era concreta e muraria, ma basata su un’integrità esperienziale condivisa. Un intreccio di momenti lirici e drammatici che hanno prodotto un tutto dall’acutezza mirabile che commuove ancora oggi. E su tale ipotesi di insieme meravigliante che si è costruito il progetto, facendolo coincidere con un’assolutezza scientifica, capace di ricreare questo tempio effimero del fare arte nel 1969. Di fatto si è cercato di continuare lo studio degli ‘interventi’ globali degli artisti in un contesto che non è più la chiesa o il palazzo, ma la mostra che è diventata il luogo del nuovo splendore contemporaneo”. Si può dire che When Attitudes Become Form rappresenti l’ultimo anelito dello sconvolgimento e della trasgressione modernista, per cui cristallizzarlo in una situazione fuori del suo contesto storico, politico e culturale non rischia di dissolvere la radicalità dell’originale? Se al tempo le immagini di tale operazione hanno avuto un effetto sulla realtà e sull’articolarsi del linguaggio dell’arte, oggi non rischiano di trasformarsi in feticizzazione nostalgica di un’illusione, quindi di una debolezza? “È evidente che la mostra organizzata da Szeemann nel 1969 è stata un’apertura verso un’immaginazione libera quanto politicamente inutile: un buon proposito di un fare rappresentativo che si connetteva alle avanguardie del modernismo. Si può assumere quale gesto morale e critico verso le proposte tradizionali del fare arte, che respingeva la realtà solo per rappresentarla e sottoporla ad un processo mimetico. Le ricerche mostrate a Berna, come in Op Losse Schroeven, realizzata in contemporanea allo Stedelijk Museum di Amsterdam, che presero il nome di Land art, Process art, Arte povera, Conceptual art, erano un ulteriore tentativo di rivalutare la dimensione pragmatica del vedere e del sentire. Vale a dire un cambio di segno espresso nell’attenzione alle tecniche e ai materiali, per esaltare una concezione poetica rispetto a una contemplativa, in cui l’essere umano è spinto a immergersi e non semplicemente guardare. Basta osservare la documentazione che riguarda l’arrivo in scena del pubblico, per capire come tale arte tendesse a un coinvolgimento fisico e corporale. Naturalmente, tale porsi è stato visto, allora, come un eccesso di negatività e di trasgressione rispetto all’istituzione. Qualcosa di ingovernabile e senza regole, che spingeva verso una demitizzazione della sacralità della pittura e della scultura: un rifiuto delle forme classiche per un’esaltazione della dimensione informe – all’epoca definita anche anti-form – della marginalità artistica. Con il suo interesse per il carattere insignificante e concreto delle materie e delle cose l’esposizione del 1969 solennizzò il carattere fortuito e caotico dell’arte, la sua permeabilità a tutti i possibili linguaggi e a tutte le possibili materie, dal piombo all’acqua, dal fuoco alla cera, dalla margarina al tubo fluorescente, dal cuoio al feltro, dai vetri rotti al ghiaccio, dalla cenere al cotone, così come a tutti gli strumenti utili, non privilegiati, dalla pala al caterpillar, dal giornale al cartellone, dalla lettura al camminare… Da cui la de-sacralizzazione di una cultura visiva che si era identificata solo con il dipingere e lo scolpire come con la dislocazione o lo spiazzamento linguistici dell’oggetto trovato. È una celebrazione del significato dell’insignificante, della realtà che si pone in sintonia proprio con il carattere effimero e temporaneo di un esistere sociale e culturale: un doppio senza valore da contrapporre a una catastrofe dei valori passati. E la sanzione prima della presenza di fare rovinoso e frammentario, dissolto e fluido, contrario ad ogni uni-dimensionalità dell’arte”. Di fatto, il reenacting di WABF rischia di tramutare l’effetto di trasgressione in una proposta rassicurante. All’epoca, l’esibizione di scarti industriali e di materie performative e mutanti che bruciavano o si scioglievano per dare corpo ad altre entità tendevano a mettere in discussione la staticità quanto la sacralità dell’artefatto, quanto del luogo espositivo, la Kunsthalle Bern, tanto da sollevare le reazioni dei conservatori che costrinsero Szeemann a dimettersi. Oggi questo non può succedere, anzi questo strappo curatoriale ed artistico viene sacralizzato. Quello che era stato proposto come elusione della fissità e delle regolarità classica ora viene fissato e dissolto in un’accettazione senza riserve: un simulacro privo di effetti. Si può affermare che oggi la radicalità e la trasgressione legate al percorso del modernismo hanno trovato un luogo ed un posto, compresa il display catastrofico e caotico della mostra di Szeemann? Il remake veneziano è l’ultimo atto sublimante di una radicalità che è ormai obsoleta? “La messa in discussione, e la conseguente azione trasgressiva, esistono perché si pone un punto di partenza e di possibile alternativa rispetto ad una condizione preesistente. L’aspetto utopico di tale fare, che implicava un mondo linguistico altro, opposto o quanto meno diverso dal precedente, va ancorato alla situazione storica del momento, il biennio 1968-1969, quando ci si accorge che l’arte si è tramutata in una atto puramente decorativo. Seppure le ricerche sviluppatesi dal 1945 al 1964, dall Espressionismo astratto alla Pop art, avessero tentato di prendere in considerazione la dimensione solitaria e disperata dell’artista, la sua angoscia esistenziale e l’esperienza drammatica del vivere, travolto dalla tragedia della seconda guerra mondiale, come il dissolvimento del valore morale e rappresentativo dell’arte ormai scalzata e fagocitata dall’immaginario mediatico, dalla pubblicità al cartoons, tali proposizioni non erano riuscite a scalzare il valore decorativo dell’artefatto. Si ponevano come duplicati di un immaginario individuale e industriale, senza indebolire e screditare minimamente la pratica del fare, del mostrare, del comunicare e del consumare l’arte. Le attitudini prodotte e mostrate a Berna sottintendevano una scena espositiva che, occupando non solo i musei, ma le strade e gli spazi pubblici, riflettesse un’azione politica in cui tutti fossero coinvolti, artisti e spettatori, e di cui tutti dovevano prendere consapevolezza. È stata questa la vera illusione che rivela ancora il desiderio di una rivoluzione illuminista intrecciata al sogno di proseguire il discorso radicale delle avanguardie del modernismo. Certamente il remake di tale evento rischia, nella sua ripetizione, di esaltare un momento ideale ma al tempo stesso serve a far percepire, mediante l’avvicinamento al suo stato ‘originale’, la realtà di un mito che non è affidabile solo alla documentazione fotografica, ma all’esperienza di un entusiasmo e di un fervore artistico che chiedeva coinvolgimento. La resurrezione di When Attitudes Become Form mette in circolazione lo spettro di una radicalità che oggi non ha più effetto, perché l’arte non è più un’arma politica rispetto alle lotte reali. Affidandosi allo sguardo dell’oggi, tali proposte appaiono forse facili e irreali ma bisogna sottolineare che questa ipotetica sconfitta ha portato ad una nuova dimensione dell’immaginario artistico. Ad un’analisi retrospettiva, si può dire che la sua effettualità sul mondo sia stata infinitesimale, ma rimane in ogni caso un’influenza sul dissolvimento delle strutture tradizionali del sistema dell’arte. Se tutto questo oggi si è trasformato in business, per cui l’arte ha perso qualsiasi identità sociale per diventare merce simbolica ed economica, significa che il tentativo di scollamento dal compromesso consumistico è fallito. L’arte si è posta a rimorchio del mercato ed è arrivata al punto estremo di inefficacia nel suo rapporto critico e poetico con la società e la cultura. Di fatto, a contare nella costruzione di When Attitudes Become Form sono stati anche gli aggiustamenti spaziali che ogni artista ha attuato per convivere con gli altri. È un muoversi interattivo, piuttosto che la creazione di uno spazio privato ed indipendente. Non si poneva infatti alcuna ‘proprietà’ ambientale, ma la semplice territorialità dell’opera stessa. Era il lavoro a cercarsi linkage con gli altri, così da stabilire un rapporto empatico e condiviso. Simile legame ha un carattere comunitario, ampiamente documentato dalle fotografie in cui diversi artisti lavorano in contemporanea, nella stessa stanza, quasi fossero una ‘comune’, ed è tipico del momento storico, basato su una pratica di socialità che è politica quanto creativa. È qualcosa di simile ad un incontro casuale che produce al tempo stesso una confusione e una fusione. La mostra di Berna è stata quasi una formazione di proposizioni che, come in un incavo terrestre, hanno trovato il loro sviluppo scendendo dai soffitti o arrampicandosi alle pareti o trovando una dimensione gravitazionale a pavimento. Il senso vero della mostra di Szeemann è stato quello di mettere insieme un divenire indeterminato dell’arte così che si percepisse un continuo transito tra le opere, in modo che non fosse possibile isolare le caratteristiche individuali, ma l’energia d’insieme. È un momento interattivo e un mettersi ‘in rete’ che evidenzia il passaggio da uno all’altro, in piena attualità: la simultaneità e la coesistenza del presente artistico, che è anche sottolineata dal messa in mostra di gesti e di azioni corporali, dalla stesura di margarina di Joseph Beuys alla distesa di piombo fuso di Richard Serra all’accensione dei giunchi di Gilberto Zorio e alla rimozione fotografica di Ger van Elk. Per non parlare dell’arte come processo ed operazione in situ che cerca di superare il senso del prodotto confezionato e fabbricato a favore dell’operazione linguistica relativa ad una specifica collocazione e situazione, che non è all’interno dell’istituzione ma si immerge nel contrasto urbano, da Michael Heizer a Daniel Buren. Nasce una mostra che funziona come un vortice capace di travolgere lo spettatore, per metterlo in relazione diretta con il processo creativo. È un modo di sottoporre il pubblico a una forza vertiginosa che ne alteri la visione, così da perdersi in essa”. Prima di arrivare ad una soluzione che integrasse la ricostruzione di una vicenda radicale in un contesto attuale, completamente dominato da altri valori non solo linguistici, ma economici come si è proceduto per acquisire tutti i dati scientifici su cui lavorare ad una mappatura completa e precisa di quanto era avvenuto a Berna? “La ricerca si è sviluppata su diversi livelli, che includevano le fonti primarie dall’archivio di Szeemann, ora presso il Getty Institute di Los Angeles, e le testimonianze dirette degli artisti o i documenti reperibili nelle loro fondazioni, quanto le tracce fotografiche e scritte nella biblioteca della Kusthalle di Berna. Attraverso la raccolta dei diversi dati, che spesso hanno portato a conferme, quanto a sorprese, è iniziata la possibile mappatura delle opere in ogni singola stanza. A questo risultato ha contribuito enormemente la collaborazione con il Getty Institute, diretto da Thomas Gaehtgens, che attraverso l’attento studio condotto da Glenn Philips con il suo team su documenti, lettere e fotografie relative a Sezeemann e a When Attitudes Become Form ha permesso l’identificazione delle opere sia in mostra che non. Accanto a questa preziosa indagine sulle fonti curatoriali si è affiancata la ricerca nell’archivio della Kunsthalle, dove si sono trovati riscontri ed informazioni utili per ampliare la visione totale dell’evento, incluse le recensioni e le polemiche sollevate. Infine un ultimo arricchimento è venuto dagli artisti e dalle loro fondazioni che hanno fornito precisazioni sulle opere esposte e non. In generale la ricostruzione ha potuto contare su oltre un migliaio di fotografie, provenienti dagli archivi di Claudio Abate, Leonardo Bezzola, Balthasar Burkhard, Siegfried Kühn, Dölf Preisig, Harry Shunk e Albert Winkler, una raccolta quasi completa, e per la maggior parte inedita, di tutto quanto è stato registrato attraverso le immagini fotografiche. Queste sono state sottoposte ad un’accorta analisi e sono diventate fonti di scoperte e di novità, che hanno spesso arricchito la conoscenza anche degli stessi protagonisti, ampliandone i ricordi e le visioni. Sono venute alla luce opere e installazioni, mai menzionate né registrate sia nel catalogo di Berna sia nelle successive ricerche fatte da studiosi internazionali”. Una volta tracciata la mappa di tutte le opere in mostra e non, come si è proceduto per averle? Quali problemi hanno comportato i prestiti, una volta scoperto che l’opera è andata distrutta o dispersa ? Quale metodo espositivo è stato adottato per evidenziare le assenze? “Essendo una mostra che ha rappresentato un momento di rottura rispetto alla staticità e alla fissità del lavoro d’arte, immettendo un fattore performativo, per cui a volte l’opera mutava nel corso del tempo arrivando a distruggersi, è apparso immediatamente chiaro che a Venezia la possibilità di una ricostruzione totale e originale sarebbe stata impossibile. Tuttavia si è proceduto cercando di avvicinarci al massimo risultato con la consapevolezza che il revisiting avrebbe dovuto basarsi su due realtà: la prima consistente nel reperimento delle opere originali già acquisite da raccolte private e pubbliche, ad esempio i rintracciabili lavori di Carl Andre, Claes Oldenburg, Bruce Nauman, Eva Hesse, Giovanni Anselmo, Hanne Darboven, Reiner Ruthenbeck, Marinus Boezem e Richard Tuttle, che insieme ai rifacimenti – la seconda realtà – da attuarsi invece con la collaborazione degli artisti o delle loro fondazioni che nel loro insieme avrebbero permesso la ricostruzione dell’impatto visivo nelle singole stanze, con la relazione tra volumi e materie. Il primo compito è stato assolto nella maniera tradizionale con richieste a musei e collezionisti, mentre la seconda ha richiesto un ritorno alla fonte, in questo caso l’autore stesso o il suo archivio per chiedere se era possibile una riproposta, sorta di copia espositiva o replica del lavoro: quest’ultimo caso ha sollevato diverse problematiche che hanno coinvolto gli artisti quanto i musei e i collezionisti. Tuttavia alcuni artisti non riconoscono oggi il valore di certi lavori del 1969 o li ritengono ancorati nel loro passato e non più esponibili. Se addirittura non li rinnegano come errori di gioventù o idee che non condividono più. È cambiata così tanto l’arte dal 1969? E quale approccio ha seguito in questi casi ? Nel ricostruire questa mostra ha più peso il documento storico o il rispetto del volere soggettivo dell’artista oggi a quaranta anni di distanza? “La traslazione da un momento all’altro significa un trasporto nel tempo, è una resurrezione di cariche espressive ed emotive che sono passate. Siccome non avvengono attraverso la memoria ma mediante il remake si riproducono concretamente e diventano azioni presenti, quindi una carica che era trascorsa viene riproposta come attuale. Per alcuni è difficile riproporre impulsi e motivazioni già provate, per altri non c’è alcunché di nuovo né di differente, perché il fattore attivo dell’opera è tuttora in corso ed è ancora effettiva. In un caso la rievocazione riflette acquisizioni già elaborate, ma troppo sperimentali o giovanili, per altri è già una definizione di un percorso che è testimonianza di una dichiarazione linguistica anticipatrice ma già matura. Certamente la rielaborazione odierna non corrisponde più ad un’attitudine che tendeva ad oltrepassare il linguaggio tradizionale, ma rischia di essere un ritorno al passato. Tuttavia per capire il presente bisogna far riferimento alle trasformazioni già attuate, anche se appaiono o sono errori. Dopo il 1969 l’arte si è lentamente adeguata alla società dei consumi e dell’informazione di massa, per cui la primarietà delle materie e dei gesti ha lasciato campo alla processualità industriale e mercantile. Lentamente l’operazione artistica si è tramutata in un prodotto prefabbricato ed apparente: una costruzione speculare e narrativa del reale. Si è attuata una moltiplicazione dell’esistente che ha appiattito le forme e il discorso visivi radicali e trasgressivi. Si è creato uno spettacolo dell’arte per riproporne una dimensione decorativa ed esibizionista, mentre l’arte scaturita dal 1968 aspirava ad essere de-realizzante ed iconoclasta. Di fatto l’aspirazione di When Attitudes Become Form è stata quella di abolire il rituale tradizionale del mostrare un’opera a favore di un’esperienza del suo processo di costruzione e di transito dinnanzi allo sguardo dell’osservatore. Qual è il ruolo del curatore in una ripetizione, quasi identica come ambienti e opere, di una mostra in origine curata da un altro? Esiste una sorta di ‘copyright’ nel concepire la curatela di una mostra ? Se sì quanto la mostra intesa come progetto autoriale s’avvicina ad un’opera d’arte? Nel rifare la mostra come WABF è necessario assumere lo stesso ruolo del curatore, che incontrò artisti e protagonisti oppure la rivisitazione si può fare in modo automatico, puramente tecnico, ripetendo azioni e decisioni? “Se si assume When Attitudes Become Form come un oggetto d’uso storico e linguistico, confezionato nel 1969, innalzando l’insieme a unità compatta e definita, la prima operazione curatoriale è quella di restaurarne la totalità, mettendo insieme i frammenti (i singoli lavori d’arte) dislocati e dispersi. È un processo che inizialmente è indifferente alle parti che compongono il tutto. L’intento non è suscitare nuove associazioni o assegnare nuove collocazioni, ma praticare una ricostruzione senza ridisegnarla né modificarla, usando solo gli smembramenti. È un fissarsi su una struttura rigida, ordinata e armonica in cui le relazioni tra le componenti formava un sistema chiuso. Pertanto, il ritrovamento dei residui ha quale fine di ricomporre e mettere insieme il ‘testo’ narrativo steso da Szeemann in collaborazione con gli artisti stessi, immesso tra le ‘pagine’ architettoniche, bianche, della Kunsthalle di Berna. La raccolta di queste parti, spesso effimere e disperse, insieme ai residui che sono entrati nei musei e nelle collezioni, è tesa a ricreare un puzzle o una costellazione identificabile come una totalità, all’epoca pensata quale un nuovo sistema di fare, di mostrare e di pensare l’arte. Tale processo è coinciso, quindi, con un vero e proprio restauro di un prodotto dell’attività creativa. Innanzitutto si è dovuto riconoscere il valore dell’intera operazione, come è stato ammesso da tutti gli studiosi d’arte contemporanea, poi si è identificata la sua materia cioè la sua consistenza fisica, seguita dal riconoscimento estetico e storico che ha contribuito alla necessità di trasmetterla nel futuro, quale fatto fondante di una vicenda primaria. Tale molteplice consistenza è data dall’intreccio tra architettura, opere, relazioni e tutte queste componenti sono state studiate attraverso un metodo scientifico, prima in relazione al tempo ed al luogo in cui è stata realizzata, a Berna, e poi in rapporto al presente storico e alla sua nuova collocazione a Venezia. È fondamentale indagare l’unità dell’esposizione, sia da un punto di vista qualitativo che quantitativo cercando di avvicinarci al suo intero. Il passaggio successivo è stato di verificare fino a che punto fosse possibile la ricostruzione di tale unità. Ciò è avvenuto mettendo insieme tutte le informazioni possibili sui singoli tasselli del mosaico espositivo, capendo anche dove ci sarebbero le lacune e i vuoti che potevano riguardare il materiale che componeva la mostra. Che tipo di intervento sarebbe stato necessario per colmarle? Si sarebbero ripristinate con un inserimento di simulazioni contemporanee, oppure si sarebbe lasciato un vuoto, cercando di segnalare un’assenza? O ancora in maniera più radicale sarebbe stato necessario costruire immagini in vitro, molto vicine ad un ‘falso’, quasi sempre fallimentare? Quale sarebbe stata la legittimità di un tale intervento sostitutivo o informativo? Si sarebbe lavorato caso per caso o sulle singole accumulazioni, stanza per stanza? Come risolvere tutte queste problematiche che avrebbero riguardato la visione del curatore, passata e presente, con la consapevolezza che il ruolo del curatore che non è solo quello di assemblatore di nuovi insiemi, ma anche di un ricostruttore di contesti, ambientali e culturali, dove ricostruire da buon conservatore della storia le tracce passate? A tali problematiche sollevate dal remake o dal revisiting di When Attitudes Become Form si è tentato di rispondere creando a Venezia un dialogo tra il curatore-restauratorericostruttore delle cose d’arte e l’architetto Rem Koolhaas e l’artista Thomas Demand, al fine di creare una prospettiva multipla e plurilinguistica capace di affrontare le diverse risposte architettoniche e visuali. Insieme si sono cercate e trovate soluzioni sul raccordo temporale e spaziale tra l’evento del 1969 e la decisione di un suo remake e di un suo reenacting. È sorto qui il problema della cornice che ospitava nel 1969 la mostra, totalmente diversa da quella veneziana nel 2013: la necessità di definire un trapasso tra lo spazio fisico in cui era immersa nella Kunsthalle e nella Schulwarte a Berna e quello del palazzo settecentesco di Ca’ Corner della Regina a Venezia. Due spazialità diverse che avrebbero dovuto interagire con l’oggetto When Attitudes Become Form. Quale possibile raccordo o disaccordo si deve trovare tra le due temporalità e le due spazialità? Inventarne un terzo che riguarda il godimento attuale dell’intera opera, così che risulti facile da percepire ad un pubblico attuale, oppure lavorare su uno strappo ambientale e temporale? La differenza è sostanziale e riguarda il rapporto con l’osservatore, il pubblico. Siccome qualsiasi architettura ha un valore spaziale diverso, rimuovere quella di Berna per utilizzare quella di Venezia sarebbe stata un’operazione di estrinsecazione diversa dalla formulazione storica. Annullare invece la presenza storico-muraria di Venezia a favore di una sequenza di stanze white cube avrebbe significato immettere l’insieme curato da Szeemann in un limbo, senza ancoraggi o referenze visive ed esperienziali alla situazione presente. Si è optato per una spazialità che non risolvesse il discorso a favore di una o dell’altra architettura, forzando la frattura temporale e spaziale. Il risultato è stato di creare un continuum dove il problema architettonico altera ed è alterato dall’innesto tra Kunsthalle, Schulwarte e Ca’ Corner della Regina. Non si è tentato di realizzare alcun falso criterio di continuità o di integrazione stilistica, ma si è lavorato per contrasto, immettendo in modo eclatante gli spazi moderni di Berna dentro il contenitore storico di Venezia. E, a ben vedere, entrambe le situazioni di fatto fanno parte della trasmissione dell’opera When Attitudes Become Form. Una volta trovata la cornice corretta per evidenziare la complessità di una ricostruzione, s’è passati al recupero e alla ricostruzione, quando necessario, delle figure – cioè le opere – che componevano il ‘racconto’ per immagini di Szeemann. Il lavoro del curatore a Venezia è stato dunque quello di negare la propria soggettività di assemblatore di mostre per ricostruire e restaurare un testo di un altro curatore. Questa spersonalizzazione è un tentativo di far sì che relazione oggettiva e soggettiva con la cosa esposta non siano più considerati antinomici. Il compito finale è stato quello di evocare un sorprendente prodotto d’epoca, d’identificarsi con esso, senza assumerlo come romantica e nostalgica rovina dell’altrui e proprio tempo passato. Una volta ricostruito come significante privilegiato di una serie di significati instabili e aleatori, entrare in rapporto diacronico con esso per suscitare una sensibilità attuale. E siccome questo oggetto del 1969, ricostruito e restaurato, necessitava nel 2013 di un nuovo rapporto con l’attualità, lo si è inserito in una zona di sospensione, un territorio estraneo alla sua storia e alla sua cronologia – Ca’ Corner della Regina – con l’idea di rilanciare la geografia e la storia del suo immaginario. Di fatto, inserirlo come un corpo irritante in un dentro che potesse provocare una secrezione di difesa: la sua nuova perla”. Ora che When Attitudes Become Form si è aperta a Venezia, in Cà Corner della Regina, cosa è cambiato nel suo percorso di storico e di curatore? “Rivisitare dal vero un evento che avevo vissuto in diretta a Berna e ricostruirlo, mi ha confermato la potenza del momento storico sia sul piano del linguaggio artistico che del procedere del curatore. Essendo una rivisitazione condotta in occasione della Biennale di Venezia 2013, quindi da collocarsi in un contesto non neutro, ma definito da altre proposte curatoriali – quella di Massimiliano Gioni, con il suo Palazzo Enciclopedico, e quelle delle decine e decine di curatori che sono intervenuti nelle mostre collaterali – ho capito che il pericolo dell’arte contemporanea e del suo modo di comunicare sta nel ridursi a un’immagine sottile e senza peso, capace di scorrere fluidamente, senza ancoraggio sulla parete bianca, la quale può essere metafora di un museo, di una galleria e di una fiera. Si è perso il contatto e, diciamo, il dialogo con il contesto, e l’arte si è ridotta ad un prodotto senza peso e energia, fondamentalmente un decoro temporaneo di un possibile cubo bianco, simbolico di qualsiasi contesto abitativo ospitante. Sento quindi sempre più l’esigenza di ancorare l’arte a un luogo o un territorio, invitandola a mettere le radici, senza dimenticare la storia. Ad esempio la cancellazione dell’architettura cinquecentesca dell’Arsenale, condotta attraverso la costruzione di percorsi dalle bianche pareti in legno o in cartongesso, è indice di un’astrazione ambientale, legata alla messa in un limbo dell’arte. When Attitudes Become Form era invece un tutto che il mercato ha parimenti spezzato, ma si capisce la sua forza ricomponendolo. I frammenti non formano una statua o un vaso, sono rovine, e qui sta il rischio del presente contemporaneo di trasformarsi in rovina. All’epoca l’istanza di fare arte non era tesa ad una pratica edonistica né didattica né economica, per cui le cose potevano andare distrutte o disperse, essere inutili e non funzionali. A contare era la prova di un’energia mentale e fisica, comportamentale ed emotiva che portava alla costruzione di ‘figure’ immaginarie senza alcun fine se non il piacere di esprimersi. L’aspirazione all’idea e della sua soddisfazione cercava di avere effetto sul reale, non solo in cambio della sopravvivenza, ma dell’azione sul pubblico, che allora si definiva ‘politica’: rifiuto del diletto e del decoro a favore di un produrre energetico che sollecitasse domande”.
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di Germano Celant - [gallery ids="9601,9602,9603,9604,9605,9606,9607,9608"]Qual è stato l’impianto teorico e stiocro che ha sostenuto la rivisitazione e la ricostruzione ,”così com’era”, della mostra curata da Harald Szeemann nel 1969 alla Kunsthalle di Berna? “È sempre la lettura della storia dell’arte a sostenere un progetto. Se si pensa alla logica che ha sostenuto la comunicazione artistica nel corso dei secoli passati si può verificare che – in generale – fino all’Ottocento gli interventi degli artisti erano eseguiti in relazione o in situazione, vale a dire rispondevano a una commissione o a un contesto che veniva loro suggerito od offerto. Quindi le opere erano messe in relazione o erano situate in un territorio ambientale o informativo che era scelto dialetticamente tra committente e artista stesso. Per un lungo periodo l’arte, che non aspira a circolare liberamente come prodotto di scambio e di consumo, si nutre di osmosi con il contesto, dalla caverna al palazzo, dalle pareti al soffitto, e forma un unicum indivisibile. Tale dialogo si spezza quando nell’Ottocento, una volta scomparso il mecenatismo dei nobili, le opere si devono adeguare ad un mercato borghese che si nutre di artefatti disponibili alla circolazione, nel 1863 si creano i Salons. Sono queste le nuove ambientazioni degli artisti ‘non integrati’, vale a dire dei ‘refusés’ e degli ‘indipendenti’ in cui sono raccolti non più integrati, ma appesi ai muri i lavori artistici da mettere in vendita. Tale salto contestuale che sradica l’intervento dall’inserimento murario crea un altro tipo di relazione e di situazione, quella tra le opere stesse e il loro allestimento. È un passaggio che non è mai stato studiato completamente, perché mancano le tracce della logica con cui gli stessi artisti entravano in relazione tra di loro, ponendo i quadri sopra velluti o sculture su piedestalli, e le poche fotografie dell’epoca non permettono una tale ricostruzione. Tuttavia l’input dell’artista sul modo di vedere la sua opera doveva essere importante e controllato, non affidato al caso o ad altri, come mercanti. E se lo era, anche questo elemento può essere soggetto di studio. Tuttavia a partire dal Novecento, le esposizioni sono sempre più controllate dagli artisti stessi, che le adottano per lanciare i loro movimenti linguistici, da Der Blaue Reiter a Monaco nel 1911 a Les Peintres Futuristes Italiens a Parigi nel 1912. Sono momenti di installazione a cui gli artisti partecipano arrivando a creare insiemi dirompenti e sorprendenti, come The First International Dada Fair, a Berlino nel 1920 e Esposition Internationale du Surréalisme a Parigi nel 1938. Si potrebbe affermare che tali insieme diventano un dispositivo dove l’apparente confusione diventa una fusione visuale che argomenta la poetica del gruppo. Il fatto di organizzare le cose o gli oggetti, le fotografie o i materiali secondo un accadere, che sembra fuori di ogni aspettativa, suscita interrogativi e domande. È la stessa cosa successa con When Attitudes Become Form, dove le opere si devono considerare in funzione dell’insieme. Qui ogni entità singola sembra scomparire a favore di un intreccio tra le parti, qualcosa che lo spettatore deve sbrogliare da sé. La concettualità nasce prima delle opere, perché il discorso deriva dal dispositivo curatoriale. Qui sta l’importanza di Szeemann che abbandona la mostra a ‘composizioni’ curiose e caotiche, dense e aperte. Se si assume la mostra come un tutto, in maniera barocca, si capisce come la mostra sia riuscita nel 1969 ad allontanarsi dal display classico e museale, vigente allora nel mondo dell’arte moderna e contemporanea. Lavorando sulle attitudini e sui loro risultati improvvisati ed effimeri, ottiene infatti effetti poetici, inventati e scoperti in situ. In tal modo il piacere del concetto si traduce in conoscenza del piacere. Non si pone alcun criterio di convenienza solo di legame, che deriva da una reciproca familiarità tra gli artisti e il loro fare. Ricostruire questo campo di energia, con le sue varietà espressive, ha significato rivisitare un dispositivo che se anticamente era architettonico, come una cappella o una chiesa, qui era basato sulla varietà e sulla variabilità di una sintonia che non era concreta e muraria, ma basata su un’integrità esperienziale condivisa. Un intreccio di momenti lirici e drammatici che hanno prodotto un tutto dall’acutezza mirabile che commuove ancora oggi. E su tale ipotesi di insieme meravigliante che si è costruito il progetto, facendolo coincidere con un’assolutezza scientifica, capace di ricreare questo tempio effimero del fare arte nel 1969. Di fatto si è cercato di continuare lo studio degli ‘interventi’ globali degli artisti in un contesto che non è più la chiesa o il palazzo, ma la mostra che è diventata il luogo del nuovo splendore contemporaneo”. Si può dire che When Attitudes Become Form rappresenti l’ultimo anelito dello sconvolgimento e della trasgressione modernista, per cui cristallizzarlo in una situazione fuori del suo contesto storico, politico e culturale non rischia di dissolvere la radicalità dell’originale? Se al tempo le immagini di tale operazione hanno avuto un effetto sulla realtà e sull’articolarsi del linguaggio dell’arte, oggi non rischiano di trasformarsi in feticizzazione nostalgica di un’illusione, quindi di una debolezza? “È evidente che la mostra organizzata da Szeemann nel 1969 è stata un’apertura verso un’immaginazione libera quanto politicamente inutile: un buon proposito di un fare rappresentativo che si connetteva alle avanguardie del modernismo. Si può assumere quale gesto morale e critico verso le proposte tradizionali del fare arte, che respingeva la realtà solo per rappresentarla e sottoporla ad un processo mimetico. Le ricerche mostrate a Berna, come in Op Losse Schroeven, realizzata in contemporanea allo Stedelijk Museum di Amsterdam, che presero il nome di Land art, Process art, Arte povera, Conceptual art, erano un ulteriore tentativo di rivalutare la dimensione pragmatica del vedere e del sentire. Vale a dire un cambio di segno espresso nell’attenzione alle tecniche e ai materiali, per esaltare una concezione poetica rispetto a una contemplativa, in cui l’essere umano è spinto a immergersi e non semplicemente guardare. Basta osservare la documentazione che riguarda l’arrivo in scena del pubblico, per capire come tale arte tendesse a un coinvolgimento fisico e corporale. Naturalmente, tale porsi è stato visto, allora, come un eccesso di negatività e di trasgressione rispetto all’istituzione. Qualcosa di ingovernabile e senza regole, che spingeva verso una demitizzazione della sacralità della pittura e della scultura: un rifiuto delle forme classiche per un’esaltazione della dimensione informe – all’epoca definita anche anti-form – della marginalità artistica. Con il suo interesse per il carattere insignificante e concreto delle materie e delle cose l’esposizione del 1969 solennizzò il carattere fortuito e caotico dell’arte, la sua permeabilità a tutti i possibili linguaggi e a tutte le possibili materie, dal piombo all’acqua, dal fuoco alla cera, dalla margarina al tubo fluorescente, dal cuoio al feltro, dai vetri rotti al ghiaccio, dalla cenere al cotone, così come a tutti gli strumenti utili, non privilegiati, dalla pala al caterpillar, dal giornale al cartellone, dalla lettura al camminare… Da cui la de-sacralizzazione di una cultura visiva che si era identificata solo con il dipingere e lo scolpire come con la dislocazione o lo spiazzamento linguistici dell’oggetto trovato. È una celebrazione del significato dell’insignificante, della realtà che si pone in sintonia proprio con il carattere effimero e temporaneo di un esistere sociale e culturale: un doppio senza valore da contrapporre a una catastrofe dei valori passati. E la sanzione prima della presenza di fare rovinoso e frammentario, dissolto e fluido, contrario ad ogni uni-dimensionalità dell’arte”. Di fatto, il reenacting di WABF rischia di tramutare l’effetto di trasgressione in una proposta rassicurante. All’epoca, l’esibizione di scarti industriali e di materie performative e mutanti che bruciavano o si scioglievano per dare corpo ad altre entità tendevano a mettere in discussione la staticità quanto la sacralità dell’artefatto, quanto del luogo espositivo, la Kunsthalle Bern, tanto da sollevare le reazioni dei conservatori che costrinsero Szeemann a dimettersi. Oggi questo non può succedere, anzi questo strappo curatoriale ed artistico viene sacralizzato. Quello che era stato proposto come elusione della fissità e delle regolarità classica ora viene fissato e dissolto in un’accettazione senza riserve: un simulacro privo di effetti. Si può affermare che oggi la radicalità e la trasgressione legate al percorso del modernismo hanno trovato un luogo ed un posto, compresa il display catastrofico e caotico della mostra di Szeemann? Il remake veneziano è l’ultimo atto sublimante di una radicalità che è ormai obsoleta? “La messa in discussione, e la conseguente azione trasgressiva, esistono perché si pone un punto di partenza e di possibile alternativa rispetto ad una condizione preesistente. L’aspetto utopico di tale fare, che implicava un mondo linguistico altro, opposto o quanto meno diverso dal precedente, va ancorato alla situazione storica del momento, il biennio 1968-1969, quando ci si accorge che l’arte si è tramutata in una atto puramente decorativo. Seppure le ricerche sviluppatesi dal 1945 al 1964, dall Espressionismo astratto alla Pop art, avessero tentato di prendere in considerazione la dimensione solitaria e disperata dell’artista, la sua angoscia esistenziale e l’esperienza drammatica del vivere, travolto dalla tragedia della seconda guerra mondiale, come il dissolvimento del valore morale e rappresentativo dell’arte ormai scalzata e fagocitata dall’immaginario mediatico, dalla pubblicità al cartoons, tali proposizioni non erano riuscite a scalzare il valore decorativo dell’artefatto. Si ponevano come duplicati di un immaginario individuale e industriale, senza indebolire e screditare minimamente la pratica del fare, del mostrare, del comunicare e del consumare l’arte. Le attitudini prodotte e mostrate a Berna sottintendevano una scena espositiva che, occupando non solo i musei, ma le strade e gli spazi pubblici, riflettesse un’azione politica in cui tutti fossero coinvolti, artisti e spettatori, e di cui tutti dovevano prendere consapevolezza. È stata questa la vera illusione che rivela ancora il desiderio di una rivoluzione illuminista intrecciata al sogno di proseguire il discorso radicale delle avanguardie del modernismo. Certamente il remake di tale evento rischia, nella sua ripetizione, di esaltare un momento ideale ma al tempo stesso serve a far percepire, mediante l’avvicinamento al suo stato ‘originale’, la realtà di un mito che non è affidabile solo alla documentazione fotografica, ma all’esperienza di un entusiasmo e di un fervore artistico che chiedeva coinvolgimento. La resurrezione di When Attitudes Become Form mette in circolazione lo spettro di una radicalità che oggi non ha più effetto, perché l’arte non è più un’arma politica rispetto alle lotte reali. Affidandosi allo sguardo dell’oggi, tali proposte appaiono forse facili e irreali ma bisogna sottolineare che questa ipotetica sconfitta ha portato ad una nuova dimensione dell’immaginario artistico. Ad un’analisi retrospettiva, si può dire che la sua effettualità sul mondo sia stata infinitesimale, ma rimane in ogni caso un’influenza sul dissolvimento delle strutture tradizionali del sistema dell’arte. Se tutto questo oggi si è trasformato in business, per cui l’arte ha perso qualsiasi identità sociale per diventare merce simbolica ed economica, significa che il tentativo di scollamento dal compromesso consumistico è fallito. L’arte si è posta a rimorchio del mercato ed è arrivata al punto estremo di inefficacia nel suo rapporto critico e poetico con la società e la cultura. Di fatto, a contare nella costruzione di When Attitudes Become Form sono stati anche gli aggiustamenti spaziali che ogni artista ha attuato per convivere con gli altri. È un muoversi interattivo, piuttosto che la creazione di uno spazio privato ed indipendente. Non si poneva infatti alcuna ‘proprietà’ ambientale, ma la semplice territorialità dell’opera stessa. Era il lavoro a cercarsi linkage con gli altri, così da stabilire un rapporto empatico e condiviso. Simile legame ha un carattere comunitario, ampiamente documentato dalle fotografie in cui diversi artisti lavorano in contemporanea, nella stessa stanza, quasi fossero una ‘comune’, ed è tipico del momento storico, basato su una pratica di socialità che è politica quanto creativa. È qualcosa di simile ad un incontro casuale che produce al tempo stesso una confusione e una fusione. La mostra di Berna è stata quasi una formazione di proposizioni che, come in un incavo terrestre, hanno trovato il loro sviluppo scendendo dai soffitti o arrampicandosi alle pareti o trovando una dimensione gravitazionale a pavimento. Il senso vero della mostra di Szeemann è stato quello di mettere insieme un divenire indeterminato dell’arte così che si percepisse un continuo transito tra le opere, in modo che non fosse possibile isolare le caratteristiche individuali, ma l’energia d’insieme. È un momento interattivo e un mettersi ‘in rete’ che evidenzia il passaggio da uno all’altro, in piena attualità: la simultaneità e la coesistenza del presente artistico, che è anche sottolineata dal messa in mostra di gesti e di azioni corporali, dalla stesura di margarina di Joseph Beuys alla distesa di piombo fuso di Richard Serra all’accensione dei giunchi di Gilberto Zorio e alla rimozione fotografica di Ger van Elk. Per non parlare dell’arte come processo ed operazione in situ che cerca di superare il senso del prodotto confezionato e fabbricato a favore dell’operazione linguistica relativa ad una specifica collocazione e situazione, che non è all’interno dell’istituzione ma si immerge nel contrasto urbano, da Michael Heizer a Daniel Buren. Nasce una mostra che funziona come un vortice capace di travolgere lo spettatore, per metterlo in relazione diretta con il processo creativo. È un modo di sottoporre il pubblico a una forza vertiginosa che ne alteri la visione, così da perdersi in essa”. Prima di arrivare ad una soluzione che integrasse la ricostruzione di una vicenda radicale in un contesto attuale, completamente dominato da altri valori non solo linguistici, ma economici come si è proceduto per acquisire tutti i dati scientifici su cui lavorare ad una mappatura completa e precisa di quanto era avvenuto a Berna? “La ricerca si è sviluppata su diversi livelli, che includevano le fonti primarie dall’archivio di Szeemann, ora presso il Getty Institute di Los Angeles, e le testimonianze dirette degli artisti o i documenti reperibili nelle loro fondazioni, quanto le tracce fotografiche e scritte nella biblioteca della Kusthalle di Berna. Attraverso la raccolta dei diversi dati, che spesso hanno portato a conferme, quanto a sorprese, è iniziata la possibile mappatura delle opere in ogni singola stanza. A questo risultato ha contribuito enormemente la collaborazione con il Getty Institute, diretto da Thomas Gaehtgens, che attraverso l’attento studio condotto da Glenn Philips con il suo team su documenti, lettere e fotografie relative a Sezeemann e a When Attitudes Become Form ha permesso l’identificazione delle opere sia in mostra che non. Accanto a questa preziosa indagine sulle fonti curatoriali si è affiancata la ricerca nell’archivio della Kunsthalle, dove si sono trovati riscontri ed informazioni utili per ampliare la visione totale dell’evento, incluse le recensioni e le polemiche sollevate. Infine un ultimo arricchimento è venuto dagli artisti e dalle loro fondazioni che hanno fornito precisazioni sulle opere esposte e non. In generale la ricostruzione ha potuto contare su oltre un migliaio di fotografie, provenienti dagli archivi di Claudio Abate, Leonardo Bezzola, Balthasar Burkhard, Siegfried Kühn, Dölf Preisig, Harry Shunk e Albert Winkler, una raccolta quasi completa, e per la maggior parte inedita, di tutto quanto è stato registrato attraverso le immagini fotografiche. Queste sono state sottoposte ad un’accorta analisi e sono diventate fonti di scoperte e di novità, che hanno spesso arricchito la conoscenza anche degli stessi protagonisti, ampliandone i ricordi e le visioni. Sono venute alla luce opere e installazioni, mai menzionate né registrate sia nel catalogo di Berna sia nelle successive ricerche fatte da studiosi internazionali”. Una volta tracciata la mappa di tutte le opere in mostra e non, come si è proceduto per averle? Quali problemi hanno comportato i prestiti, una volta scoperto che l’opera è andata distrutta o dispersa ? Quale metodo espositivo è stato adottato per evidenziare le assenze? “Essendo una mostra che ha rappresentato un momento di rottura rispetto alla staticità e alla fissità del lavoro d’arte, immettendo un fattore performativo, per cui a volte l’opera mutava nel corso del tempo arrivando a distruggersi, è apparso immediatamente chiaro che a Venezia la possibilità di una ricostruzione totale e originale sarebbe stata impossibile. Tuttavia si è proceduto cercando di avvicinarci al massimo risultato con la consapevolezza che il revisiting avrebbe dovuto basarsi su due realtà: la prima consistente nel reperimento delle opere originali già acquisite da raccolte private e pubbliche, ad esempio i rintracciabili lavori di Carl Andre, Claes Oldenburg, Bruce Nauman, Eva Hesse, Giovanni Anselmo, Hanne Darboven, Reiner Ruthenbeck, Marinus Boezem e Richard Tuttle, che insieme ai rifacimenti – la seconda realtà – da attuarsi invece con la collaborazione degli artisti o delle loro fondazioni che nel loro insieme avrebbero permesso la ricostruzione dell’impatto visivo nelle singole stanze, con la relazione tra volumi e materie. Il primo compito è stato assolto nella maniera tradizionale con richieste a musei e collezionisti, mentre la seconda ha richiesto un ritorno alla fonte, in questo caso l’autore stesso o il suo archivio per chiedere se era possibile una riproposta, sorta di copia espositiva o replica del lavoro: quest’ultimo caso ha sollevato diverse problematiche che hanno coinvolto gli artisti quanto i musei e i collezionisti. Tuttavia alcuni artisti non riconoscono oggi il valore di certi lavori del 1969 o li ritengono ancorati nel loro passato e non più esponibili. Se addirittura non li rinnegano come errori di gioventù o idee che non condividono più. È cambiata così tanto l’arte dal 1969? E quale approccio ha seguito in questi casi ? Nel ricostruire questa mostra ha più peso il documento storico o il rispetto del volere soggettivo dell’artista oggi a quaranta anni di distanza? “La traslazione da un momento all’altro significa un trasporto nel tempo, è una resurrezione di cariche espressive ed emotive che sono passate. Siccome non avvengono attraverso la memoria ma mediante il remake si riproducono concretamente e diventano azioni presenti, quindi una carica che era trascorsa viene riproposta come attuale. Per alcuni è difficile riproporre impulsi e motivazioni già provate, per altri non c’è alcunché di nuovo né di differente, perché il fattore attivo dell’opera è tuttora in corso ed è ancora effettiva. In un caso la rievocazione riflette acquisizioni già elaborate, ma troppo sperimentali o giovanili, per altri è già una definizione di un percorso che è testimonianza di una dichiarazione linguistica anticipatrice ma già matura. Certamente la rielaborazione odierna non corrisponde più ad un’attitudine che tendeva ad oltrepassare il linguaggio tradizionale, ma rischia di essere un ritorno al passato. Tuttavia per capire il presente bisogna far riferimento alle trasformazioni già attuate, anche se appaiono o sono errori. Dopo il 1969 l’arte si è lentamente adeguata alla società dei consumi e dell’informazione di massa, per cui la primarietà delle materie e dei gesti ha lasciato campo alla processualità industriale e mercantile. Lentamente l’operazione artistica si è tramutata in un prodotto prefabbricato ed apparente: una costruzione speculare e narrativa del reale. Si è attuata una moltiplicazione dell’esistente che ha appiattito le forme e il discorso visivi radicali e trasgressivi. Si è creato uno spettacolo dell’arte per riproporne una dimensione decorativa ed esibizionista, mentre l’arte scaturita dal 1968 aspirava ad essere de-realizzante ed iconoclasta. Di fatto l’aspirazione di When Attitudes Become Form è stata quella di abolire il rituale tradizionale del mostrare un’opera a favore di un’esperienza del suo processo di costruzione e di transito dinnanzi allo sguardo dell’osservatore. Qual è il ruolo del curatore in una ripetizione, quasi identica come ambienti e opere, di una mostra in origine curata da un altro? Esiste una sorta di ‘copyright’ nel concepire la curatela di una mostra ? Se sì quanto la mostra intesa come progetto autoriale s’avvicina ad un’opera d’arte? Nel rifare la mostra come WABF è necessario assumere lo stesso ruolo del curatore, che incontrò artisti e protagonisti oppure la rivisitazione si può fare in modo automatico, puramente tecnico, ripetendo azioni e decisioni? “Se si assume When Attitudes Become Form come un oggetto d’uso storico e linguistico, confezionato nel 1969, innalzando l’insieme a unità compatta e definita, la prima operazione curatoriale è quella di restaurarne la totalità, mettendo insieme i frammenti (i singoli lavori d’arte) dislocati e dispersi. È un processo che inizialmente è indifferente alle parti che compongono il tutto. L’intento non è suscitare nuove associazioni o assegnare nuove collocazioni, ma praticare una ricostruzione senza ridisegnarla né modificarla, usando solo gli smembramenti. È un fissarsi su una struttura rigida, ordinata e armonica in cui le relazioni tra le componenti formava un sistema chiuso. Pertanto, il ritrovamento dei residui ha quale fine di ricomporre e mettere insieme il ‘testo’ narrativo steso da Szeemann in collaborazione con gli artisti stessi, immesso tra le ‘pagine’ architettoniche, bianche, della Kunsthalle di Berna. La raccolta di queste parti, spesso effimere e disperse, insieme ai residui che sono entrati nei musei e nelle collezioni, è tesa a ricreare un puzzle o una costellazione identificabile come una totalità, all’epoca pensata quale un nuovo sistema di fare, di mostrare e di pensare l’arte. Tale processo è coinciso, quindi, con un vero e proprio restauro di un prodotto dell’attività creativa. Innanzitutto si è dovuto riconoscere il valore dell’intera operazione, come è stato ammesso da tutti gli studiosi d’arte contemporanea, poi si è identificata la sua materia cioè la sua consistenza fisica, seguita dal riconoscimento estetico e storico che ha contribuito alla necessità di trasmetterla nel futuro, quale fatto fondante di una vicenda primaria. Tale molteplice consistenza è data dall’intreccio tra architettura, opere, relazioni e tutte queste componenti sono state studiate attraverso un metodo scientifico, prima in relazione al tempo ed al luogo in cui è stata realizzata, a Berna, e poi in rapporto al presente storico e alla sua nuova collocazione a Venezia. È fondamentale indagare l’unità dell’esposizione, sia da un punto di vista qualitativo che quantitativo cercando di avvicinarci al suo intero. Il passaggio successivo è stato di verificare fino a che punto fosse possibile la ricostruzione di tale unità. Ciò è avvenuto mettendo insieme tutte le informazioni possibili sui singoli tasselli del mosaico espositivo, capendo anche dove ci sarebbero le lacune e i vuoti che potevano riguardare il materiale che componeva la mostra. Che tipo di intervento sarebbe stato necessario per colmarle? Si sarebbero ripristinate con un inserimento di simulazioni contemporanee, oppure si sarebbe lasciato un vuoto, cercando di segnalare un’assenza? O ancora in maniera più radicale sarebbe stato necessario costruire immagini in vitro, molto vicine ad un ‘falso’, quasi sempre fallimentare? Quale sarebbe stata la legittimità di un tale intervento sostitutivo o informativo? Si sarebbe lavorato caso per caso o sulle singole accumulazioni, stanza per stanza? Come risolvere tutte queste problematiche che avrebbero riguardato la visione del curatore, passata e presente, con la consapevolezza che il ruolo del curatore che non è solo quello di assemblatore di nuovi insiemi, ma anche di un ricostruttore di contesti, ambientali e culturali, dove ricostruire da buon conservatore della storia le tracce passate? A tali problematiche sollevate dal remake o dal revisiting di When Attitudes Become Form si è tentato di rispondere creando a Venezia un dialogo tra il curatore-restauratorericostruttore delle cose d’arte e l’architetto Rem Koolhaas e l’artista Thomas Demand, al fine di creare una prospettiva multipla e plurilinguistica capace di affrontare le diverse risposte architettoniche e visuali. Insieme si sono cercate e trovate soluzioni sul raccordo temporale e spaziale tra l’evento del 1969 e la decisione di un suo remake e di un suo reenacting. È sorto qui il problema della cornice che ospitava nel 1969 la mostra, totalmente diversa da quella veneziana nel 2013: la necessità di definire un trapasso tra lo spazio fisico in cui era immersa nella Kunsthalle e nella Schulwarte a Berna e quello del palazzo settecentesco di Ca’ Corner della Regina a Venezia. Due spazialità diverse che avrebbero dovuto interagire con l’oggetto When Attitudes Become Form. Quale possibile raccordo o disaccordo si deve trovare tra le due temporalità e le due spazialità? Inventarne un terzo che riguarda il godimento attuale dell’intera opera, così che risulti facile da percepire ad un pubblico attuale, oppure lavorare su uno strappo ambientale e temporale? La differenza è sostanziale e riguarda il rapporto con l’osservatore, il pubblico. Siccome qualsiasi architettura ha un valore spaziale diverso, rimuovere quella di Berna per utilizzare quella di Venezia sarebbe stata un’operazione di estrinsecazione diversa dalla formulazione storica. Annullare invece la presenza storico-muraria di Venezia a favore di una sequenza di stanze white cube avrebbe significato immettere l’insieme curato da Szeemann in un limbo, senza ancoraggi o referenze visive ed esperienziali alla situazione presente. Si è optato per una spazialità che non risolvesse il discorso a favore di una o dell’altra architettura, forzando la frattura temporale e spaziale. Il risultato è stato di creare un continuum dove il problema architettonico altera ed è alterato dall’innesto tra Kunsthalle, Schulwarte e Ca’ Corner della Regina. Non si è tentato di realizzare alcun falso criterio di continuità o di integrazione stilistica, ma si è lavorato per contrasto, immettendo in modo eclatante gli spazi moderni di Berna dentro il contenitore storico di Venezia. E, a ben vedere, entrambe le situazioni di fatto fanno parte della trasmissione dell’opera When Attitudes Become Form. Una volta trovata la cornice corretta per evidenziare la complessità di una ricostruzione, s’è passati al recupero e alla ricostruzione, quando necessario, delle figure – cioè le opere – che componevano il ‘racconto’ per immagini di Szeemann. Il lavoro del curatore a Venezia è stato dunque quello di negare la propria soggettività di assemblatore di mostre per ricostruire e restaurare un testo di un altro curatore. Questa spersonalizzazione è un tentativo di far sì che relazione oggettiva e soggettiva con la cosa esposta non siano più considerati antinomici. Il compito finale è stato quello di evocare un sorprendente prodotto d’epoca, d’identificarsi con esso, senza assumerlo come romantica e nostalgica rovina dell’altrui e proprio tempo passato. Una volta ricostruito come significante privilegiato di una serie di significati instabili e aleatori, entrare in rapporto diacronico con esso per suscitare una sensibilità attuale. E siccome questo oggetto del 1969, ricostruito e restaurato, necessitava nel 2013 di un nuovo rapporto con l’attualità, lo si è inserito in una zona di sospensione, un territorio estraneo alla sua storia e alla sua cronologia – Ca’ Corner della Regina – con l’idea di rilanciare la geografia e la storia del suo immaginario. Di fatto, inserirlo come un corpo irritante in un dentro che potesse provocare una secrezione di difesa: la sua nuova perla”. Ora che When Attitudes Become Form si è aperta a Venezia, in Cà Corner della Regina, cosa è cambiato nel suo percorso di storico e di curatore? “Rivisitare dal vero un evento che avevo vissuto in diretta a Berna e ricostruirlo, mi ha confermato la potenza del momento storico sia sul piano del linguaggio artistico che del procedere del curatore. Essendo una rivisitazione condotta in occasione della Biennale di Venezia 2013, quindi da collocarsi in un contesto non neutro, ma definito da altre proposte curatoriali – quella di Massimiliano Gioni, con il suo Palazzo Enciclopedico, e quelle delle decine e decine di curatori che sono intervenuti nelle mostre collaterali – ho capito che il pericolo dell’arte contemporanea e del suo modo di comunicare sta nel ridursi a un’immagine sottile e senza peso, capace di scorrere fluidamente, senza ancoraggio sulla parete bianca, la quale può essere metafora di un museo, di una galleria e di una fiera. Si è perso il contatto e, diciamo, il dialogo con il contesto, e l’arte si è ridotta ad un prodotto senza peso e energia, fondamentalmente un decoro temporaneo di un possibile cubo bianco, simbolico di qualsiasi contesto abitativo ospitante. Sento quindi sempre più l’esigenza di ancorare l’arte a un luogo o un territorio, invitandola a mettere le radici, senza dimenticare la storia. Ad esempio la cancellazione dell’architettura cinquecentesca dell’Arsenale, condotta attraverso la costruzione di percorsi dalle bianche pareti in legno o in cartongesso, è indice di un’astrazione ambientale, legata alla messa in un limbo dell’arte. When Attitudes Become Form era invece un tutto che il mercato ha parimenti spezzato, ma si capisce la sua forza ricomponendolo. I frammenti non formano una statua o un vaso, sono rovine, e qui sta il rischio del presente contemporaneo di trasformarsi in rovina. All’epoca l’istanza di fare arte non era tesa ad una pratica edonistica né didattica né economica, per cui le cose potevano andare distrutte o disperse, essere inutili e non funzionali. A contare era la prova di un’energia mentale e fisica, comportamentale ed emotiva che portava alla costruzione di ‘figure’ immaginarie senza alcun fine se non il piacere di esprimersi. L’aspirazione all’idea e della sua soddisfazione cercava di avere effetto sul reale, non solo in cambio della sopravvivenza, ma dell’azione sul pubblico, che allora si definiva ‘politica’: rifiuto del diletto e del decoro a favore di un produrre energetico che sollecitasse domande”.
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di Germano Celant - [gallery ids="9601,9602,9603,9604,9605,9606,9607,9608"]Qual è stato l’impianto teorico e stiocro che ha sostenuto la rivisitazione e la ricostruzione ,”così com’era”, della mostra curata da Harald Szeemann nel 1969 alla Kunsthalle di Berna? “È sempre la lettura della storia dell’arte a sostenere un progetto. Se si pensa alla logica che ha sostenuto la comunicazione artistica nel corso dei secoli passati si può verificare che – in generale – fino all’Ottocento gli interventi degli artisti erano eseguiti in relazione o in situazione, vale a dire rispondevano a una commissione o a un contesto che veniva loro suggerito od offerto. Quindi le opere erano messe in relazione o erano situate in un territorio ambientale o informativo che era scelto dialetticamente tra committente e artista stesso. Per un lungo periodo l’arte, che non aspira a circolare liberamente come prodotto di scambio e di consumo, si nutre di osmosi con il contesto, dalla caverna al palazzo, dalle pareti al soffitto, e forma un unicum indivisibile. Tale dialogo si spezza quando nell’Ottocento, una volta scomparso il mecenatismo dei nobili, le opere si devono adeguare ad un mercato borghese che si nutre di artefatti disponibili alla circolazione, nel 1863 si creano i Salons. Sono queste le nuove ambientazioni degli artisti ‘non integrati’, vale a dire dei ‘refusés’ e degli ‘indipendenti’ in cui sono raccolti non più integrati, ma appesi ai muri i lavori artistici da mettere in vendita. Tale salto contestuale che sradica l’intervento dall’inserimento murario crea un altro tipo di relazione e di situazione, quella tra le opere stesse e il loro allestimento. È un passaggio che non è mai stato studiato completamente, perché mancano le tracce della logica con cui gli stessi artisti entravano in relazione tra di loro, ponendo i quadri sopra velluti o sculture su piedestalli, e le poche fotografie dell’epoca non permettono una tale ricostruzione. Tuttavia l’input dell’artista sul modo di vedere la sua opera doveva essere importante e controllato, non affidato al caso o ad altri, come mercanti. E se lo era, anche questo elemento può essere soggetto di studio. Tuttavia a partire dal Novecento, le esposizioni sono sempre più controllate dagli artisti stessi, che le adottano per lanciare i loro movimenti linguistici, da Der Blaue Reiter a Monaco nel 1911 a Les Peintres Futuristes Italiens a Parigi nel 1912. Sono momenti di installazione a cui gli artisti partecipano arrivando a creare insiemi dirompenti e sorprendenti, come The First International Dada Fair, a Berlino nel 1920 e Esposition Internationale du Surréalisme a Parigi nel 1938. Si potrebbe affermare che tali insieme diventano un dispositivo dove l’apparente confusione diventa una fusione visuale che argomenta la poetica del gruppo. Il fatto di organizzare le cose o gli oggetti, le fotografie o i materiali secondo un accadere, che sembra fuori di ogni aspettativa, suscita interrogativi e domande. È la stessa cosa successa con When Attitudes Become Form, dove le opere si devono considerare in funzione dell’insieme. Qui ogni entità singola sembra scomparire a favore di un intreccio tra le parti, qualcosa che lo spettatore deve sbrogliare da sé. La concettualità nasce prima delle opere, perché il discorso deriva dal dispositivo curatoriale. Qui sta l’importanza di Szeemann che abbandona la mostra a ‘composizioni’ curiose e caotiche, dense e aperte. Se si assume la mostra come un tutto, in maniera barocca, si capisce come la mostra sia riuscita nel 1969 ad allontanarsi dal display classico e museale, vigente allora nel mondo dell’arte moderna e contemporanea. Lavorando sulle attitudini e sui loro risultati improvvisati ed effimeri, ottiene infatti effetti poetici, inventati e scoperti in situ. In tal modo il piacere del concetto si traduce in conoscenza del piacere. Non si pone alcun criterio di convenienza solo di legame, che deriva da una reciproca familiarità tra gli artisti e il loro fare. Ricostruire questo campo di energia, con le sue varietà espressive, ha significato rivisitare un dispositivo che se anticamente era architettonico, come una cappella o una chiesa, qui era basato sulla varietà e sulla variabilità di una sintonia che non era concreta e muraria, ma basata su un’integrità esperienziale condivisa. Un intreccio di momenti lirici e drammatici che hanno prodotto un tutto dall’acutezza mirabile che commuove ancora oggi. E su tale ipotesi di insieme meravigliante che si è costruito il progetto, facendolo coincidere con un’assolutezza scientifica, capace di ricreare questo tempio effimero del fare arte nel 1969. Di fatto si è cercato di continuare lo studio degli ‘interventi’ globali degli artisti in un contesto che non è più la chiesa o il palazzo, ma la mostra che è diventata il luogo del nuovo splendore contemporaneo”. Si può dire che When Attitudes Become Form rappresenti l’ultimo anelito dello sconvolgimento e della trasgressione modernista, per cui cristallizzarlo in una situazione fuori del suo contesto storico, politico e culturale non rischia di dissolvere la radicalità dell’originale? Se al tempo le immagini di tale operazione hanno avuto un effetto sulla realtà e sull’articolarsi del linguaggio dell’arte, oggi non rischiano di trasformarsi in feticizzazione nostalgica di un’illusione, quindi di una debolezza? “È evidente che la mostra organizzata da Szeemann nel 1969 è stata un’apertura verso un’immaginazione libera quanto politicamente inutile: un buon proposito di un fare rappresentativo che si connetteva alle avanguardie del modernismo. Si può assumere quale gesto morale e critico verso le proposte tradizionali del fare arte, che respingeva la realtà solo per rappresentarla e sottoporla ad un processo mimetico. Le ricerche mostrate a Berna, come in Op Losse Schroeven, realizzata in contemporanea allo Stedelijk Museum di Amsterdam, che presero il nome di Land art, Process art, Arte povera, Conceptual art, erano un ulteriore tentativo di rivalutare la dimensione pragmatica del vedere e del sentire. Vale a dire un cambio di segno espresso nell’attenzione alle tecniche e ai materiali, per esaltare una concezione poetica rispetto a una contemplativa, in cui l’essere umano è spinto a immergersi e non semplicemente guardare. Basta osservare la documentazione che riguarda l’arrivo in scena del pubblico, per capire come tale arte tendesse a un coinvolgimento fisico e corporale. Naturalmente, tale porsi è stato visto, allora, come un eccesso di negatività e di trasgressione rispetto all’istituzione. Qualcosa di ingovernabile e senza regole, che spingeva verso una demitizzazione della sacralità della pittura e della scultura: un rifiuto delle forme classiche per un’esaltazione della dimensione informe – all’epoca definita anche anti-form – della marginalità artistica. Con il suo interesse per il carattere insignificante e concreto delle materie e delle cose l’esposizione del 1969 solennizzò il carattere fortuito e caotico dell’arte, la sua permeabilità a tutti i possibili linguaggi e a tutte le possibili materie, dal piombo all’acqua, dal fuoco alla cera, dalla margarina al tubo fluorescente, dal cuoio al feltro, dai vetri rotti al ghiaccio, dalla cenere al cotone, così come a tutti gli strumenti utili, non privilegiati, dalla pala al caterpillar, dal giornale al cartellone, dalla lettura al camminare… Da cui la de-sacralizzazione di una cultura visiva che si era identificata solo con il dipingere e lo scolpire come con la dislocazione o lo spiazzamento linguistici dell’oggetto trovato. È una celebrazione del significato dell’insignificante, della realtà che si pone in sintonia proprio con il carattere effimero e temporaneo di un esistere sociale e culturale: un doppio senza valore da contrapporre a una catastrofe dei valori passati. E la sanzione prima della presenza di fare rovinoso e frammentario, dissolto e fluido, contrario ad ogni uni-dimensionalità dell’arte”. Di fatto, il reenacting di WABF rischia di tramutare l’effetto di trasgressione in una proposta rassicurante. All’epoca, l’esibizione di scarti industriali e di materie performative e mutanti che bruciavano o si scioglievano per dare corpo ad altre entità tendevano a mettere in discussione la staticità quanto la sacralità dell’artefatto, quanto del luogo espositivo, la Kunsthalle Bern, tanto da sollevare le reazioni dei conservatori che costrinsero Szeemann a dimettersi. Oggi questo non può succedere, anzi questo strappo curatoriale ed artistico viene sacralizzato. Quello che era stato proposto come elusione della fissità e delle regolarità classica ora viene fissato e dissolto in un’accettazione senza riserve: un simulacro privo di effetti. Si può affermare che oggi la radicalità e la trasgressione legate al percorso del modernismo hanno trovato un luogo ed un posto, compresa il display catastrofico e caotico della mostra di Szeemann? Il remake veneziano è l’ultimo atto sublimante di una radicalità che è ormai obsoleta? “La messa in discussione, e la conseguente azione trasgressiva, esistono perché si pone un punto di partenza e di possibile alternativa rispetto ad una condizione preesistente. L’aspetto utopico di tale fare, che implicava un mondo linguistico altro, opposto o quanto meno diverso dal precedente, va ancorato alla situazione storica del momento, il biennio 1968-1969, quando ci si accorge che l’arte si è tramutata in una atto puramente decorativo. Seppure le ricerche sviluppatesi dal 1945 al 1964, dall Espressionismo astratto alla Pop art, avessero tentato di prendere in considerazione la dimensione solitaria e disperata dell’artista, la sua angoscia esistenziale e l’esperienza drammatica del vivere, travolto dalla tragedia della seconda guerra mondiale, come il dissolvimento del valore morale e rappresentativo dell’arte ormai scalzata e fagocitata dall’immaginario mediatico, dalla pubblicità al cartoons, tali proposizioni non erano riuscite a scalzare il valore decorativo dell’artefatto. Si ponevano come duplicati di un immaginario individuale e industriale, senza indebolire e screditare minimamente la pratica del fare, del mostrare, del comunicare e del consumare l’arte. Le attitudini prodotte e mostrate a Berna sottintendevano una scena espositiva che, occupando non solo i musei, ma le strade e gli spazi pubblici, riflettesse un’azione politica in cui tutti fossero coinvolti, artisti e spettatori, e di cui tutti dovevano prendere consapevolezza. È stata questa la vera illusione che rivela ancora il desiderio di una rivoluzione illuminista intrecciata al sogno di proseguire il discorso radicale delle avanguardie del modernismo. Certamente il remake di tale evento rischia, nella sua ripetizione, di esaltare un momento ideale ma al tempo stesso serve a far percepire, mediante l’avvicinamento al suo stato ‘originale’, la realtà di un mito che non è affidabile solo alla documentazione fotografica, ma all’esperienza di un entusiasmo e di un fervore artistico che chiedeva coinvolgimento. La resurrezione di When Attitudes Become Form mette in circolazione lo spettro di una radicalità che oggi non ha più effetto, perché l’arte non è più un’arma politica rispetto alle lotte reali. Affidandosi allo sguardo dell’oggi, tali proposte appaiono forse facili e irreali ma bisogna sottolineare che questa ipotetica sconfitta ha portato ad una nuova dimensione dell’immaginario artistico. Ad un’analisi retrospettiva, si può dire che la sua effettualità sul mondo sia stata infinitesimale, ma rimane in ogni caso un’influenza sul dissolvimento delle strutture tradizionali del sistema dell’arte. Se tutto questo oggi si è trasformato in business, per cui l’arte ha perso qualsiasi identità sociale per diventare merce simbolica ed economica, significa che il tentativo di scollamento dal compromesso consumistico è fallito. L’arte si è posta a rimorchio del mercato ed è arrivata al punto estremo di inefficacia nel suo rapporto critico e poetico con la società e la cultura. Di fatto, a contare nella costruzione di When Attitudes Become Form sono stati anche gli aggiustamenti spaziali che ogni artista ha attuato per convivere con gli altri. È un muoversi interattivo, piuttosto che la creazione di uno spazio privato ed indipendente. Non si poneva infatti alcuna ‘proprietà’ ambientale, ma la semplice territorialità dell’opera stessa. Era il lavoro a cercarsi linkage con gli altri, così da stabilire un rapporto empatico e condiviso. Simile legame ha un carattere comunitario, ampiamente documentato dalle fotografie in cui diversi artisti lavorano in contemporanea, nella stessa stanza, quasi fossero una ‘comune’, ed è tipico del momento storico, basato su una pratica di socialità che è politica quanto creativa. È qualcosa di simile ad un incontro casuale che produce al tempo stesso una confusione e una fusione. La mostra di Berna è stata quasi una formazione di proposizioni che, come in un incavo terrestre, hanno trovato il loro sviluppo scendendo dai soffitti o arrampicandosi alle pareti o trovando una dimensione gravitazionale a pavimento. Il senso vero della mostra di Szeemann è stato quello di mettere insieme un divenire indeterminato dell’arte così che si percepisse un continuo transito tra le opere, in modo che non fosse possibile isolare le caratteristiche individuali, ma l’energia d’insieme. È un momento interattivo e un mettersi ‘in rete’ che evidenzia il passaggio da uno all’altro, in piena attualità: la simultaneità e la coesistenza del presente artistico, che è anche sottolineata dal messa in mostra di gesti e di azioni corporali, dalla stesura di margarina di Joseph Beuys alla distesa di piombo fuso di Richard Serra all’accensione dei giunchi di Gilberto Zorio e alla rimozione fotografica di Ger van Elk. Per non parlare dell’arte come processo ed operazione in situ che cerca di superare il senso del prodotto confezionato e fabbricato a favore dell’operazione linguistica relativa ad una specifica collocazione e situazione, che non è all’interno dell’istituzione ma si immerge nel contrasto urbano, da Michael Heizer a Daniel Buren. Nasce una mostra che funziona come un vortice capace di travolgere lo spettatore, per metterlo in relazione diretta con il processo creativo. È un modo di sottoporre il pubblico a una forza vertiginosa che ne alteri la visione, così da perdersi in essa”. Prima di arrivare ad una soluzione che integrasse la ricostruzione di una vicenda radicale in un contesto attuale, completamente dominato da altri valori non solo linguistici, ma economici come si è proceduto per acquisire tutti i dati scientifici su cui lavorare ad una mappatura completa e precisa di quanto era avvenuto a Berna? “La ricerca si è sviluppata su diversi livelli, che includevano le fonti primarie dall’archivio di Szeemann, ora presso il Getty Institute di Los Angeles, e le testimonianze dirette degli artisti o i documenti reperibili nelle loro fondazioni, quanto le tracce fotografiche e scritte nella biblioteca della Kusthalle di Berna. Attraverso la raccolta dei diversi dati, che spesso hanno portato a conferme, quanto a sorprese, è iniziata la possibile mappatura delle opere in ogni singola stanza. A questo risultato ha contribuito enormemente la collaborazione con il Getty Institute, diretto da Thomas Gaehtgens, che attraverso l’attento studio condotto da Glenn Philips con il suo team su documenti, lettere e fotografie relative a Sezeemann e a When Attitudes Become Form ha permesso l’identificazione delle opere sia in mostra che non. Accanto a questa preziosa indagine sulle fonti curatoriali si è affiancata la ricerca nell’archivio della Kunsthalle, dove si sono trovati riscontri ed informazioni utili per ampliare la visione totale dell’evento, incluse le recensioni e le polemiche sollevate. Infine un ultimo arricchimento è venuto dagli artisti e dalle loro fondazioni che hanno fornito precisazioni sulle opere esposte e non. In generale la ricostruzione ha potuto contare su oltre un migliaio di fotografie, provenienti dagli archivi di Claudio Abate, Leonardo Bezzola, Balthasar Burkhard, Siegfried Kühn, Dölf Preisig, Harry Shunk e Albert Winkler, una raccolta quasi completa, e per la maggior parte inedita, di tutto quanto è stato registrato attraverso le immagini fotografiche. Queste sono state sottoposte ad un’accorta analisi e sono diventate fonti di scoperte e di novità, che hanno spesso arricchito la conoscenza anche degli stessi protagonisti, ampliandone i ricordi e le visioni. Sono venute alla luce opere e installazioni, mai menzionate né registrate sia nel catalogo di Berna sia nelle successive ricerche fatte da studiosi internazionali”. Una volta tracciata la mappa di tutte le opere in mostra e non, come si è proceduto per averle? Quali problemi hanno comportato i prestiti, una volta scoperto che l’opera è andata distrutta o dispersa ? Quale metodo espositivo è stato adottato per evidenziare le assenze? “Essendo una mostra che ha rappresentato un momento di rottura rispetto alla staticità e alla fissità del lavoro d’arte, immettendo un fattore performativo, per cui a volte l’opera mutava nel corso del tempo arrivando a distruggersi, è apparso immediatamente chiaro che a Venezia la possibilità di una ricostruzione totale e originale sarebbe stata impossibile. Tuttavia si è proceduto cercando di avvicinarci al massimo risultato con la consapevolezza che il revisiting avrebbe dovuto basarsi su due realtà: la prima consistente nel reperimento delle opere originali già acquisite da raccolte private e pubbliche, ad esempio i rintracciabili lavori di Carl Andre, Claes Oldenburg, Bruce Nauman, Eva Hesse, Giovanni Anselmo, Hanne Darboven, Reiner Ruthenbeck, Marinus Boezem e Richard Tuttle, che insieme ai rifacimenti – la seconda realtà – da attuarsi invece con la collaborazione degli artisti o delle loro fondazioni che nel loro insieme avrebbero permesso la ricostruzione dell’impatto visivo nelle singole stanze, con la relazione tra volumi e materie. Il primo compito è stato assolto nella maniera tradizionale con richieste a musei e collezionisti, mentre la seconda ha richiesto un ritorno alla fonte, in questo caso l’autore stesso o il suo archivio per chiedere se era possibile una riproposta, sorta di copia espositiva o replica del lavoro: quest’ultimo caso ha sollevato diverse problematiche che hanno coinvolto gli artisti quanto i musei e i collezionisti. Tuttavia alcuni artisti non riconoscono oggi il valore di certi lavori del 1969 o li ritengono ancorati nel loro passato e non più esponibili. Se addirittura non li rinnegano come errori di gioventù o idee che non condividono più. È cambiata così tanto l’arte dal 1969? E quale approccio ha seguito in questi casi ? Nel ricostruire questa mostra ha più peso il documento storico o il rispetto del volere soggettivo dell’artista oggi a quaranta anni di distanza? “La traslazione da un momento all’altro significa un trasporto nel tempo, è una resurrezione di cariche espressive ed emotive che sono passate. Siccome non avvengono attraverso la memoria ma mediante il remake si riproducono concretamente e diventano azioni presenti, quindi una carica che era trascorsa viene riproposta come attuale. Per alcuni è difficile riproporre impulsi e motivazioni già provate, per altri non c’è alcunché di nuovo né di differente, perché il fattore attivo dell’opera è tuttora in corso ed è ancora effettiva. In un caso la rievocazione riflette acquisizioni già elaborate, ma troppo sperimentali o giovanili, per altri è già una definizione di un percorso che è testimonianza di una dichiarazione linguistica anticipatrice ma già matura. Certamente la rielaborazione odierna non corrisponde più ad un’attitudine che tendeva ad oltrepassare il linguaggio tradizionale, ma rischia di essere un ritorno al passato. Tuttavia per capire il presente bisogna far riferimento alle trasformazioni già attuate, anche se appaiono o sono errori. Dopo il 1969 l’arte si è lentamente adeguata alla società dei consumi e dell’informazione di massa, per cui la primarietà delle materie e dei gesti ha lasciato campo alla processualità industriale e mercantile. Lentamente l’operazione artistica si è tramutata in un prodotto prefabbricato ed apparente: una costruzione speculare e narrativa del reale. Si è attuata una moltiplicazione dell’esistente che ha appiattito le forme e il discorso visivi radicali e trasgressivi. Si è creato uno spettacolo dell’arte per riproporne una dimensione decorativa ed esibizionista, mentre l’arte scaturita dal 1968 aspirava ad essere de-realizzante ed iconoclasta. Di fatto l’aspirazione di When Attitudes Become Form è stata quella di abolire il rituale tradizionale del mostrare un’opera a favore di un’esperienza del suo processo di costruzione e di transito dinnanzi allo sguardo dell’osservatore. Qual è il ruolo del curatore in una ripetizione, quasi identica come ambienti e opere, di una mostra in origine curata da un altro? Esiste una sorta di ‘copyright’ nel concepire la curatela di una mostra ? Se sì quanto la mostra intesa come progetto autoriale s’avvicina ad un’opera d’arte? Nel rifare la mostra come WABF è necessario assumere lo stesso ruolo del curatore, che incontrò artisti e protagonisti oppure la rivisitazione si può fare in modo automatico, puramente tecnico, ripetendo azioni e decisioni? “Se si assume When Attitudes Become Form come un oggetto d’uso storico e linguistico, confezionato nel 1969, innalzando l’insieme a unità compatta e definita, la prima operazione curatoriale è quella di restaurarne la totalità, mettendo insieme i frammenti (i singoli lavori d’arte) dislocati e dispersi. È un processo che inizialmente è indifferente alle parti che compongono il tutto. L’intento non è suscitare nuove associazioni o assegnare nuove collocazioni, ma praticare una ricostruzione senza ridisegnarla né modificarla, usando solo gli smembramenti. È un fissarsi su una struttura rigida, ordinata e armonica in cui le relazioni tra le componenti formava un sistema chiuso. Pertanto, il ritrovamento dei residui ha quale fine di ricomporre e mettere insieme il ‘testo’ narrativo steso da Szeemann in collaborazione con gli artisti stessi, immesso tra le ‘pagine’ architettoniche, bianche, della Kunsthalle di Berna. La raccolta di queste parti, spesso effimere e disperse, insieme ai residui che sono entrati nei musei e nelle collezioni, è tesa a ricreare un puzzle o una costellazione identificabile come una totalità, all’epoca pensata quale un nuovo sistema di fare, di mostrare e di pensare l’arte. Tale processo è coinciso, quindi, con un vero e proprio restauro di un prodotto dell’attività creativa. Innanzitutto si è dovuto riconoscere il valore dell’intera operazione, come è stato ammesso da tutti gli studiosi d’arte contemporanea, poi si è identificata la sua materia cioè la sua consistenza fisica, seguita dal riconoscimento estetico e storico che ha contribuito alla necessità di trasmetterla nel futuro, quale fatto fondante di una vicenda primaria. Tale molteplice consistenza è data dall’intreccio tra architettura, opere, relazioni e tutte queste componenti sono state studiate attraverso un metodo scientifico, prima in relazione al tempo ed al luogo in cui è stata realizzata, a Berna, e poi in rapporto al presente storico e alla sua nuova collocazione a Venezia. È fondamentale indagare l’unità dell’esposizione, sia da un punto di vista qualitativo che quantitativo cercando di avvicinarci al suo intero. Il passaggio successivo è stato di verificare fino a che punto fosse possibile la ricostruzione di tale unità. Ciò è avvenuto mettendo insieme tutte le informazioni possibili sui singoli tasselli del mosaico espositivo, capendo anche dove ci sarebbero le lacune e i vuoti che potevano riguardare il materiale che componeva la mostra. Che tipo di intervento sarebbe stato necessario per colmarle? Si sarebbero ripristinate con un inserimento di simulazioni contemporanee, oppure si sarebbe lasciato un vuoto, cercando di segnalare un’assenza? O ancora in maniera più radicale sarebbe stato necessario costruire immagini in vitro, molto vicine ad un ‘falso’, quasi sempre fallimentare? Quale sarebbe stata la legittimità di un tale intervento sostitutivo o informativo? Si sarebbe lavorato caso per caso o sulle singole accumulazioni, stanza per stanza? Come risolvere tutte queste problematiche che avrebbero riguardato la visione del curatore, passata e presente, con la consapevolezza che il ruolo del curatore che non è solo quello di assemblatore di nuovi insiemi, ma anche di un ricostruttore di contesti, ambientali e culturali, dove ricostruire da buon conservatore della storia le tracce passate? A tali problematiche sollevate dal remake o dal revisiting di When Attitudes Become Form si è tentato di rispondere creando a Venezia un dialogo tra il curatore-restauratorericostruttore delle cose d’arte e l’architetto Rem Koolhaas e l’artista Thomas Demand, al fine di creare una prospettiva multipla e plurilinguistica capace di affrontare le diverse risposte architettoniche e visuali. Insieme si sono cercate e trovate soluzioni sul raccordo temporale e spaziale tra l’evento del 1969 e la decisione di un suo remake e di un suo reenacting. È sorto qui il problema della cornice che ospitava nel 1969 la mostra, totalmente diversa da quella veneziana nel 2013: la necessità di definire un trapasso tra lo spazio fisico in cui era immersa nella Kunsthalle e nella Schulwarte a Berna e quello del palazzo settecentesco di Ca’ Corner della Regina a Venezia. Due spazialità diverse che avrebbero dovuto interagire con l’oggetto When Attitudes Become Form. Quale possibile raccordo o disaccordo si deve trovare tra le due temporalità e le due spazialità? Inventarne un terzo che riguarda il godimento attuale dell’intera opera, così che risulti facile da percepire ad un pubblico attuale, oppure lavorare su uno strappo ambientale e temporale? La differenza è sostanziale e riguarda il rapporto con l’osservatore, il pubblico. Siccome qualsiasi architettura ha un valore spaziale diverso, rimuovere quella di Berna per utilizzare quella di Venezia sarebbe stata un’operazione di estrinsecazione diversa dalla formulazione storica. Annullare invece la presenza storico-muraria di Venezia a favore di una sequenza di stanze white cube avrebbe significato immettere l’insieme curato da Szeemann in un limbo, senza ancoraggi o referenze visive ed esperienziali alla situazione presente. Si è optato per una spazialità che non risolvesse il discorso a favore di una o dell’altra architettura, forzando la frattura temporale e spaziale. Il risultato è stato di creare un continuum dove il problema architettonico altera ed è alterato dall’innesto tra Kunsthalle, Schulwarte e Ca’ Corner della Regina. Non si è tentato di realizzare alcun falso criterio di continuità o di integrazione stilistica, ma si è lavorato per contrasto, immettendo in modo eclatante gli spazi moderni di Berna dentro il contenitore storico di Venezia. E, a ben vedere, entrambe le situazioni di fatto fanno parte della trasmissione dell’opera When Attitudes Become Form. Una volta trovata la cornice corretta per evidenziare la complessità di una ricostruzione, s’è passati al recupero e alla ricostruzione, quando necessario, delle figure – cioè le opere – che componevano il ‘racconto’ per immagini di Szeemann. Il lavoro del curatore a Venezia è stato dunque quello di negare la propria soggettività di assemblatore di mostre per ricostruire e restaurare un testo di un altro curatore. Questa spersonalizzazione è un tentativo di far sì che relazione oggettiva e soggettiva con la cosa esposta non siano più considerati antinomici. Il compito finale è stato quello di evocare un sorprendente prodotto d’epoca, d’identificarsi con esso, senza assumerlo come romantica e nostalgica rovina dell’altrui e proprio tempo passato. Una volta ricostruito come significante privilegiato di una serie di significati instabili e aleatori, entrare in rapporto diacronico con esso per suscitare una sensibilità attuale. E siccome questo oggetto del 1969, ricostruito e restaurato, necessitava nel 2013 di un nuovo rapporto con l’attualità, lo si è inserito in una zona di sospensione, un territorio estraneo alla sua storia e alla sua cronologia – Ca’ Corner della Regina – con l’idea di rilanciare la geografia e la storia del suo immaginario. Di fatto, inserirlo come un corpo irritante in un dentro che potesse provocare una secrezione di difesa: la sua nuova perla”. Ora che When Attitudes Become Form si è aperta a Venezia, in Cà Corner della Regina, cosa è cambiato nel suo percorso di storico e di curatore? “Rivisitare dal vero un evento che avevo vissuto in diretta a Berna e ricostruirlo, mi ha confermato la potenza del momento storico sia sul piano del linguaggio artistico che del procedere del curatore. Essendo una rivisitazione condotta in occasione della Biennale di Venezia 2013, quindi da collocarsi in un contesto non neutro, ma definito da altre proposte curatoriali – quella di Massimiliano Gioni, con il suo Palazzo Enciclopedico, e quelle delle decine e decine di curatori che sono intervenuti nelle mostre collaterali – ho capito che il pericolo dell’arte contemporanea e del suo modo di comunicare sta nel ridursi a un’immagine sottile e senza peso, capace di scorrere fluidamente, senza ancoraggio sulla parete bianca, la quale può essere metafora di un museo, di una galleria e di una fiera. Si è perso il contatto e, diciamo, il dialogo con il contesto, e l’arte si è ridotta ad un prodotto senza peso e energia, fondamentalmente un decoro temporaneo di un possibile cubo bianco, simbolico di qualsiasi contesto abitativo ospitante. Sento quindi sempre più l’esigenza di ancorare l’arte a un luogo o un territorio, invitandola a mettere le radici, senza dimenticare la storia. Ad esempio la cancellazione dell’architettura cinquecentesca dell’Arsenale, condotta attraverso la costruzione di percorsi dalle bianche pareti in legno o in cartongesso, è indice di un’astrazione ambientale, legata alla messa in un limbo dell’arte. When Attitudes Become Form era invece un tutto che il mercato ha parimenti spezzato, ma si capisce la sua forza ricomponendolo. I frammenti non formano una statua o un vaso, sono rovine, e qui sta il rischio del presente contemporaneo di trasformarsi in rovina. All’epoca l’istanza di fare arte non era tesa ad una pratica edonistica né didattica né economica, per cui le cose potevano andare distrutte o disperse, essere inutili e non funzionali. A contare era la prova di un’energia mentale e fisica, comportamentale ed emotiva che portava alla costruzione di ‘figure’ immaginarie senza alcun fine se non il piacere di esprimersi. L’aspirazione all’idea e della sua soddisfazione cercava di avere effetto sul reale, non solo in cambio della sopravvivenza, ma dell’azione sul pubblico, che allora si definiva ‘politica’: rifiuto del diletto e del decoro a favore di un produrre energetico che sollecitasse domande”.
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di Germano Celant - [gallery ids="9601,9602,9603,9604,9605,9606,9607,9608"]Qual è stato l’impianto teorico e stiocro che ha sostenuto la rivisitazione e la ricostruzione ,”così com’era”, della mostra curata da Harald Szeemann nel 1969 alla Kunsthalle di Berna? “È sempre la lettura della storia dell’arte a sostenere un progetto. Se si pensa alla logica che ha sostenuto la comunicazione artistica nel corso dei secoli passati si può verificare che – in generale – fino all’Ottocento gli interventi degli artisti erano eseguiti in relazione o in situazione, vale a dire rispondevano a una commissione o a un contesto che veniva loro suggerito od offerto. Quindi le opere erano messe in relazione o erano situate in un territorio ambientale o informativo che era scelto dialetticamente tra committente e artista stesso. Per un lungo periodo l’arte, che non aspira a circolare liberamente come prodotto di scambio e di consumo, si nutre di osmosi con il contesto, dalla caverna al palazzo, dalle pareti al soffitto, e forma un unicum indivisibile. Tale dialogo si spezza quando nell’Ottocento, una volta scomparso il mecenatismo dei nobili, le opere si devono adeguare ad un mercato borghese che si nutre di artefatti disponibili alla circolazione, nel 1863 si creano i Salons. Sono queste le nuove ambientazioni degli artisti ‘non integrati’, vale a dire dei ‘refusés’ e degli ‘indipendenti’ in cui sono raccolti non più integrati, ma appesi ai muri i lavori artistici da mettere in vendita. Tale salto contestuale che sradica l’intervento dall’inserimento murario crea un altro tipo di relazione e di situazione, quella tra le opere stesse e il loro allestimento. È un passaggio che non è mai stato studiato completamente, perché mancano le tracce della logica con cui gli stessi artisti entravano in relazione tra di loro, ponendo i quadri sopra velluti o sculture su piedestalli, e le poche fotografie dell’epoca non permettono una tale ricostruzione. Tuttavia l’input dell’artista sul modo di vedere la sua opera doveva essere importante e controllato, non affidato al caso o ad altri, come mercanti. E se lo era, anche questo elemento può essere soggetto di studio. Tuttavia a partire dal Novecento, le esposizioni sono sempre più controllate dagli artisti stessi, che le adottano per lanciare i loro movimenti linguistici, da Der Blaue Reiter a Monaco nel 1911 a Les Peintres Futuristes Italiens a Parigi nel 1912. Sono momenti di installazione a cui gli artisti partecipano arrivando a creare insiemi dirompenti e sorprendenti, come The First International Dada Fair, a Berlino nel 1920 e Esposition Internationale du Surréalisme a Parigi nel 1938. Si potrebbe affermare che tali insieme diventano un dispositivo dove l’apparente confusione diventa una fusione visuale che argomenta la poetica del gruppo. Il fatto di organizzare le cose o gli oggetti, le fotografie o i materiali secondo un accadere, che sembra fuori di ogni aspettativa, suscita interrogativi e domande. È la stessa cosa successa con When Attitudes Become Form, dove le opere si devono considerare in funzione dell’insieme. Qui ogni entità singola sembra scomparire a favore di un intreccio tra le parti, qualcosa che lo spettatore deve sbrogliare da sé. La concettualità nasce prima delle opere, perché il discorso deriva dal dispositivo curatoriale. Qui sta l’importanza di Szeemann che abbandona la mostra a ‘composizioni’ curiose e caotiche, dense e aperte. Se si assume la mostra come un tutto, in maniera barocca, si capisce come la mostra sia riuscita nel 1969 ad allontanarsi dal display classico e museale, vigente allora nel mondo dell’arte moderna e contemporanea. Lavorando sulle attitudini e sui loro risultati improvvisati ed effimeri, ottiene infatti effetti poetici, inventati e scoperti in situ. In tal modo il piacere del concetto si traduce in conoscenza del piacere. Non si pone alcun criterio di convenienza solo di legame, che deriva da una reciproca familiarità tra gli artisti e il loro fare. Ricostruire questo campo di energia, con le sue varietà espressive, ha significato rivisitare un dispositivo che se anticamente era architettonico, come una cappella o una chiesa, qui era basato sulla varietà e sulla variabilità di una sintonia che non era concreta e muraria, ma basata su un’integrità esperienziale condivisa. Un intreccio di momenti lirici e drammatici che hanno prodotto un tutto dall’acutezza mirabile che commuove ancora oggi. E su tale ipotesi di insieme meravigliante che si è costruito il progetto, facendolo coincidere con un’assolutezza scientifica, capace di ricreare questo tempio effimero del fare arte nel 1969. Di fatto si è cercato di continuare lo studio degli ‘interventi’ globali degli artisti in un contesto che non è più la chiesa o il palazzo, ma la mostra che è diventata il luogo del nuovo splendore contemporaneo”. Si può dire che When Attitudes Become Form rappresenti l’ultimo anelito dello sconvolgimento e della trasgressione modernista, per cui cristallizzarlo in una situazione fuori del suo contesto storico, politico e culturale non rischia di dissolvere la radicalità dell’originale? Se al tempo le immagini di tale operazione hanno avuto un effetto sulla realtà e sull’articolarsi del linguaggio dell’arte, oggi non rischiano di trasformarsi in feticizzazione nostalgica di un’illusione, quindi di una debolezza? “È evidente che la mostra organizzata da Szeemann nel 1969 è stata un’apertura verso un’immaginazione libera quanto politicamente inutile: un buon proposito di un fare rappresentativo che si connetteva alle avanguardie del modernismo. Si può assumere quale gesto morale e critico verso le proposte tradizionali del fare arte, che respingeva la realtà solo per rappresentarla e sottoporla ad un processo mimetico. Le ricerche mostrate a Berna, come in Op Losse Schroeven, realizzata in contemporanea allo Stedelijk Museum di Amsterdam, che presero il nome di Land art, Process art, Arte povera, Conceptual art, erano un ulteriore tentativo di rivalutare la dimensione pragmatica del vedere e del sentire. Vale a dire un cambio di segno espresso nell’attenzione alle tecniche e ai materiali, per esaltare una concezione poetica rispetto a una contemplativa, in cui l’essere umano è spinto a immergersi e non semplicemente guardare. Basta osservare la documentazione che riguarda l’arrivo in scena del pubblico, per capire come tale arte tendesse a un coinvolgimento fisico e corporale. Naturalmente, tale porsi è stato visto, allora, come un eccesso di negatività e di trasgressione rispetto all’istituzione. Qualcosa di ingovernabile e senza regole, che spingeva verso una demitizzazione della sacralità della pittura e della scultura: un rifiuto delle forme classiche per un’esaltazione della dimensione informe – all’epoca definita anche anti-form – della marginalità artistica. Con il suo interesse per il carattere insignificante e concreto delle materie e delle cose l’esposizione del 1969 solennizzò il carattere fortuito e caotico dell’arte, la sua permeabilità a tutti i possibili linguaggi e a tutte le possibili materie, dal piombo all’acqua, dal fuoco alla cera, dalla margarina al tubo fluorescente, dal cuoio al feltro, dai vetri rotti al ghiaccio, dalla cenere al cotone, così come a tutti gli strumenti utili, non privilegiati, dalla pala al caterpillar, dal giornale al cartellone, dalla lettura al camminare… Da cui la de-sacralizzazione di una cultura visiva che si era identificata solo con il dipingere e lo scolpire come con la dislocazione o lo spiazzamento linguistici dell’oggetto trovato. È una celebrazione del significato dell’insignificante, della realtà che si pone in sintonia proprio con il carattere effimero e temporaneo di un esistere sociale e culturale: un doppio senza valore da contrapporre a una catastrofe dei valori passati. E la sanzione prima della presenza di fare rovinoso e frammentario, dissolto e fluido, contrario ad ogni uni-dimensionalità dell’arte”. Di fatto, il reenacting di WABF rischia di tramutare l’effetto di trasgressione in una proposta rassicurante. All’epoca, l’esibizione di scarti industriali e di materie performative e mutanti che bruciavano o si scioglievano per dare corpo ad altre entità tendevano a mettere in discussione la staticità quanto la sacralità dell’artefatto, quanto del luogo espositivo, la Kunsthalle Bern, tanto da sollevare le reazioni dei conservatori che costrinsero Szeemann a dimettersi. Oggi questo non può succedere, anzi questo strappo curatoriale ed artistico viene sacralizzato. Quello che era stato proposto come elusione della fissità e delle regolarità classica ora viene fissato e dissolto in un’accettazione senza riserve: un simulacro privo di effetti. Si può affermare che oggi la radicalità e la trasgressione legate al percorso del modernismo hanno trovato un luogo ed un posto, compresa il display catastrofico e caotico della mostra di Szeemann? Il remake veneziano è l’ultimo atto sublimante di una radicalità che è ormai obsoleta? “La messa in discussione, e la conseguente azione trasgressiva, esistono perché si pone un punto di partenza e di possibile alternativa rispetto ad una condizione preesistente. L’aspetto utopico di tale fare, che implicava un mondo linguistico altro, opposto o quanto meno diverso dal precedente, va ancorato alla situazione storica del momento, il biennio 1968-1969, quando ci si accorge che l’arte si è tramutata in una atto puramente decorativo. Seppure le ricerche sviluppatesi dal 1945 al 1964, dall Espressionismo astratto alla Pop art, avessero tentato di prendere in considerazione la dimensione solitaria e disperata dell’artista, la sua angoscia esistenziale e l’esperienza drammatica del vivere, travolto dalla tragedia della seconda guerra mondiale, come il dissolvimento del valore morale e rappresentativo dell’arte ormai scalzata e fagocitata dall’immaginario mediatico, dalla pubblicità al cartoons, tali proposizioni non erano riuscite a scalzare il valore decorativo dell’artefatto. Si ponevano come duplicati di un immaginario individuale e industriale, senza indebolire e screditare minimamente la pratica del fare, del mostrare, del comunicare e del consumare l’arte. Le attitudini prodotte e mostrate a Berna sottintendevano una scena espositiva che, occupando non solo i musei, ma le strade e gli spazi pubblici, riflettesse un’azione politica in cui tutti fossero coinvolti, artisti e spettatori, e di cui tutti dovevano prendere consapevolezza. È stata questa la vera illusione che rivela ancora il desiderio di una rivoluzione illuminista intrecciata al sogno di proseguire il discorso radicale delle avanguardie del modernismo. Certamente il remake di tale evento rischia, nella sua ripetizione, di esaltare un momento ideale ma al tempo stesso serve a far percepire, mediante l’avvicinamento al suo stato ‘originale’, la realtà di un mito che non è affidabile solo alla documentazione fotografica, ma all’esperienza di un entusiasmo e di un fervore artistico che chiedeva coinvolgimento. La resurrezione di When Attitudes Become Form mette in circolazione lo spettro di una radicalità che oggi non ha più effetto, perché l’arte non è più un’arma politica rispetto alle lotte reali. Affidandosi allo sguardo dell’oggi, tali proposte appaiono forse facili e irreali ma bisogna sottolineare che questa ipotetica sconfitta ha portato ad una nuova dimensione dell’immaginario artistico. Ad un’analisi retrospettiva, si può dire che la sua effettualità sul mondo sia stata infinitesimale, ma rimane in ogni caso un’influenza sul dissolvimento delle strutture tradizionali del sistema dell’arte. Se tutto questo oggi si è trasformato in business, per cui l’arte ha perso qualsiasi identità sociale per diventare merce simbolica ed economica, significa che il tentativo di scollamento dal compromesso consumistico è fallito. L’arte si è posta a rimorchio del mercato ed è arrivata al punto estremo di inefficacia nel suo rapporto critico e poetico con la società e la cultura. Di fatto, a contare nella costruzione di When Attitudes Become Form sono stati anche gli aggiustamenti spaziali che ogni artista ha attuato per convivere con gli altri. È un muoversi interattivo, piuttosto che la creazione di uno spazio privato ed indipendente. Non si poneva infatti alcuna ‘proprietà’ ambientale, ma la semplice territorialità dell’opera stessa. Era il lavoro a cercarsi linkage con gli altri, così da stabilire un rapporto empatico e condiviso. Simile legame ha un carattere comunitario, ampiamente documentato dalle fotografie in cui diversi artisti lavorano in contemporanea, nella stessa stanza, quasi fossero una ‘comune’, ed è tipico del momento storico, basato su una pratica di socialità che è politica quanto creativa. È qualcosa di simile ad un incontro casuale che produce al tempo stesso una confusione e una fusione. La mostra di Berna è stata quasi una formazione di proposizioni che, come in un incavo terrestre, hanno trovato il loro sviluppo scendendo dai soffitti o arrampicandosi alle pareti o trovando una dimensione gravitazionale a pavimento. Il senso vero della mostra di Szeemann è stato quello di mettere insieme un divenire indeterminato dell’arte così che si percepisse un continuo transito tra le opere, in modo che non fosse possibile isolare le caratteristiche individuali, ma l’energia d’insieme. È un momento interattivo e un mettersi ‘in rete’ che evidenzia il passaggio da uno all’altro, in piena attualità: la simultaneità e la coesistenza del presente artistico, che è anche sottolineata dal messa in mostra di gesti e di azioni corporali, dalla stesura di margarina di Joseph Beuys alla distesa di piombo fuso di Richard Serra all’accensione dei giunchi di Gilberto Zorio e alla rimozione fotografica di Ger van Elk. Per non parlare dell’arte come processo ed operazione in situ che cerca di superare il senso del prodotto confezionato e fabbricato a favore dell’operazione linguistica relativa ad una specifica collocazione e situazione, che non è all’interno dell’istituzione ma si immerge nel contrasto urbano, da Michael Heizer a Daniel Buren. Nasce una mostra che funziona come un vortice capace di travolgere lo spettatore, per metterlo in relazione diretta con il processo creativo. È un modo di sottoporre il pubblico a una forza vertiginosa che ne alteri la visione, così da perdersi in essa”. Prima di arrivare ad una soluzione che integrasse la ricostruzione di una vicenda radicale in un contesto attuale, completamente dominato da altri valori non solo linguistici, ma economici come si è proceduto per acquisire tutti i dati scientifici su cui lavorare ad una mappatura completa e precisa di quanto era avvenuto a Berna? “La ricerca si è sviluppata su diversi livelli, che includevano le fonti primarie dall’archivio di Szeemann, ora presso il Getty Institute di Los Angeles, e le testimonianze dirette degli artisti o i documenti reperibili nelle loro fondazioni, quanto le tracce fotografiche e scritte nella biblioteca della Kusthalle di Berna. Attraverso la raccolta dei diversi dati, che spesso hanno portato a conferme, quanto a sorprese, è iniziata la possibile mappatura delle opere in ogni singola stanza. A questo risultato ha contribuito enormemente la collaborazione con il Getty Institute, diretto da Thomas Gaehtgens, che attraverso l’attento studio condotto da Glenn Philips con il suo team su documenti, lettere e fotografie relative a Sezeemann e a When Attitudes Become Form ha permesso l’identificazione delle opere sia in mostra che non. Accanto a questa preziosa indagine sulle fonti curatoriali si è affiancata la ricerca nell’archivio della Kunsthalle, dove si sono trovati riscontri ed informazioni utili per ampliare la visione totale dell’evento, incluse le recensioni e le polemiche sollevate. Infine un ultimo arricchimento è venuto dagli artisti e dalle loro fondazioni che hanno fornito precisazioni sulle opere esposte e non. In generale la ricostruzione ha potuto contare su oltre un migliaio di fotografie, provenienti dagli archivi di Claudio Abate, Leonardo Bezzola, Balthasar Burkhard, Siegfried Kühn, Dölf Preisig, Harry Shunk e Albert Winkler, una raccolta quasi completa, e per la maggior parte inedita, di tutto quanto è stato registrato attraverso le immagini fotografiche. Queste sono state sottoposte ad un’accorta analisi e sono diventate fonti di scoperte e di novità, che hanno spesso arricchito la conoscenza anche degli stessi protagonisti, ampliandone i ricordi e le visioni. Sono venute alla luce opere e installazioni, mai menzionate né registrate sia nel catalogo di Berna sia nelle successive ricerche fatte da studiosi internazionali”. Una volta tracciata la mappa di tutte le opere in mostra e non, come si è proceduto per averle? Quali problemi hanno comportato i prestiti, una volta scoperto che l’opera è andata distrutta o dispersa ? Quale metodo espositivo è stato adottato per evidenziare le assenze? “Essendo una mostra che ha rappresentato un momento di rottura rispetto alla staticità e alla fissità del lavoro d’arte, immettendo un fattore performativo, per cui a volte l’opera mutava nel corso del tempo arrivando a distruggersi, è apparso immediatamente chiaro che a Venezia la possibilità di una ricostruzione totale e originale sarebbe stata impossibile. Tuttavia si è proceduto cercando di avvicinarci al massimo risultato con la consapevolezza che il revisiting avrebbe dovuto basarsi su due realtà: la prima consistente nel reperimento delle opere originali già acquisite da raccolte private e pubbliche, ad esempio i rintracciabili lavori di Carl Andre, Claes Oldenburg, Bruce Nauman, Eva Hesse, Giovanni Anselmo, Hanne Darboven, Reiner Ruthenbeck, Marinus Boezem e Richard Tuttle, che insieme ai rifacimenti – la seconda realtà – da attuarsi invece con la collaborazione degli artisti o delle loro fondazioni che nel loro insieme avrebbero permesso la ricostruzione dell’impatto visivo nelle singole stanze, con la relazione tra volumi e materie. Il primo compito è stato assolto nella maniera tradizionale con richieste a musei e collezionisti, mentre la seconda ha richiesto un ritorno alla fonte, in questo caso l’autore stesso o il suo archivio per chiedere se era possibile una riproposta, sorta di copia espositiva o replica del lavoro: quest’ultimo caso ha sollevato diverse problematiche che hanno coinvolto gli artisti quanto i musei e i collezionisti. Tuttavia alcuni artisti non riconoscono oggi il valore di certi lavori del 1969 o li ritengono ancorati nel loro passato e non più esponibili. Se addirittura non li rinnegano come errori di gioventù o idee che non condividono più. È cambiata così tanto l’arte dal 1969? E quale approccio ha seguito in questi casi ? Nel ricostruire questa mostra ha più peso il documento storico o il rispetto del volere soggettivo dell’artista oggi a quaranta anni di distanza? “La traslazione da un momento all’altro significa un trasporto nel tempo, è una resurrezione di cariche espressive ed emotive che sono passate. Siccome non avvengono attraverso la memoria ma mediante il remake si riproducono concretamente e diventano azioni presenti, quindi una carica che era trascorsa viene riproposta come attuale. Per alcuni è difficile riproporre impulsi e motivazioni già provate, per altri non c’è alcunché di nuovo né di differente, perché il fattore attivo dell’opera è tuttora in corso ed è ancora effettiva. In un caso la rievocazione riflette acquisizioni già elaborate, ma troppo sperimentali o giovanili, per altri è già una definizione di un percorso che è testimonianza di una dichiarazione linguistica anticipatrice ma già matura. Certamente la rielaborazione odierna non corrisponde più ad un’attitudine che tendeva ad oltrepassare il linguaggio tradizionale, ma rischia di essere un ritorno al passato. Tuttavia per capire il presente bisogna far riferimento alle trasformazioni già attuate, anche se appaiono o sono errori. Dopo il 1969 l’arte si è lentamente adeguata alla società dei consumi e dell’informazione di massa, per cui la primarietà delle materie e dei gesti ha lasciato campo alla processualità industriale e mercantile. Lentamente l’operazione artistica si è tramutata in un prodotto prefabbricato ed apparente: una costruzione speculare e narrativa del reale. Si è attuata una moltiplicazione dell’esistente che ha appiattito le forme e il discorso visivi radicali e trasgressivi. Si è creato uno spettacolo dell’arte per riproporne una dimensione decorativa ed esibizionista, mentre l’arte scaturita dal 1968 aspirava ad essere de-realizzante ed iconoclasta. Di fatto l’aspirazione di When Attitudes Become Form è stata quella di abolire il rituale tradizionale del mostrare un’opera a favore di un’esperienza del suo processo di costruzione e di transito dinnanzi allo sguardo dell’osservatore. Qual è il ruolo del curatore in una ripetizione, quasi identica come ambienti e opere, di una mostra in origine curata da un altro? Esiste una sorta di ‘copyright’ nel concepire la curatela di una mostra ? Se sì quanto la mostra intesa come progetto autoriale s’avvicina ad un’opera d’arte? Nel rifare la mostra come WABF è necessario assumere lo stesso ruolo del curatore, che incontrò artisti e protagonisti oppure la rivisitazione si può fare in modo automatico, puramente tecnico, ripetendo azioni e decisioni? “Se si assume When Attitudes Become Form come un oggetto d’uso storico e linguistico, confezionato nel 1969, innalzando l’insieme a unità compatta e definita, la prima operazione curatoriale è quella di restaurarne la totalità, mettendo insieme i frammenti (i singoli lavori d’arte) dislocati e dispersi. È un processo che inizialmente è indifferente alle parti che compongono il tutto. L’intento non è suscitare nuove associazioni o assegnare nuove collocazioni, ma praticare una ricostruzione senza ridisegnarla né modificarla, usando solo gli smembramenti. È un fissarsi su una struttura rigida, ordinata e armonica in cui le relazioni tra le componenti formava un sistema chiuso. Pertanto, il ritrovamento dei residui ha quale fine di ricomporre e mettere insieme il ‘testo’ narrativo steso da Szeemann in collaborazione con gli artisti stessi, immesso tra le ‘pagine’ architettoniche, bianche, della Kunsthalle di Berna. La raccolta di queste parti, spesso effimere e disperse, insieme ai residui che sono entrati nei musei e nelle collezioni, è tesa a ricreare un puzzle o una costellazione identificabile come una totalità, all’epoca pensata quale un nuovo sistema di fare, di mostrare e di pensare l’arte. Tale processo è coinciso, quindi, con un vero e proprio restauro di un prodotto dell’attività creativa. Innanzitutto si è dovuto riconoscere il valore dell’intera operazione, come è stato ammesso da tutti gli studiosi d’arte contemporanea, poi si è identificata la sua materia cioè la sua consistenza fisica, seguita dal riconoscimento estetico e storico che ha contribuito alla necessità di trasmetterla nel futuro, quale fatto fondante di una vicenda primaria. Tale molteplice consistenza è data dall’intreccio tra architettura, opere, relazioni e tutte queste componenti sono state studiate attraverso un metodo scientifico, prima in relazione al tempo ed al luogo in cui è stata realizzata, a Berna, e poi in rapporto al presente storico e alla sua nuova collocazione a Venezia. È fondamentale indagare l’unità dell’esposizione, sia da un punto di vista qualitativo che quantitativo cercando di avvicinarci al suo intero. Il passaggio successivo è stato di verificare fino a che punto fosse possibile la ricostruzione di tale unità. Ciò è avvenuto mettendo insieme tutte le informazioni possibili sui singoli tasselli del mosaico espositivo, capendo anche dove ci sarebbero le lacune e i vuoti che potevano riguardare il materiale che componeva la mostra. Che tipo di intervento sarebbe stato necessario per colmarle? Si sarebbero ripristinate con un inserimento di simulazioni contemporanee, oppure si sarebbe lasciato un vuoto, cercando di segnalare un’assenza? O ancora in maniera più radicale sarebbe stato necessario costruire immagini in vitro, molto vicine ad un ‘falso’, quasi sempre fallimentare? Quale sarebbe stata la legittimità di un tale intervento sostitutivo o informativo? Si sarebbe lavorato caso per caso o sulle singole accumulazioni, stanza per stanza? Come risolvere tutte queste problematiche che avrebbero riguardato la visione del curatore, passata e presente, con la consapevolezza che il ruolo del curatore che non è solo quello di assemblatore di nuovi insiemi, ma anche di un ricostruttore di contesti, ambientali e culturali, dove ricostruire da buon conservatore della storia le tracce passate? A tali problematiche sollevate dal remake o dal revisiting di When Attitudes Become Form si è tentato di rispondere creando a Venezia un dialogo tra il curatore-restauratorericostruttore delle cose d’arte e l’architetto Rem Koolhaas e l’artista Thomas Demand, al fine di creare una prospettiva multipla e plurilinguistica capace di affrontare le diverse risposte architettoniche e visuali. Insieme si sono cercate e trovate soluzioni sul raccordo temporale e spaziale tra l’evento del 1969 e la decisione di un suo remake e di un suo reenacting. È sorto qui il problema della cornice che ospitava nel 1969 la mostra, totalmente diversa da quella veneziana nel 2013: la necessità di definire un trapasso tra lo spazio fisico in cui era immersa nella Kunsthalle e nella Schulwarte a Berna e quello del palazzo settecentesco di Ca’ Corner della Regina a Venezia. Due spazialità diverse che avrebbero dovuto interagire con l’oggetto When Attitudes Become Form. Quale possibile raccordo o disaccordo si deve trovare tra le due temporalità e le due spazialità? Inventarne un terzo che riguarda il godimento attuale dell’intera opera, così che risulti facile da percepire ad un pubblico attuale, oppure lavorare su uno strappo ambientale e temporale? La differenza è sostanziale e riguarda il rapporto con l’osservatore, il pubblico. Siccome qualsiasi architettura ha un valore spaziale diverso, rimuovere quella di Berna per utilizzare quella di Venezia sarebbe stata un’operazione di estrinsecazione diversa dalla formulazione storica. Annullare invece la presenza storico-muraria di Venezia a favore di una sequenza di stanze white cube avrebbe significato immettere l’insieme curato da Szeemann in un limbo, senza ancoraggi o referenze visive ed esperienziali alla situazione presente. Si è optato per una spazialità che non risolvesse il discorso a favore di una o dell’altra architettura, forzando la frattura temporale e spaziale. Il risultato è stato di creare un continuum dove il problema architettonico altera ed è alterato dall’innesto tra Kunsthalle, Schulwarte e Ca’ Corner della Regina. Non si è tentato di realizzare alcun falso criterio di continuità o di integrazione stilistica, ma si è lavorato per contrasto, immettendo in modo eclatante gli spazi moderni di Berna dentro il contenitore storico di Venezia. E, a ben vedere, entrambe le situazioni di fatto fanno parte della trasmissione dell’opera When Attitudes Become Form. Una volta trovata la cornice corretta per evidenziare la complessità di una ricostruzione, s’è passati al recupero e alla ricostruzione, quando necessario, delle figure – cioè le opere – che componevano il ‘racconto’ per immagini di Szeemann. Il lavoro del curatore a Venezia è stato dunque quello di negare la propria soggettività di assemblatore di mostre per ricostruire e restaurare un testo di un altro curatore. Questa spersonalizzazione è un tentativo di far sì che relazione oggettiva e soggettiva con la cosa esposta non siano più considerati antinomici. Il compito finale è stato quello di evocare un sorprendente prodotto d’epoca, d’identificarsi con esso, senza assumerlo come romantica e nostalgica rovina dell’altrui e proprio tempo passato. Una volta ricostruito come significante privilegiato di una serie di significati instabili e aleatori, entrare in rapporto diacronico con esso per suscitare una sensibilità attuale. E siccome questo oggetto del 1969, ricostruito e restaurato, necessitava nel 2013 di un nuovo rapporto con l’attualità, lo si è inserito in una zona di sospensione, un territorio estraneo alla sua storia e alla sua cronologia – Ca’ Corner della Regina – con l’idea di rilanciare la geografia e la storia del suo immaginario. Di fatto, inserirlo come un corpo irritante in un dentro che potesse provocare una secrezione di difesa: la sua nuova perla”. Ora che When Attitudes Become Form si è aperta a Venezia, in Cà Corner della Regina, cosa è cambiato nel suo percorso di storico e di curatore? “Rivisitare dal vero un evento che avevo vissuto in diretta a Berna e ricostruirlo, mi ha confermato la potenza del momento storico sia sul piano del linguaggio artistico che del procedere del curatore. Essendo una rivisitazione condotta in occasione della Biennale di Venezia 2013, quindi da collocarsi in un contesto non neutro, ma definito da altre proposte curatoriali – quella di Massimiliano Gioni, con il suo Palazzo Enciclopedico, e quelle delle decine e decine di curatori che sono intervenuti nelle mostre collaterali – ho capito che il pericolo dell’arte contemporanea e del suo modo di comunicare sta nel ridursi a un’immagine sottile e senza peso, capace di scorrere fluidamente, senza ancoraggio sulla parete bianca, la quale può essere metafora di un museo, di una galleria e di una fiera. Si è perso il contatto e, diciamo, il dialogo con il contesto, e l’arte si è ridotta ad un prodotto senza peso e energia, fondamentalmente un decoro temporaneo di un possibile cubo bianco, simbolico di qualsiasi contesto abitativo ospitante. Sento quindi sempre più l’esigenza di ancorare l’arte a un luogo o un territorio, invitandola a mettere le radici, senza dimenticare la storia. Ad esempio la cancellazione dell’architettura cinquecentesca dell’Arsenale, condotta attraverso la costruzione di percorsi dalle bianche pareti in legno o in cartongesso, è indice di un’astrazione ambientale, legata alla messa in un limbo dell’arte. When Attitudes Become Form era invece un tutto che il mercato ha parimenti spezzato, ma si capisce la sua forza ricomponendolo. I frammenti non formano una statua o un vaso, sono rovine, e qui sta il rischio del presente contemporaneo di trasformarsi in rovina. All’epoca l’istanza di fare arte non era tesa ad una pratica edonistica né didattica né economica, per cui le cose potevano andare distrutte o disperse, essere inutili e non funzionali. A contare era la prova di un’energia mentale e fisica, comportamentale ed emotiva che portava alla costruzione di ‘figure’ immaginarie senza alcun fine se non il piacere di esprimersi. L’aspirazione all’idea e della sua soddisfazione cercava di avere effetto sul reale, non solo in cambio della sopravvivenza, ma dell’azione sul pubblico, che allora si definiva ‘politica’: rifiuto del diletto e del decoro a favore di un produrre energetico che sollecitasse domande”.
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di Germano Celant - [gallery ids="9601,9602,9603,9604,9605,9606,9607,9608"]Qual è stato l’impianto teorico e stiocro che ha sostenuto la rivisitazione e la ricostruzione ,”così com’era”, della mostra curata da Harald Szeemann nel 1969 alla Kunsthalle di Berna? “È sempre la lettura della storia dell’arte a sostenere un progetto. Se si pensa alla logica che ha sostenuto la comunicazione artistica nel corso dei secoli passati si può verificare che – in generale – fino all’Ottocento gli interventi degli artisti erano eseguiti in relazione o in situazione, vale a dire rispondevano a una commissione o a un contesto che veniva loro suggerito od offerto. Quindi le opere erano messe in relazione o erano situate in un territorio ambientale o informativo che era scelto dialetticamente tra committente e artista stesso. Per un lungo periodo l’arte, che non aspira a circolare liberamente come prodotto di scambio e di consumo, si nutre di osmosi con il contesto, dalla caverna al palazzo, dalle pareti al soffitto, e forma un unicum indivisibile. Tale dialogo si spezza quando nell’Ottocento, una volta scomparso il mecenatismo dei nobili, le opere si devono adeguare ad un mercato borghese che si nutre di artefatti disponibili alla circolazione, nel 1863 si creano i Salons. Sono queste le nuove ambientazioni degli artisti ‘non integrati’, vale a dire dei ‘refusés’ e degli ‘indipendenti’ in cui sono raccolti non più integrati, ma appesi ai muri i lavori artistici da mettere in vendita. Tale salto contestuale che sradica l’intervento dall’inserimento murario crea un altro tipo di relazione e di situazione, quella tra le opere stesse e il loro allestimento. È un passaggio che non è mai stato studiato completamente, perché mancano le tracce della logica con cui gli stessi artisti entravano in relazione tra di loro, ponendo i quadri sopra velluti o sculture su piedestalli, e le poche fotografie dell’epoca non permettono una tale ricostruzione. Tuttavia l’input dell’artista sul modo di vedere la sua opera doveva essere importante e controllato, non affidato al caso o ad altri, come mercanti. E se lo era, anche questo elemento può essere soggetto di studio. Tuttavia a partire dal Novecento, le esposizioni sono sempre più controllate dagli artisti stessi, che le adottano per lanciare i loro movimenti linguistici, da Der Blaue Reiter a Monaco nel 1911 a Les Peintres Futuristes Italiens a Parigi nel 1912. Sono momenti di installazione a cui gli artisti partecipano arrivando a creare insiemi dirompenti e sorprendenti, come The First International Dada Fair, a Berlino nel 1920 e Esposition Internationale du Surréalisme a Parigi nel 1938. Si potrebbe affermare che tali insieme diventano un dispositivo dove l’apparente confusione diventa una fusione visuale che argomenta la poetica del gruppo. Il fatto di organizzare le cose o gli oggetti, le fotografie o i materiali secondo un accadere, che sembra fuori di ogni aspettativa, suscita interrogativi e domande. È la stessa cosa successa con When Attitudes Become Form, dove le opere si devono considerare in funzione dell’insieme. Qui ogni entità singola sembra scomparire a favore di un intreccio tra le parti, qualcosa che lo spettatore deve sbrogliare da sé. La concettualità nasce prima delle opere, perché il discorso deriva dal dispositivo curatoriale. Qui sta l’importanza di Szeemann che abbandona la mostra a ‘composizioni’ curiose e caotiche, dense e aperte. Se si assume la mostra come un tutto, in maniera barocca, si capisce come la mostra sia riuscita nel 1969 ad allontanarsi dal display classico e museale, vigente allora nel mondo dell’arte moderna e contemporanea. Lavorando sulle attitudini e sui loro risultati improvvisati ed effimeri, ottiene infatti effetti poetici, inventati e scoperti in situ. In tal modo il piacere del concetto si traduce in conoscenza del piacere. Non si pone alcun criterio di convenienza solo di legame, che deriva da una reciproca familiarità tra gli artisti e il loro fare. Ricostruire questo campo di energia, con le sue varietà espressive, ha significato rivisitare un dispositivo che se anticamente era architettonico, come una cappella o una chiesa, qui era basato sulla varietà e sulla variabilità di una sintonia che non era concreta e muraria, ma basata su un’integrità esperienziale condivisa. Un intreccio di momenti lirici e drammatici che hanno prodotto un tutto dall’acutezza mirabile che commuove ancora oggi. E su tale ipotesi di insieme meravigliante che si è costruito il progetto, facendolo coincidere con un’assolutezza scientifica, capace di ricreare questo tempio effimero del fare arte nel 1969. Di fatto si è cercato di continuare lo studio degli ‘interventi’ globali degli artisti in un contesto che non è più la chiesa o il palazzo, ma la mostra che è diventata il luogo del nuovo splendore contemporaneo”. Si può dire che When Attitudes Become Form rappresenti l’ultimo anelito dello sconvolgimento e della trasgressione modernista, per cui cristallizzarlo in una situazione fuori del suo contesto storico, politico e culturale non rischia di dissolvere la radicalità dell’originale? Se al tempo le immagini di tale operazione hanno avuto un effetto sulla realtà e sull’articolarsi del linguaggio dell’arte, oggi non rischiano di trasformarsi in feticizzazione nostalgica di un’illusione, quindi di una debolezza? “È evidente che la mostra organizzata da Szeemann nel 1969 è stata un’apertura verso un’immaginazione libera quanto politicamente inutile: un buon proposito di un fare rappresentativo che si connetteva alle avanguardie del modernismo. Si può assumere quale gesto morale e critico verso le proposte tradizionali del fare arte, che respingeva la realtà solo per rappresentarla e sottoporla ad un processo mimetico. Le ricerche mostrate a Berna, come in Op Losse Schroeven, realizzata in contemporanea allo Stedelijk Museum di Amsterdam, che presero il nome di Land art, Process art, Arte povera, Conceptual art, erano un ulteriore tentativo di rivalutare la dimensione pragmatica del vedere e del sentire. Vale a dire un cambio di segno espresso nell’attenzione alle tecniche e ai materiali, per esaltare una concezione poetica rispetto a una contemplativa, in cui l’essere umano è spinto a immergersi e non semplicemente guardare. Basta osservare la documentazione che riguarda l’arrivo in scena del pubblico, per capire come tale arte tendesse a un coinvolgimento fisico e corporale. Naturalmente, tale porsi è stato visto, allora, come un eccesso di negatività e di trasgressione rispetto all’istituzione. Qualcosa di ingovernabile e senza regole, che spingeva verso una demitizzazione della sacralità della pittura e della scultura: un rifiuto delle forme classiche per un’esaltazione della dimensione informe – all’epoca definita anche anti-form – della marginalità artistica. Con il suo interesse per il carattere insignificante e concreto delle materie e delle cose l’esposizione del 1969 solennizzò il carattere fortuito e caotico dell’arte, la sua permeabilità a tutti i possibili linguaggi e a tutte le possibili materie, dal piombo all’acqua, dal fuoco alla cera, dalla margarina al tubo fluorescente, dal cuoio al feltro, dai vetri rotti al ghiaccio, dalla cenere al cotone, così come a tutti gli strumenti utili, non privilegiati, dalla pala al caterpillar, dal giornale al cartellone, dalla lettura al camminare… Da cui la de-sacralizzazione di una cultura visiva che si era identificata solo con il dipingere e lo scolpire come con la dislocazione o lo spiazzamento linguistici dell’oggetto trovato. È una celebrazione del significato dell’insignificante, della realtà che si pone in sintonia proprio con il carattere effimero e temporaneo di un esistere sociale e culturale: un doppio senza valore da contrapporre a una catastrofe dei valori passati. E la sanzione prima della presenza di fare rovinoso e frammentario, dissolto e fluido, contrario ad ogni uni-dimensionalità dell’arte”. Di fatto, il reenacting di WABF rischia di tramutare l’effetto di trasgressione in una proposta rassicurante. All’epoca, l’esibizione di scarti industriali e di materie performative e mutanti che bruciavano o si scioglievano per dare corpo ad altre entità tendevano a mettere in discussione la staticità quanto la sacralità dell’artefatto, quanto del luogo espositivo, la Kunsthalle Bern, tanto da sollevare le reazioni dei conservatori che costrinsero Szeemann a dimettersi. Oggi questo non può succedere, anzi questo strappo curatoriale ed artistico viene sacralizzato. Quello che era stato proposto come elusione della fissità e delle regolarità classica ora viene fissato e dissolto in un’accettazione senza riserve: un simulacro privo di effetti. Si può affermare che oggi la radicalità e la trasgressione legate al percorso del modernismo hanno trovato un luogo ed un posto, compresa il display catastrofico e caotico della mostra di Szeemann? Il remake veneziano è l’ultimo atto sublimante di una radicalità che è ormai obsoleta? “La messa in discussione, e la conseguente azione trasgressiva, esistono perché si pone un punto di partenza e di possibile alternativa rispetto ad una condizione preesistente. L’aspetto utopico di tale fare, che implicava un mondo linguistico altro, opposto o quanto meno diverso dal precedente, va ancorato alla situazione storica del momento, il biennio 1968-1969, quando ci si accorge che l’arte si è tramutata in una atto puramente decorativo. Seppure le ricerche sviluppatesi dal 1945 al 1964, dall Espressionismo astratto alla Pop art, avessero tentato di prendere in considerazione la dimensione solitaria e disperata dell’artista, la sua angoscia esistenziale e l’esperienza drammatica del vivere, travolto dalla tragedia della seconda guerra mondiale, come il dissolvimento del valore morale e rappresentativo dell’arte ormai scalzata e fagocitata dall’immaginario mediatico, dalla pubblicità al cartoons, tali proposizioni non erano riuscite a scalzare il valore decorativo dell’artefatto. Si ponevano come duplicati di un immaginario individuale e industriale, senza indebolire e screditare minimamente la pratica del fare, del mostrare, del comunicare e del consumare l’arte. Le attitudini prodotte e mostrate a Berna sottintendevano una scena espositiva che, occupando non solo i musei, ma le strade e gli spazi pubblici, riflettesse un’azione politica in cui tutti fossero coinvolti, artisti e spettatori, e di cui tutti dovevano prendere consapevolezza. È stata questa la vera illusione che rivela ancora il desiderio di una rivoluzione illuminista intrecciata al sogno di proseguire il discorso radicale delle avanguardie del modernismo. Certamente il remake di tale evento rischia, nella sua ripetizione, di esaltare un momento ideale ma al tempo stesso serve a far percepire, mediante l’avvicinamento al suo stato ‘originale’, la realtà di un mito che non è affidabile solo alla documentazione fotografica, ma all’esperienza di un entusiasmo e di un fervore artistico che chiedeva coinvolgimento. La resurrezione di When Attitudes Become Form mette in circolazione lo spettro di una radicalità che oggi non ha più effetto, perché l’arte non è più un’arma politica rispetto alle lotte reali. Affidandosi allo sguardo dell’oggi, tali proposte appaiono forse facili e irreali ma bisogna sottolineare che questa ipotetica sconfitta ha portato ad una nuova dimensione dell’immaginario artistico. Ad un’analisi retrospettiva, si può dire che la sua effettualità sul mondo sia stata infinitesimale, ma rimane in ogni caso un’influenza sul dissolvimento delle strutture tradizionali del sistema dell’arte. Se tutto questo oggi si è trasformato in business, per cui l’arte ha perso qualsiasi identità sociale per diventare merce simbolica ed economica, significa che il tentativo di scollamento dal compromesso consumistico è fallito. L’arte si è posta a rimorchio del mercato ed è arrivata al punto estremo di inefficacia nel suo rapporto critico e poetico con la società e la cultura. Di fatto, a contare nella costruzione di When Attitudes Become Form sono stati anche gli aggiustamenti spaziali che ogni artista ha attuato per convivere con gli altri. È un muoversi interattivo, piuttosto che la creazione di uno spazio privato ed indipendente. Non si poneva infatti alcuna ‘proprietà’ ambientale, ma la semplice territorialità dell’opera stessa. Era il lavoro a cercarsi linkage con gli altri, così da stabilire un rapporto empatico e condiviso. Simile legame ha un carattere comunitario, ampiamente documentato dalle fotografie in cui diversi artisti lavorano in contemporanea, nella stessa stanza, quasi fossero una ‘comune’, ed è tipico del momento storico, basato su una pratica di socialità che è politica quanto creativa. È qualcosa di simile ad un incontro casuale che produce al tempo stesso una confusione e una fusione. La mostra di Berna è stata quasi una formazione di proposizioni che, come in un incavo terrestre, hanno trovato il loro sviluppo scendendo dai soffitti o arrampicandosi alle pareti o trovando una dimensione gravitazionale a pavimento. Il senso vero della mostra di Szeemann è stato quello di mettere insieme un divenire indeterminato dell’arte così che si percepisse un continuo transito tra le opere, in modo che non fosse possibile isolare le caratteristiche individuali, ma l’energia d’insieme. È un momento interattivo e un mettersi ‘in rete’ che evidenzia il passaggio da uno all’altro, in piena attualità: la simultaneità e la coesistenza del presente artistico, che è anche sottolineata dal messa in mostra di gesti e di azioni corporali, dalla stesura di margarina di Joseph Beuys alla distesa di piombo fuso di Richard Serra all’accensione dei giunchi di Gilberto Zorio e alla rimozione fotografica di Ger van Elk. Per non parlare dell’arte come processo ed operazione in situ che cerca di superare il senso del prodotto confezionato e fabbricato a favore dell’operazione linguistica relativa ad una specifica collocazione e situazione, che non è all’interno dell’istituzione ma si immerge nel contrasto urbano, da Michael Heizer a Daniel Buren. Nasce una mostra che funziona come un vortice capace di travolgere lo spettatore, per metterlo in relazione diretta con il processo creativo. È un modo di sottoporre il pubblico a una forza vertiginosa che ne alteri la visione, così da perdersi in essa”. Prima di arrivare ad una soluzione che integrasse la ricostruzione di una vicenda radicale in un contesto attuale, completamente dominato da altri valori non solo linguistici, ma economici come si è proceduto per acquisire tutti i dati scientifici su cui lavorare ad una mappatura completa e precisa di quanto era avvenuto a Berna? “La ricerca si è sviluppata su diversi livelli, che includevano le fonti primarie dall’archivio di Szeemann, ora presso il Getty Institute di Los Angeles, e le testimonianze dirette degli artisti o i documenti reperibili nelle loro fondazioni, quanto le tracce fotografiche e scritte nella biblioteca della Kusthalle di Berna. Attraverso la raccolta dei diversi dati, che spesso hanno portato a conferme, quanto a sorprese, è iniziata la possibile mappatura delle opere in ogni singola stanza. A questo risultato ha contribuito enormemente la collaborazione con il Getty Institute, diretto da Thomas Gaehtgens, che attraverso l’attento studio condotto da Glenn Philips con il suo team su documenti, lettere e fotografie relative a Sezeemann e a When Attitudes Become Form ha permesso l’identificazione delle opere sia in mostra che non. Accanto a questa preziosa indagine sulle fonti curatoriali si è affiancata la ricerca nell’archivio della Kunsthalle, dove si sono trovati riscontri ed informazioni utili per ampliare la visione totale dell’evento, incluse le recensioni e le polemiche sollevate. Infine un ultimo arricchimento è venuto dagli artisti e dalle loro fondazioni che hanno fornito precisazioni sulle opere esposte e non. In generale la ricostruzione ha potuto contare su oltre un migliaio di fotografie, provenienti dagli archivi di Claudio Abate, Leonardo Bezzola, Balthasar Burkhard, Siegfried Kühn, Dölf Preisig, Harry Shunk e Albert Winkler, una raccolta quasi completa, e per la maggior parte inedita, di tutto quanto è stato registrato attraverso le immagini fotografiche. Queste sono state sottoposte ad un’accorta analisi e sono diventate fonti di scoperte e di novità, che hanno spesso arricchito la conoscenza anche degli stessi protagonisti, ampliandone i ricordi e le visioni. Sono venute alla luce opere e installazioni, mai menzionate né registrate sia nel catalogo di Berna sia nelle successive ricerche fatte da studiosi internazionali”. Una volta tracciata la mappa di tutte le opere in mostra e non, come si è proceduto per averle? Quali problemi hanno comportato i prestiti, una volta scoperto che l’opera è andata distrutta o dispersa ? Quale metodo espositivo è stato adottato per evidenziare le assenze? “Essendo una mostra che ha rappresentato un momento di rottura rispetto alla staticità e alla fissità del lavoro d’arte, immettendo un fattore performativo, per cui a volte l’opera mutava nel corso del tempo arrivando a distruggersi, è apparso immediatamente chiaro che a Venezia la possibilità di una ricostruzione totale e originale sarebbe stata impossibile. Tuttavia si è proceduto cercando di avvicinarci al massimo risultato con la consapevolezza che il revisiting avrebbe dovuto basarsi su due realtà: la prima consistente nel reperimento delle opere originali già acquisite da raccolte private e pubbliche, ad esempio i rintracciabili lavori di Carl Andre, Claes Oldenburg, Bruce Nauman, Eva Hesse, Giovanni Anselmo, Hanne Darboven, Reiner Ruthenbeck, Marinus Boezem e Richard Tuttle, che insieme ai rifacimenti – la seconda realtà – da attuarsi invece con la collaborazione degli artisti o delle loro fondazioni che nel loro insieme avrebbero permesso la ricostruzione dell’impatto visivo nelle singole stanze, con la relazione tra volumi e materie. Il primo compito è stato assolto nella maniera tradizionale con richieste a musei e collezionisti, mentre la seconda ha richiesto un ritorno alla fonte, in questo caso l’autore stesso o il suo archivio per chiedere se era possibile una riproposta, sorta di copia espositiva o replica del lavoro: quest’ultimo caso ha sollevato diverse problematiche che hanno coinvolto gli artisti quanto i musei e i collezionisti. Tuttavia alcuni artisti non riconoscono oggi il valore di certi lavori del 1969 o li ritengono ancorati nel loro passato e non più esponibili. Se addirittura non li rinnegano come errori di gioventù o idee che non condividono più. È cambiata così tanto l’arte dal 1969? E quale approccio ha seguito in questi casi ? Nel ricostruire questa mostra ha più peso il documento storico o il rispetto del volere soggettivo dell’artista oggi a quaranta anni di distanza? “La traslazione da un momento all’altro significa un trasporto nel tempo, è una resurrezione di cariche espressive ed emotive che sono passate. Siccome non avvengono attraverso la memoria ma mediante il remake si riproducono concretamente e diventano azioni presenti, quindi una carica che era trascorsa viene riproposta come attuale. Per alcuni è difficile riproporre impulsi e motivazioni già provate, per altri non c’è alcunché di nuovo né di differente, perché il fattore attivo dell’opera è tuttora in corso ed è ancora effettiva. In un caso la rievocazione riflette acquisizioni già elaborate, ma troppo sperimentali o giovanili, per altri è già una definizione di un percorso che è testimonianza di una dichiarazione linguistica anticipatrice ma già matura. Certamente la rielaborazione odierna non corrisponde più ad un’attitudine che tendeva ad oltrepassare il linguaggio tradizionale, ma rischia di essere un ritorno al passato. Tuttavia per capire il presente bisogna far riferimento alle trasformazioni già attuate, anche se appaiono o sono errori. Dopo il 1969 l’arte si è lentamente adeguata alla società dei consumi e dell’informazione di massa, per cui la primarietà delle materie e dei gesti ha lasciato campo alla processualità industriale e mercantile. Lentamente l’operazione artistica si è tramutata in un prodotto prefabbricato ed apparente: una costruzione speculare e narrativa del reale. Si è attuata una moltiplicazione dell’esistente che ha appiattito le forme e il discorso visivi radicali e trasgressivi. Si è creato uno spettacolo dell’arte per riproporne una dimensione decorativa ed esibizionista, mentre l’arte scaturita dal 1968 aspirava ad essere de-realizzante ed iconoclasta. Di fatto l’aspirazione di When Attitudes Become Form è stata quella di abolire il rituale tradizionale del mostrare un’opera a favore di un’esperienza del suo processo di costruzione e di transito dinnanzi allo sguardo dell’osservatore. Qual è il ruolo del curatore in una ripetizione, quasi identica come ambienti e opere, di una mostra in origine curata da un altro? Esiste una sorta di ‘copyright’ nel concepire la curatela di una mostra ? Se sì quanto la mostra intesa come progetto autoriale s’avvicina ad un’opera d’arte? Nel rifare la mostra come WABF è necessario assumere lo stesso ruolo del curatore, che incontrò artisti e protagonisti oppure la rivisitazione si può fare in modo automatico, puramente tecnico, ripetendo azioni e decisioni? “Se si assume When Attitudes Become Form come un oggetto d’uso storico e linguistico, confezionato nel 1969, innalzando l’insieme a unità compatta e definita, la prima operazione curatoriale è quella di restaurarne la totalità, mettendo insieme i frammenti (i singoli lavori d’arte) dislocati e dispersi. È un processo che inizialmente è indifferente alle parti che compongono il tutto. L’intento non è suscitare nuove associazioni o assegnare nuove collocazioni, ma praticare una ricostruzione senza ridisegnarla né modificarla, usando solo gli smembramenti. È un fissarsi su una struttura rigida, ordinata e armonica in cui le relazioni tra le componenti formava un sistema chiuso. Pertanto, il ritrovamento dei residui ha quale fine di ricomporre e mettere insieme il ‘testo’ narrativo steso da Szeemann in collaborazione con gli artisti stessi, immesso tra le ‘pagine’ architettoniche, bianche, della Kunsthalle di Berna. La raccolta di queste parti, spesso effimere e disperse, insieme ai residui che sono entrati nei musei e nelle collezioni, è tesa a ricreare un puzzle o una costellazione identificabile come una totalità, all’epoca pensata quale un nuovo sistema di fare, di mostrare e di pensare l’arte. Tale processo è coinciso, quindi, con un vero e proprio restauro di un prodotto dell’attività creativa. Innanzitutto si è dovuto riconoscere il valore dell’intera operazione, come è stato ammesso da tutti gli studiosi d’arte contemporanea, poi si è identificata la sua materia cioè la sua consistenza fisica, seguita dal riconoscimento estetico e storico che ha contribuito alla necessità di trasmetterla nel futuro, quale fatto fondante di una vicenda primaria. Tale molteplice consistenza è data dall’intreccio tra architettura, opere, relazioni e tutte queste componenti sono state studiate attraverso un metodo scientifico, prima in relazione al tempo ed al luogo in cui è stata realizzata, a Berna, e poi in rapporto al presente storico e alla sua nuova collocazione a Venezia. È fondamentale indagare l’unità dell’esposizione, sia da un punto di vista qualitativo che quantitativo cercando di avvicinarci al suo intero. Il passaggio successivo è stato di verificare fino a che punto fosse possibile la ricostruzione di tale unità. Ciò è avvenuto mettendo insieme tutte le informazioni possibili sui singoli tasselli del mosaico espositivo, capendo anche dove ci sarebbero le lacune e i vuoti che potevano riguardare il materiale che componeva la mostra. Che tipo di intervento sarebbe stato necessario per colmarle? Si sarebbero ripristinate con un inserimento di simulazioni contemporanee, oppure si sarebbe lasciato un vuoto, cercando di segnalare un’assenza? O ancora in maniera più radicale sarebbe stato necessario costruire immagini in vitro, molto vicine ad un ‘falso’, quasi sempre fallimentare? Quale sarebbe stata la legittimità di un tale intervento sostitutivo o informativo? Si sarebbe lavorato caso per caso o sulle singole accumulazioni, stanza per stanza? Come risolvere tutte queste problematiche che avrebbero riguardato la visione del curatore, passata e presente, con la consapevolezza che il ruolo del curatore che non è solo quello di assemblatore di nuovi insiemi, ma anche di un ricostruttore di contesti, ambientali e culturali, dove ricostruire da buon conservatore della storia le tracce passate? A tali problematiche sollevate dal remake o dal revisiting di When Attitudes Become Form si è tentato di rispondere creando a Venezia un dialogo tra il curatore-restauratorericostruttore delle cose d’arte e l’architetto Rem Koolhaas e l’artista Thomas Demand, al fine di creare una prospettiva multipla e plurilinguistica capace di affrontare le diverse risposte architettoniche e visuali. Insieme si sono cercate e trovate soluzioni sul raccordo temporale e spaziale tra l’evento del 1969 e la decisione di un suo remake e di un suo reenacting. È sorto qui il problema della cornice che ospitava nel 1969 la mostra, totalmente diversa da quella veneziana nel 2013: la necessità di definire un trapasso tra lo spazio fisico in cui era immersa nella Kunsthalle e nella Schulwarte a Berna e quello del palazzo settecentesco di Ca’ Corner della Regina a Venezia. Due spazialità diverse che avrebbero dovuto interagire con l’oggetto When Attitudes Become Form. Quale possibile raccordo o disaccordo si deve trovare tra le due temporalità e le due spazialità? Inventarne un terzo che riguarda il godimento attuale dell’intera opera, così che risulti facile da percepire ad un pubblico attuale, oppure lavorare su uno strappo ambientale e temporale? La differenza è sostanziale e riguarda il rapporto con l’osservatore, il pubblico. Siccome qualsiasi architettura ha un valore spaziale diverso, rimuovere quella di Berna per utilizzare quella di Venezia sarebbe stata un’operazione di estrinsecazione diversa dalla formulazione storica. Annullare invece la presenza storico-muraria di Venezia a favore di una sequenza di stanze white cube avrebbe significato immettere l’insieme curato da Szeemann in un limbo, senza ancoraggi o referenze visive ed esperienziali alla situazione presente. Si è optato per una spazialità che non risolvesse il discorso a favore di una o dell’altra architettura, forzando la frattura temporale e spaziale. Il risultato è stato di creare un continuum dove il problema architettonico altera ed è alterato dall’innesto tra Kunsthalle, Schulwarte e Ca’ Corner della Regina. Non si è tentato di realizzare alcun falso criterio di continuità o di integrazione stilistica, ma si è lavorato per contrasto, immettendo in modo eclatante gli spazi moderni di Berna dentro il contenitore storico di Venezia. E, a ben vedere, entrambe le situazioni di fatto fanno parte della trasmissione dell’opera When Attitudes Become Form. Una volta trovata la cornice corretta per evidenziare la complessità di una ricostruzione, s’è passati al recupero e alla ricostruzione, quando necessario, delle figure – cioè le opere – che componevano il ‘racconto’ per immagini di Szeemann. Il lavoro del curatore a Venezia è stato dunque quello di negare la propria soggettività di assemblatore di mostre per ricostruire e restaurare un testo di un altro curatore. Questa spersonalizzazione è un tentativo di far sì che relazione oggettiva e soggettiva con la cosa esposta non siano più considerati antinomici. Il compito finale è stato quello di evocare un sorprendente prodotto d’epoca, d’identificarsi con esso, senza assumerlo come romantica e nostalgica rovina dell’altrui e proprio tempo passato. Una volta ricostruito come significante privilegiato di una serie di significati instabili e aleatori, entrare in rapporto diacronico con esso per suscitare una sensibilità attuale. E siccome questo oggetto del 1969, ricostruito e restaurato, necessitava nel 2013 di un nuovo rapporto con l’attualità, lo si è inserito in una zona di sospensione, un territorio estraneo alla sua storia e alla sua cronologia – Ca’ Corner della Regina – con l’idea di rilanciare la geografia e la storia del suo immaginario. Di fatto, inserirlo come un corpo irritante in un dentro che potesse provocare una secrezione di difesa: la sua nuova perla”. Ora che When Attitudes Become Form si è aperta a Venezia, in Cà Corner della Regina, cosa è cambiato nel suo percorso di storico e di curatore? “Rivisitare dal vero un evento che avevo vissuto in diretta a Berna e ricostruirlo, mi ha confermato la potenza del momento storico sia sul piano del linguaggio artistico che del procedere del curatore. Essendo una rivisitazione condotta in occasione della Biennale di Venezia 2013, quindi da collocarsi in un contesto non neutro, ma definito da altre proposte curatoriali – quella di Massimiliano Gioni, con il suo Palazzo Enciclopedico, e quelle delle decine e decine di curatori che sono intervenuti nelle mostre collaterali – ho capito che il pericolo dell’arte contemporanea e del suo modo di comunicare sta nel ridursi a un’immagine sottile e senza peso, capace di scorrere fluidamente, senza ancoraggio sulla parete bianca, la quale può essere metafora di un museo, di una galleria e di una fiera. Si è perso il contatto e, diciamo, il dialogo con il contesto, e l’arte si è ridotta ad un prodotto senza peso e energia, fondamentalmente un decoro temporaneo di un possibile cubo bianco, simbolico di qualsiasi contesto abitativo ospitante. Sento quindi sempre più l’esigenza di ancorare l’arte a un luogo o un territorio, invitandola a mettere le radici, senza dimenticare la storia. Ad esempio la cancellazione dell’architettura cinquecentesca dell’Arsenale, condotta attraverso la costruzione di percorsi dalle bianche pareti in legno o in cartongesso, è indice di un’astrazione ambientale, legata alla messa in un limbo dell’arte. When Attitudes Become Form era invece un tutto che il mercato ha parimenti spezzato, ma si capisce la sua forza ricomponendolo. I frammenti non formano una statua o un vaso, sono rovine, e qui sta il rischio del presente contemporaneo di trasformarsi in rovina. All’epoca l’istanza di fare arte non era tesa ad una pratica edonistica né didattica né economica, per cui le cose potevano andare distrutte o disperse, essere inutili e non funzionali. A contare era la prova di un’energia mentale e fisica, comportamentale ed emotiva che portava alla costruzione di ‘figure’ immaginarie senza alcun fine se non il piacere di esprimersi. L’aspirazione all’idea e della sua soddisfazione cercava di avere effetto sul reale, non solo in cambio della sopravvivenza, ma dell’azione sul pubblico, che allora si definiva ‘politica’: rifiuto del diletto e del decoro a favore di un produrre energetico che sollecitasse domande”.
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di Germano Celant - [gallery ids="9601,9602,9603,9604,9605,9606,9607,9608"]Qual è stato l’impianto teorico e stiocro che ha sostenuto la rivisitazione e la ricostruzione ,”così com’era”, della mostra curata da Harald Szeemann nel 1969 alla Kunsthalle di Berna? “È sempre la lettura della storia dell’arte a sostenere un progetto. Se si pensa alla logica che ha sostenuto la comunicazione artistica nel corso dei secoli passati si può verificare che – in generale – fino all’Ottocento gli interventi degli artisti erano eseguiti in relazione o in situazione, vale a dire rispondevano a una commissione o a un contesto che veniva loro suggerito od offerto. Quindi le opere erano messe in relazione o erano situate in un territorio ambientale o informativo che era scelto dialetticamente tra committente e artista stesso. Per un lungo periodo l’arte, che non aspira a circolare liberamente come prodotto di scambio e di consumo, si nutre di osmosi con il contesto, dalla caverna al palazzo, dalle pareti al soffitto, e forma un unicum indivisibile. Tale dialogo si spezza quando nell’Ottocento, una volta scomparso il mecenatismo dei nobili, le opere si devono adeguare ad un mercato borghese che si nutre di artefatti disponibili alla circolazione, nel 1863 si creano i Salons. Sono queste le nuove ambientazioni degli artisti ‘non integrati’, vale a dire dei ‘refusés’ e degli ‘indipendenti’ in cui sono raccolti non più integrati, ma appesi ai muri i lavori artistici da mettere in vendita. Tale salto contestuale che sradica l’intervento dall’inserimento murario crea un altro tipo di relazione e di situazione, quella tra le opere stesse e il loro allestimento. È un passaggio che non è mai stato studiato completamente, perché mancano le tracce della logica con cui gli stessi artisti entravano in relazione tra di loro, ponendo i quadri sopra velluti o sculture su piedestalli, e le poche fotografie dell’epoca non permettono una tale ricostruzione. Tuttavia l’input dell’artista sul modo di vedere la sua opera doveva essere importante e controllato, non affidato al caso o ad altri, come mercanti. E se lo era, anche questo elemento può essere soggetto di studio. Tuttavia a partire dal Novecento, le esposizioni sono sempre più controllate dagli artisti stessi, che le adottano per lanciare i loro movimenti linguistici, da Der Blaue Reiter a Monaco nel 1911 a Les Peintres Futuristes Italiens a Parigi nel 1912. Sono momenti di installazione a cui gli artisti partecipano arrivando a creare insiemi dirompenti e sorprendenti, come The First International Dada Fair, a Berlino nel 1920 e Esposition Internationale du Surréalisme a Parigi nel 1938. Si potrebbe affermare che tali insieme diventano un dispositivo dove l’apparente confusione diventa una fusione visuale che argomenta la poetica del gruppo. Il fatto di organizzare le cose o gli oggetti, le fotografie o i materiali secondo un accadere, che sembra fuori di ogni aspettativa, suscita interrogativi e domande. È la stessa cosa successa con When Attitudes Become Form, dove le opere si devono considerare in funzione dell’insieme. Qui ogni entità singola sembra scomparire a favore di un intreccio tra le parti, qualcosa che lo spettatore deve sbrogliare da sé. La concettualità nasce prima delle opere, perché il discorso deriva dal dispositivo curatoriale. Qui sta l’importanza di Szeemann che abbandona la mostra a ‘composizioni’ curiose e caotiche, dense e aperte. Se si assume la mostra come un tutto, in maniera barocca, si capisce come la mostra sia riuscita nel 1969 ad allontanarsi dal display classico e museale, vigente allora nel mondo dell’arte moderna e contemporanea. Lavorando sulle attitudini e sui loro risultati improvvisati ed effimeri, ottiene infatti effetti poetici, inventati e scoperti in situ. In tal modo il piacere del concetto si traduce in conoscenza del piacere. Non si pone alcun criterio di convenienza solo di legame, che deriva da una reciproca familiarità tra gli artisti e il loro fare. Ricostruire questo campo di energia, con le sue varietà espressive, ha significato rivisitare un dispositivo che se anticamente era architettonico, come una cappella o una chiesa, qui era basato sulla varietà e sulla variabilità di una sintonia che non era concreta e muraria, ma basata su un’integrità esperienziale condivisa. Un intreccio di momenti lirici e drammatici che hanno prodotto un tutto dall’acutezza mirabile che commuove ancora oggi. E su tale ipotesi di insieme meravigliante che si è costruito il progetto, facendolo coincidere con un’assolutezza scientifica, capace di ricreare questo tempio effimero del fare arte nel 1969. Di fatto si è cercato di continuare lo studio degli ‘interventi’ globali degli artisti in un contesto che non è più la chiesa o il palazzo, ma la mostra che è diventata il luogo del nuovo splendore contemporaneo”. Si può dire che When Attitudes Become Form rappresenti l’ultimo anelito dello sconvolgimento e della trasgressione modernista, per cui cristallizzarlo in una situazione fuori del suo contesto storico, politico e culturale non rischia di dissolvere la radicalità dell’originale? Se al tempo le immagini di tale operazione hanno avuto un effetto sulla realtà e sull’articolarsi del linguaggio dell’arte, oggi non rischiano di trasformarsi in feticizzazione nostalgica di un’illusione, quindi di una debolezza? “È evidente che la mostra organizzata da Szeemann nel 1969 è stata un’apertura verso un’immaginazione libera quanto politicamente inutile: un buon proposito di un fare rappresentativo che si connetteva alle avanguardie del modernismo. Si può assumere quale gesto morale e critico verso le proposte tradizionali del fare arte, che respingeva la realtà solo per rappresentarla e sottoporla ad un processo mimetico. Le ricerche mostrate a Berna, come in Op Losse Schroeven, realizzata in contemporanea allo Stedelijk Museum di Amsterdam, che presero il nome di Land art, Process art, Arte povera, Conceptual art, erano un ulteriore tentativo di rivalutare la dimensione pragmatica del vedere e del sentire. Vale a dire un cambio di segno espresso nell’attenzione alle tecniche e ai materiali, per esaltare una concezione poetica rispetto a una contemplativa, in cui l’essere umano è spinto a immergersi e non semplicemente guardare. Basta osservare la documentazione che riguarda l’arrivo in scena del pubblico, per capire come tale arte tendesse a un coinvolgimento fisico e corporale. Naturalmente, tale porsi è stato visto, allora, come un eccesso di negatività e di trasgressione rispetto all’istituzione. Qualcosa di ingovernabile e senza regole, che spingeva verso una demitizzazione della sacralità della pittura e della scultura: un rifiuto delle forme classiche per un’esaltazione della dimensione informe – all’epoca definita anche anti-form – della marginalità artistica. Con il suo interesse per il carattere insignificante e concreto delle materie e delle cose l’esposizione del 1969 solennizzò il carattere fortuito e caotico dell’arte, la sua permeabilità a tutti i possibili linguaggi e a tutte le possibili materie, dal piombo all’acqua, dal fuoco alla cera, dalla margarina al tubo fluorescente, dal cuoio al feltro, dai vetri rotti al ghiaccio, dalla cenere al cotone, così come a tutti gli strumenti utili, non privilegiati, dalla pala al caterpillar, dal giornale al cartellone, dalla lettura al camminare… Da cui la de-sacralizzazione di una cultura visiva che si era identificata solo con il dipingere e lo scolpire come con la dislocazione o lo spiazzamento linguistici dell’oggetto trovato. È una celebrazione del significato dell’insignificante, della realtà che si pone in sintonia proprio con il carattere effimero e temporaneo di un esistere sociale e culturale: un doppio senza valore da contrapporre a una catastrofe dei valori passati. E la sanzione prima della presenza di fare rovinoso e frammentario, dissolto e fluido, contrario ad ogni uni-dimensionalità dell’arte”. Di fatto, il reenacting di WABF rischia di tramutare l’effetto di trasgressione in una proposta rassicurante. All’epoca, l’esibizione di scarti industriali e di materie performative e mutanti che bruciavano o si scioglievano per dare corpo ad altre entità tendevano a mettere in discussione la staticità quanto la sacralità dell’artefatto, quanto del luogo espositivo, la Kunsthalle Bern, tanto da sollevare le reazioni dei conservatori che costrinsero Szeemann a dimettersi. Oggi questo non può succedere, anzi questo strappo curatoriale ed artistico viene sacralizzato. Quello che era stato proposto come elusione della fissità e delle regolarità classica ora viene fissato e dissolto in un’accettazione senza riserve: un simulacro privo di effetti. Si può affermare che oggi la radicalità e la trasgressione legate al percorso del modernismo hanno trovato un luogo ed un posto, compresa il display catastrofico e caotico della mostra di Szeemann? Il remake veneziano è l’ultimo atto sublimante di una radicalità che è ormai obsoleta? “La messa in discussione, e la conseguente azione trasgressiva, esistono perché si pone un punto di partenza e di possibile alternativa rispetto ad una condizione preesistente. L’aspetto utopico di tale fare, che implicava un mondo linguistico altro, opposto o quanto meno diverso dal precedente, va ancorato alla situazione storica del momento, il biennio 1968-1969, quando ci si accorge che l’arte si è tramutata in una atto puramente decorativo. Seppure le ricerche sviluppatesi dal 1945 al 1964, dall Espressionismo astratto alla Pop art, avessero tentato di prendere in considerazione la dimensione solitaria e disperata dell’artista, la sua angoscia esistenziale e l’esperienza drammatica del vivere, travolto dalla tragedia della seconda guerra mondiale, come il dissolvimento del valore morale e rappresentativo dell’arte ormai scalzata e fagocitata dall’immaginario mediatico, dalla pubblicità al cartoons, tali proposizioni non erano riuscite a scalzare il valore decorativo dell’artefatto. Si ponevano come duplicati di un immaginario individuale e industriale, senza indebolire e screditare minimamente la pratica del fare, del mostrare, del comunicare e del consumare l’arte. Le attitudini prodotte e mostrate a Berna sottintendevano una scena espositiva che, occupando non solo i musei, ma le strade e gli spazi pubblici, riflettesse un’azione politica in cui tutti fossero coinvolti, artisti e spettatori, e di cui tutti dovevano prendere consapevolezza. È stata questa la vera illusione che rivela ancora il desiderio di una rivoluzione illuminista intrecciata al sogno di proseguire il discorso radicale delle avanguardie del modernismo. Certamente il remake di tale evento rischia, nella sua ripetizione, di esaltare un momento ideale ma al tempo stesso serve a far percepire, mediante l’avvicinamento al suo stato ‘originale’, la realtà di un mito che non è affidabile solo alla documentazione fotografica, ma all’esperienza di un entusiasmo e di un fervore artistico che chiedeva coinvolgimento. La resurrezione di When Attitudes Become Form mette in circolazione lo spettro di una radicalità che oggi non ha più effetto, perché l’arte non è più un’arma politica rispetto alle lotte reali. Affidandosi allo sguardo dell’oggi, tali proposte appaiono forse facili e irreali ma bisogna sottolineare che questa ipotetica sconfitta ha portato ad una nuova dimensione dell’immaginario artistico. Ad un’analisi retrospettiva, si può dire che la sua effettualità sul mondo sia stata infinitesimale, ma rimane in ogni caso un’influenza sul dissolvimento delle strutture tradizionali del sistema dell’arte. Se tutto questo oggi si è trasformato in business, per cui l’arte ha perso qualsiasi identità sociale per diventare merce simbolica ed economica, significa che il tentativo di scollamento dal compromesso consumistico è fallito. L’arte si è posta a rimorchio del mercato ed è arrivata al punto estremo di inefficacia nel suo rapporto critico e poetico con la società e la cultura. Di fatto, a contare nella costruzione di When Attitudes Become Form sono stati anche gli aggiustamenti spaziali che ogni artista ha attuato per convivere con gli altri. È un muoversi interattivo, piuttosto che la creazione di uno spazio privato ed indipendente. Non si poneva infatti alcuna ‘proprietà’ ambientale, ma la semplice territorialità dell’opera stessa. Era il lavoro a cercarsi linkage con gli altri, così da stabilire un rapporto empatico e condiviso. Simile legame ha un carattere comunitario, ampiamente documentato dalle fotografie in cui diversi artisti lavorano in contemporanea, nella stessa stanza, quasi fossero una ‘comune’, ed è tipico del momento storico, basato su una pratica di socialità che è politica quanto creativa. È qualcosa di simile ad un incontro casuale che produce al tempo stesso una confusione e una fusione. La mostra di Berna è stata quasi una formazione di proposizioni che, come in un incavo terrestre, hanno trovato il loro sviluppo scendendo dai soffitti o arrampicandosi alle pareti o trovando una dimensione gravitazionale a pavimento. Il senso vero della mostra di Szeemann è stato quello di mettere insieme un divenire indeterminato dell’arte così che si percepisse un continuo transito tra le opere, in modo che non fosse possibile isolare le caratteristiche individuali, ma l’energia d’insieme. È un momento interattivo e un mettersi ‘in rete’ che evidenzia il passaggio da uno all’altro, in piena attualità: la simultaneità e la coesistenza del presente artistico, che è anche sottolineata dal messa in mostra di gesti e di azioni corporali, dalla stesura di margarina di Joseph Beuys alla distesa di piombo fuso di Richard Serra all’accensione dei giunchi di Gilberto Zorio e alla rimozione fotografica di Ger van Elk. Per non parlare dell’arte come processo ed operazione in situ che cerca di superare il senso del prodotto confezionato e fabbricato a favore dell’operazione linguistica relativa ad una specifica collocazione e situazione, che non è all’interno dell’istituzione ma si immerge nel contrasto urbano, da Michael Heizer a Daniel Buren. Nasce una mostra che funziona come un vortice capace di travolgere lo spettatore, per metterlo in relazione diretta con il processo creativo. È un modo di sottoporre il pubblico a una forza vertiginosa che ne alteri la visione, così da perdersi in essa”. Prima di arrivare ad una soluzione che integrasse la ricostruzione di una vicenda radicale in un contesto attuale, completamente dominato da altri valori non solo linguistici, ma economici come si è proceduto per acquisire tutti i dati scientifici su cui lavorare ad una mappatura completa e precisa di quanto era avvenuto a Berna? “La ricerca si è sviluppata su diversi livelli, che includevano le fonti primarie dall’archivio di Szeemann, ora presso il Getty Institute di Los Angeles, e le testimonianze dirette degli artisti o i documenti reperibili nelle loro fondazioni, quanto le tracce fotografiche e scritte nella biblioteca della Kusthalle di Berna. Attraverso la raccolta dei diversi dati, che spesso hanno portato a conferme, quanto a sorprese, è iniziata la possibile mappatura delle opere in ogni singola stanza. A questo risultato ha contribuito enormemente la collaborazione con il Getty Institute, diretto da Thomas Gaehtgens, che attraverso l’attento studio condotto da Glenn Philips con il suo team su documenti, lettere e fotografie relative a Sezeemann e a When Attitudes Become Form ha permesso l’identificazione delle opere sia in mostra che non. Accanto a questa preziosa indagine sulle fonti curatoriali si è affiancata la ricerca nell’archivio della Kunsthalle, dove si sono trovati riscontri ed informazioni utili per ampliare la visione totale dell’evento, incluse le recensioni e le polemiche sollevate. Infine un ultimo arricchimento è venuto dagli artisti e dalle loro fondazioni che hanno fornito precisazioni sulle opere esposte e non. In generale la ricostruzione ha potuto contare su oltre un migliaio di fotografie, provenienti dagli archivi di Claudio Abate, Leonardo Bezzola, Balthasar Burkhard, Siegfried Kühn, Dölf Preisig, Harry Shunk e Albert Winkler, una raccolta quasi completa, e per la maggior parte inedita, di tutto quanto è stato registrato attraverso le immagini fotografiche. Queste sono state sottoposte ad un’accorta analisi e sono diventate fonti di scoperte e di novità, che hanno spesso arricchito la conoscenza anche degli stessi protagonisti, ampliandone i ricordi e le visioni. Sono venute alla luce opere e installazioni, mai menzionate né registrate sia nel catalogo di Berna sia nelle successive ricerche fatte da studiosi internazionali”. Una volta tracciata la mappa di tutte le opere in mostra e non, come si è proceduto per averle? Quali problemi hanno comportato i prestiti, una volta scoperto che l’opera è andata distrutta o dispersa ? Quale metodo espositivo è stato adottato per evidenziare le assenze? “Essendo una mostra che ha rappresentato un momento di rottura rispetto alla staticità e alla fissità del lavoro d’arte, immettendo un fattore performativo, per cui a volte l’opera mutava nel corso del tempo arrivando a distruggersi, è apparso immediatamente chiaro che a Venezia la possibilità di una ricostruzione totale e originale sarebbe stata impossibile. Tuttavia si è proceduto cercando di avvicinarci al massimo risultato con la consapevolezza che il revisiting avrebbe dovuto basarsi su due realtà: la prima consistente nel reperimento delle opere originali già acquisite da raccolte private e pubbliche, ad esempio i rintracciabili lavori di Carl Andre, Claes Oldenburg, Bruce Nauman, Eva Hesse, Giovanni Anselmo, Hanne Darboven, Reiner Ruthenbeck, Marinus Boezem e Richard Tuttle, che insieme ai rifacimenti – la seconda realtà – da attuarsi invece con la collaborazione degli artisti o delle loro fondazioni che nel loro insieme avrebbero permesso la ricostruzione dell’impatto visivo nelle singole stanze, con la relazione tra volumi e materie. Il primo compito è stato assolto nella maniera tradizionale con richieste a musei e collezionisti, mentre la seconda ha richiesto un ritorno alla fonte, in questo caso l’autore stesso o il suo archivio per chiedere se era possibile una riproposta, sorta di copia espositiva o replica del lavoro: quest’ultimo caso ha sollevato diverse problematiche che hanno coinvolto gli artisti quanto i musei e i collezionisti. Tuttavia alcuni artisti non riconoscono oggi il valore di certi lavori del 1969 o li ritengono ancorati nel loro passato e non più esponibili. Se addirittura non li rinnegano come errori di gioventù o idee che non condividono più. È cambiata così tanto l’arte dal 1969? E quale approccio ha seguito in questi casi ? Nel ricostruire questa mostra ha più peso il documento storico o il rispetto del volere soggettivo dell’artista oggi a quaranta anni di distanza? “La traslazione da un momento all’altro significa un trasporto nel tempo, è una resurrezione di cariche espressive ed emotive che sono passate. Siccome non avvengono attraverso la memoria ma mediante il remake si riproducono concretamente e diventano azioni presenti, quindi una carica che era trascorsa viene riproposta come attuale. Per alcuni è difficile riproporre impulsi e motivazioni già provate, per altri non c’è alcunché di nuovo né di differente, perché il fattore attivo dell’opera è tuttora in corso ed è ancora effettiva. In un caso la rievocazione riflette acquisizioni già elaborate, ma troppo sperimentali o giovanili, per altri è già una definizione di un percorso che è testimonianza di una dichiarazione linguistica anticipatrice ma già matura. Certamente la rielaborazione odierna non corrisponde più ad un’attitudine che tendeva ad oltrepassare il linguaggio tradizionale, ma rischia di essere un ritorno al passato. Tuttavia per capire il presente bisogna far riferimento alle trasformazioni già attuate, anche se appaiono o sono errori. Dopo il 1969 l’arte si è lentamente adeguata alla società dei consumi e dell’informazione di massa, per cui la primarietà delle materie e dei gesti ha lasciato campo alla processualità industriale e mercantile. Lentamente l’operazione artistica si è tramutata in un prodotto prefabbricato ed apparente: una costruzione speculare e narrativa del reale. Si è attuata una moltiplicazione dell’esistente che ha appiattito le forme e il discorso visivi radicali e trasgressivi. Si è creato uno spettacolo dell’arte per riproporne una dimensione decorativa ed esibizionista, mentre l’arte scaturita dal 1968 aspirava ad essere de-realizzante ed iconoclasta. Di fatto l’aspirazione di When Attitudes Become Form è stata quella di abolire il rituale tradizionale del mostrare un’opera a favore di un’esperienza del suo processo di costruzione e di transito dinnanzi allo sguardo dell’osservatore. Qual è il ruolo del curatore in una ripetizione, quasi identica come ambienti e opere, di una mostra in origine curata da un altro? Esiste una sorta di ‘copyright’ nel concepire la curatela di una mostra ? Se sì quanto la mostra intesa come progetto autoriale s’avvicina ad un’opera d’arte? Nel rifare la mostra come WABF è necessario assumere lo stesso ruolo del curatore, che incontrò artisti e protagonisti oppure la rivisitazione si può fare in modo automatico, puramente tecnico, ripetendo azioni e decisioni? “Se si assume When Attitudes Become Form come un oggetto d’uso storico e linguistico, confezionato nel 1969, innalzando l’insieme a unità compatta e definita, la prima operazione curatoriale è quella di restaurarne la totalità, mettendo insieme i frammenti (i singoli lavori d’arte) dislocati e dispersi. È un processo che inizialmente è indifferente alle parti che compongono il tutto. L’intento non è suscitare nuove associazioni o assegnare nuove collocazioni, ma praticare una ricostruzione senza ridisegnarla né modificarla, usando solo gli smembramenti. È un fissarsi su una struttura rigida, ordinata e armonica in cui le relazioni tra le componenti formava un sistema chiuso. Pertanto, il ritrovamento dei residui ha quale fine di ricomporre e mettere insieme il ‘testo’ narrativo steso da Szeemann in collaborazione con gli artisti stessi, immesso tra le ‘pagine’ architettoniche, bianche, della Kunsthalle di Berna. La raccolta di queste parti, spesso effimere e disperse, insieme ai residui che sono entrati nei musei e nelle collezioni, è tesa a ricreare un puzzle o una costellazione identificabile come una totalità, all’epoca pensata quale un nuovo sistema di fare, di mostrare e di pensare l’arte. Tale processo è coinciso, quindi, con un vero e proprio restauro di un prodotto dell’attività creativa. Innanzitutto si è dovuto riconoscere il valore dell’intera operazione, come è stato ammesso da tutti gli studiosi d’arte contemporanea, poi si è identificata la sua materia cioè la sua consistenza fisica, seguita dal riconoscimento estetico e storico che ha contribuito alla necessità di trasmetterla nel futuro, quale fatto fondante di una vicenda primaria. Tale molteplice consistenza è data dall’intreccio tra architettura, opere, relazioni e tutte queste componenti sono state studiate attraverso un metodo scientifico, prima in relazione al tempo ed al luogo in cui è stata realizzata, a Berna, e poi in rapporto al presente storico e alla sua nuova collocazione a Venezia. È fondamentale indagare l’unità dell’esposizione, sia da un punto di vista qualitativo che quantitativo cercando di avvicinarci al suo intero. Il passaggio successivo è stato di verificare fino a che punto fosse possibile la ricostruzione di tale unità. Ciò è avvenuto mettendo insieme tutte le informazioni possibili sui singoli tasselli del mosaico espositivo, capendo anche dove ci sarebbero le lacune e i vuoti che potevano riguardare il materiale che componeva la mostra. Che tipo di intervento sarebbe stato necessario per colmarle? Si sarebbero ripristinate con un inserimento di simulazioni contemporanee, oppure si sarebbe lasciato un vuoto, cercando di segnalare un’assenza? O ancora in maniera più radicale sarebbe stato necessario costruire immagini in vitro, molto vicine ad un ‘falso’, quasi sempre fallimentare? Quale sarebbe stata la legittimità di un tale intervento sostitutivo o informativo? Si sarebbe lavorato caso per caso o sulle singole accumulazioni, stanza per stanza? Come risolvere tutte queste problematiche che avrebbero riguardato la visione del curatore, passata e presente, con la consapevolezza che il ruolo del curatore che non è solo quello di assemblatore di nuovi insiemi, ma anche di un ricostruttore di contesti, ambientali e culturali, dove ricostruire da buon conservatore della storia le tracce passate? A tali problematiche sollevate dal remake o dal revisiting di When Attitudes Become Form si è tentato di rispondere creando a Venezia un dialogo tra il curatore-restauratorericostruttore delle cose d’arte e l’architetto Rem Koolhaas e l’artista Thomas Demand, al fine di creare una prospettiva multipla e plurilinguistica capace di affrontare le diverse risposte architettoniche e visuali. Insieme si sono cercate e trovate soluzioni sul raccordo temporale e spaziale tra l’evento del 1969 e la decisione di un suo remake e di un suo reenacting. È sorto qui il problema della cornice che ospitava nel 1969 la mostra, totalmente diversa da quella veneziana nel 2013: la necessità di definire un trapasso tra lo spazio fisico in cui era immersa nella Kunsthalle e nella Schulwarte a Berna e quello del palazzo settecentesco di Ca’ Corner della Regina a Venezia. Due spazialità diverse che avrebbero dovuto interagire con l’oggetto When Attitudes Become Form. Quale possibile raccordo o disaccordo si deve trovare tra le due temporalità e le due spazialità? Inventarne un terzo che riguarda il godimento attuale dell’intera opera, così che risulti facile da percepire ad un pubblico attuale, oppure lavorare su uno strappo ambientale e temporale? La differenza è sostanziale e riguarda il rapporto con l’osservatore, il pubblico. Siccome qualsiasi architettura ha un valore spaziale diverso, rimuovere quella di Berna per utilizzare quella di Venezia sarebbe stata un’operazione di estrinsecazione diversa dalla formulazione storica. Annullare invece la presenza storico-muraria di Venezia a favore di una sequenza di stanze white cube avrebbe significato immettere l’insieme curato da Szeemann in un limbo, senza ancoraggi o referenze visive ed esperienziali alla situazione presente. Si è optato per una spazialità che non risolvesse il discorso a favore di una o dell’altra architettura, forzando la frattura temporale e spaziale. Il risultato è stato di creare un continuum dove il problema architettonico altera ed è alterato dall’innesto tra Kunsthalle, Schulwarte e Ca’ Corner della Regina. Non si è tentato di realizzare alcun falso criterio di continuità o di integrazione stilistica, ma si è lavorato per contrasto, immettendo in modo eclatante gli spazi moderni di Berna dentro il contenitore storico di Venezia. E, a ben vedere, entrambe le situazioni di fatto fanno parte della trasmissione dell’opera When Attitudes Become Form. Una volta trovata la cornice corretta per evidenziare la complessità di una ricostruzione, s’è passati al recupero e alla ricostruzione, quando necessario, delle figure – cioè le opere – che componevano il ‘racconto’ per immagini di Szeemann. Il lavoro del curatore a Venezia è stato dunque quello di negare la propria soggettività di assemblatore di mostre per ricostruire e restaurare un testo di un altro curatore. Questa spersonalizzazione è un tentativo di far sì che relazione oggettiva e soggettiva con la cosa esposta non siano più considerati antinomici. Il compito finale è stato quello di evocare un sorprendente prodotto d’epoca, d’identificarsi con esso, senza assumerlo come romantica e nostalgica rovina dell’altrui e proprio tempo passato. Una volta ricostruito come significante privilegiato di una serie di significati instabili e aleatori, entrare in rapporto diacronico con esso per suscitare una sensibilità attuale. E siccome questo oggetto del 1969, ricostruito e restaurato, necessitava nel 2013 di un nuovo rapporto con l’attualità, lo si è inserito in una zona di sospensione, un territorio estraneo alla sua storia e alla sua cronologia – Ca’ Corner della Regina – con l’idea di rilanciare la geografia e la storia del suo immaginario. Di fatto, inserirlo come un corpo irritante in un dentro che potesse provocare una secrezione di difesa: la sua nuova perla”. Ora che When Attitudes Become Form si è aperta a Venezia, in Cà Corner della Regina, cosa è cambiato nel suo percorso di storico e di curatore? “Rivisitare dal vero un evento che avevo vissuto in diretta a Berna e ricostruirlo, mi ha confermato la potenza del momento storico sia sul piano del linguaggio artistico che del procedere del curatore. Essendo una rivisitazione condotta in occasione della Biennale di Venezia 2013, quindi da collocarsi in un contesto non neutro, ma definito da altre proposte curatoriali – quella di Massimiliano Gioni, con il suo Palazzo Enciclopedico, e quelle delle decine e decine di curatori che sono intervenuti nelle mostre collaterali – ho capito che il pericolo dell’arte contemporanea e del suo modo di comunicare sta nel ridursi a un’immagine sottile e senza peso, capace di scorrere fluidamente, senza ancoraggio sulla parete bianca, la quale può essere metafora di un museo, di una galleria e di una fiera. Si è perso il contatto e, diciamo, il dialogo con il contesto, e l’arte si è ridotta ad un prodotto senza peso e energia, fondamentalmente un decoro temporaneo di un possibile cubo bianco, simbolico di qualsiasi contesto abitativo ospitante. Sento quindi sempre più l’esigenza di ancorare l’arte a un luogo o un territorio, invitandola a mettere le radici, senza dimenticare la storia. Ad esempio la cancellazione dell’architettura cinquecentesca dell’Arsenale, condotta attraverso la costruzione di percorsi dalle bianche pareti in legno o in cartongesso, è indice di un’astrazione ambientale, legata alla messa in un limbo dell’arte. When Attitudes Become Form era invece un tutto che il mercato ha parimenti spezzato, ma si capisce la sua forza ricomponendolo. I frammenti non formano una statua o un vaso, sono rovine, e qui sta il rischio del presente contemporaneo di trasformarsi in rovina. All’epoca l’istanza di fare arte non era tesa ad una pratica edonistica né didattica né economica, per cui le cose potevano andare distrutte o disperse, essere inutili e non funzionali. A contare era la prova di un’energia mentale e fisica, comportamentale ed emotiva che portava alla costruzione di ‘figure’ immaginarie senza alcun fine se non il piacere di esprimersi. L’aspirazione all’idea e della sua soddisfazione cercava di avere effetto sul reale, non solo in cambio della sopravvivenza, ma dell’azione sul pubblico, che allora si definiva ‘politica’: rifiuto del diletto e del decoro a favore di un produrre energetico che sollecitasse domande”.
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di Germano Celant - [gallery ids="9601,9602,9603,9604,9605,9606,9607,9608"]Qual è stato l’impianto teorico e stiocro che ha sostenuto la rivisitazione e la ricostruzione ,”così com’era”, della mostra curata da Harald Szeemann nel 1969 alla Kunsthalle di Berna? “È sempre la lettura della storia dell’arte a sostenere un progetto. Se si pensa alla logica che ha sostenuto la comunicazione artistica nel corso dei secoli passati si può verificare che – in generale – fino all’Ottocento gli interventi degli artisti erano eseguiti in relazione o in situazione, vale a dire rispondevano a una commissione o a un contesto che veniva loro suggerito od offerto. Quindi le opere erano messe in relazione o erano situate in un territorio ambientale o informativo che era scelto dialetticamente tra committente e artista stesso. Per un lungo periodo l’arte, che non aspira a circolare liberamente come prodotto di scambio e di consumo, si nutre di osmosi con il contesto, dalla caverna al palazzo, dalle pareti al soffitto, e forma un unicum indivisibile. Tale dialogo si spezza quando nell’Ottocento, una volta scomparso il mecenatismo dei nobili, le opere si devono adeguare ad un mercato borghese che si nutre di artefatti disponibili alla circolazione, nel 1863 si creano i Salons. Sono queste le nuove ambientazioni degli artisti ‘non integrati’, vale a dire dei ‘refusés’ e degli ‘indipendenti’ in cui sono raccolti non più integrati, ma appesi ai muri i lavori artistici da mettere in vendita. Tale salto contestuale che sradica l’intervento dall’inserimento murario crea un altro tipo di relazione e di situazione, quella tra le opere stesse e il loro allestimento. È un passaggio che non è mai stato studiato completamente, perché mancano le tracce della logica con cui gli stessi artisti entravano in relazione tra di loro, ponendo i quadri sopra velluti o sculture su piedestalli, e le poche fotografie dell’epoca non permettono una tale ricostruzione. Tuttavia l’input dell’artista sul modo di vedere la sua opera doveva essere importante e controllato, non affidato al caso o ad altri, come mercanti. E se lo era, anche questo elemento può essere soggetto di studio. Tuttavia a partire dal Novecento, le esposizioni sono sempre più controllate dagli artisti stessi, che le adottano per lanciare i loro movimenti linguistici, da Der Blaue Reiter a Monaco nel 1911 a Les Peintres Futuristes Italiens a Parigi nel 1912. Sono momenti di installazione a cui gli artisti partecipano arrivando a creare insiemi dirompenti e sorprendenti, come The First International Dada Fair, a Berlino nel 1920 e Esposition Internationale du Surréalisme a Parigi nel 1938. Si potrebbe affermare che tali insieme diventano un dispositivo dove l’apparente confusione diventa una fusione visuale che argomenta la poetica del gruppo. Il fatto di organizzare le cose o gli oggetti, le fotografie o i materiali secondo un accadere, che sembra fuori di ogni aspettativa, suscita interrogativi e domande. È la stessa cosa successa con When Attitudes Become Form, dove le opere si devono considerare in funzione dell’insieme. Qui ogni entità singola sembra scomparire a favore di un intreccio tra le parti, qualcosa che lo spettatore deve sbrogliare da sé. La concettualità nasce prima delle opere, perché il discorso deriva dal dispositivo curatoriale. Qui sta l’importanza di Szeemann che abbandona la mostra a ‘composizioni’ curiose e caotiche, dense e aperte. Se si assume la mostra come un tutto, in maniera barocca, si capisce come la mostra sia riuscita nel 1969 ad allontanarsi dal display classico e museale, vigente allora nel mondo dell’arte moderna e contemporanea. Lavorando sulle attitudini e sui loro risultati improvvisati ed effimeri, ottiene infatti effetti poetici, inventati e scoperti in situ. In tal modo il piacere del concetto si traduce in conoscenza del piacere. Non si pone alcun criterio di convenienza solo di legame, che deriva da una reciproca familiarità tra gli artisti e il loro fare. Ricostruire questo campo di energia, con le sue varietà espressive, ha significato rivisitare un dispositivo che se anticamente era architettonico, come una cappella o una chiesa, qui era basato sulla varietà e sulla variabilità di una sintonia che non era concreta e muraria, ma basata su un’integrità esperienziale condivisa. Un intreccio di momenti lirici e drammatici che hanno prodotto un tutto dall’acutezza mirabile che commuove ancora oggi. E su tale ipotesi di insieme meravigliante che si è costruito il progetto, facendolo coincidere con un’assolutezza scientifica, capace di ricreare questo tempio effimero del fare arte nel 1969. Di fatto si è cercato di continuare lo studio degli ‘interventi’ globali degli artisti in un contesto che non è più la chiesa o il palazzo, ma la mostra che è diventata il luogo del nuovo splendore contemporaneo”. Si può dire che When Attitudes Become Form rappresenti l’ultimo anelito dello sconvolgimento e della trasgressione modernista, per cui cristallizzarlo in una situazione fuori del suo contesto storico, politico e culturale non rischia di dissolvere la radicalità dell’originale? Se al tempo le immagini di tale operazione hanno avuto un effetto sulla realtà e sull’articolarsi del linguaggio dell’arte, oggi non rischiano di trasformarsi in feticizzazione nostalgica di un’illusione, quindi di una debolezza? “È evidente che la mostra organizzata da Szeemann nel 1969 è stata un’apertura verso un’immaginazione libera quanto politicamente inutile: un buon proposito di un fare rappresentativo che si connetteva alle avanguardie del modernismo. Si può assumere quale gesto morale e critico verso le proposte tradizionali del fare arte, che respingeva la realtà solo per rappresentarla e sottoporla ad un processo mimetico. Le ricerche mostrate a Berna, come in Op Losse Schroeven, realizzata in contemporanea allo Stedelijk Museum di Amsterdam, che presero il nome di Land art, Process art, Arte povera, Conceptual art, erano un ulteriore tentativo di rivalutare la dimensione pragmatica del vedere e del sentire. Vale a dire un cambio di segno espresso nell’attenzione alle tecniche e ai materiali, per esaltare una concezione poetica rispetto a una contemplativa, in cui l’essere umano è spinto a immergersi e non semplicemente guardare. Basta osservare la documentazione che riguarda l’arrivo in scena del pubblico, per capire come tale arte tendesse a un coinvolgimento fisico e corporale. Naturalmente, tale porsi è stato visto, allora, come un eccesso di negatività e di trasgressione rispetto all’istituzione. Qualcosa di ingovernabile e senza regole, che spingeva verso una demitizzazione della sacralità della pittura e della scultura: un rifiuto delle forme classiche per un’esaltazione della dimensione informe – all’epoca definita anche anti-form – della marginalità artistica. Con il suo interesse per il carattere insignificante e concreto delle materie e delle cose l’esposizione del 1969 solennizzò il carattere fortuito e caotico dell’arte, la sua permeabilità a tutti i possibili linguaggi e a tutte le possibili materie, dal piombo all’acqua, dal fuoco alla cera, dalla margarina al tubo fluorescente, dal cuoio al feltro, dai vetri rotti al ghiaccio, dalla cenere al cotone, così come a tutti gli strumenti utili, non privilegiati, dalla pala al caterpillar, dal giornale al cartellone, dalla lettura al camminare… Da cui la de-sacralizzazione di una cultura visiva che si era identificata solo con il dipingere e lo scolpire come con la dislocazione o lo spiazzamento linguistici dell’oggetto trovato. È una celebrazione del significato dell’insignificante, della realtà che si pone in sintonia proprio con il carattere effimero e temporaneo di un esistere sociale e culturale: un doppio senza valore da contrapporre a una catastrofe dei valori passati. E la sanzione prima della presenza di fare rovinoso e frammentario, dissolto e fluido, contrario ad ogni uni-dimensionalità dell’arte”. Di fatto, il reenacting di WABF rischia di tramutare l’effetto di trasgressione in una proposta rassicurante. All’epoca, l’esibizione di scarti industriali e di materie performative e mutanti che bruciavano o si scioglievano per dare corpo ad altre entità tendevano a mettere in discussione la staticità quanto la sacralità dell’artefatto, quanto del luogo espositivo, la Kunsthalle Bern, tanto da sollevare le reazioni dei conservatori che costrinsero Szeemann a dimettersi. Oggi questo non può succedere, anzi questo strappo curatoriale ed artistico viene sacralizzato. Quello che era stato proposto come elusione della fissità e delle regolarità classica ora viene fissato e dissolto in un’accettazione senza riserve: un simulacro privo di effetti. Si può affermare che oggi la radicalità e la trasgressione legate al percorso del modernismo hanno trovato un luogo ed un posto, compresa il display catastrofico e caotico della mostra di Szeemann? Il remake veneziano è l’ultimo atto sublimante di una radicalità che è ormai obsoleta? “La messa in discussione, e la conseguente azione trasgressiva, esistono perché si pone un punto di partenza e di possibile alternativa rispetto ad una condizione preesistente. L’aspetto utopico di tale fare, che implicava un mondo linguistico altro, opposto o quanto meno diverso dal precedente, va ancorato alla situazione storica del momento, il biennio 1968-1969, quando ci si accorge che l’arte si è tramutata in una atto puramente decorativo. Seppure le ricerche sviluppatesi dal 1945 al 1964, dall Espressionismo astratto alla Pop art, avessero tentato di prendere in considerazione la dimensione solitaria e disperata dell’artista, la sua angoscia esistenziale e l’esperienza drammatica del vivere, travolto dalla tragedia della seconda guerra mondiale, come il dissolvimento del valore morale e rappresentativo dell’arte ormai scalzata e fagocitata dall’immaginario mediatico, dalla pubblicità al cartoons, tali proposizioni non erano riuscite a scalzare il valore decorativo dell’artefatto. Si ponevano come duplicati di un immaginario individuale e industriale, senza indebolire e screditare minimamente la pratica del fare, del mostrare, del comunicare e del consumare l’arte. Le attitudini prodotte e mostrate a Berna sottintendevano una scena espositiva che, occupando non solo i musei, ma le strade e gli spazi pubblici, riflettesse un’azione politica in cui tutti fossero coinvolti, artisti e spettatori, e di cui tutti dovevano prendere consapevolezza. È stata questa la vera illusione che rivela ancora il desiderio di una rivoluzione illuminista intrecciata al sogno di proseguire il discorso radicale delle avanguardie del modernismo. Certamente il remake di tale evento rischia, nella sua ripetizione, di esaltare un momento ideale ma al tempo stesso serve a far percepire, mediante l’avvicinamento al suo stato ‘originale’, la realtà di un mito che non è affidabile solo alla documentazione fotografica, ma all’esperienza di un entusiasmo e di un fervore artistico che chiedeva coinvolgimento. La resurrezione di When Attitudes Become Form mette in circolazione lo spettro di una radicalità che oggi non ha più effetto, perché l’arte non è più un’arma politica rispetto alle lotte reali. Affidandosi allo sguardo dell’oggi, tali proposte appaiono forse facili e irreali ma bisogna sottolineare che questa ipotetica sconfitta ha portato ad una nuova dimensione dell’immaginario artistico. Ad un’analisi retrospettiva, si può dire che la sua effettualità sul mondo sia stata infinitesimale, ma rimane in ogni caso un’influenza sul dissolvimento delle strutture tradizionali del sistema dell’arte. Se tutto questo oggi si è trasformato in business, per cui l’arte ha perso qualsiasi identità sociale per diventare merce simbolica ed economica, significa che il tentativo di scollamento dal compromesso consumistico è fallito. L’arte si è posta a rimorchio del mercato ed è arrivata al punto estremo di inefficacia nel suo rapporto critico e poetico con la società e la cultura. Di fatto, a contare nella costruzione di When Attitudes Become Form sono stati anche gli aggiustamenti spaziali che ogni artista ha attuato per convivere con gli altri. È un muoversi interattivo, piuttosto che la creazione di uno spazio privato ed indipendente. Non si poneva infatti alcuna ‘proprietà’ ambientale, ma la semplice territorialità dell’opera stessa. Era il lavoro a cercarsi linkage con gli altri, così da stabilire un rapporto empatico e condiviso. Simile legame ha un carattere comunitario, ampiamente documentato dalle fotografie in cui diversi artisti lavorano in contemporanea, nella stessa stanza, quasi fossero una ‘comune’, ed è tipico del momento storico, basato su una pratica di socialità che è politica quanto creativa. È qualcosa di simile ad un incontro casuale che produce al tempo stesso una confusione e una fusione. La mostra di Berna è stata quasi una formazione di proposizioni che, come in un incavo terrestre, hanno trovato il loro sviluppo scendendo dai soffitti o arrampicandosi alle pareti o trovando una dimensione gravitazionale a pavimento. Il senso vero della mostra di Szeemann è stato quello di mettere insieme un divenire indeterminato dell’arte così che si percepisse un continuo transito tra le opere, in modo che non fosse possibile isolare le caratteristiche individuali, ma l’energia d’insieme. È un momento interattivo e un mettersi ‘in rete’ che evidenzia il passaggio da uno all’altro, in piena attualità: la simultaneità e la coesistenza del presente artistico, che è anche sottolineata dal messa in mostra di gesti e di azioni corporali, dalla stesura di margarina di Joseph Beuys alla distesa di piombo fuso di Richard Serra all’accensione dei giunchi di Gilberto Zorio e alla rimozione fotografica di Ger van Elk. Per non parlare dell’arte come processo ed operazione in situ che cerca di superare il senso del prodotto confezionato e fabbricato a favore dell’operazione linguistica relativa ad una specifica collocazione e situazione, che non è all’interno dell’istituzione ma si immerge nel contrasto urbano, da Michael Heizer a Daniel Buren. Nasce una mostra che funziona come un vortice capace di travolgere lo spettatore, per metterlo in relazione diretta con il processo creativo. È un modo di sottoporre il pubblico a una forza vertiginosa che ne alteri la visione, così da perdersi in essa”. Prima di arrivare ad una soluzione che integrasse la ricostruzione di una vicenda radicale in un contesto attuale, completamente dominato da altri valori non solo linguistici, ma economici come si è proceduto per acquisire tutti i dati scientifici su cui lavorare ad una mappatura completa e precisa di quanto era avvenuto a Berna? “La ricerca si è sviluppata su diversi livelli, che includevano le fonti primarie dall’archivio di Szeemann, ora presso il Getty Institute di Los Angeles, e le testimonianze dirette degli artisti o i documenti reperibili nelle loro fondazioni, quanto le tracce fotografiche e scritte nella biblioteca della Kusthalle di Berna. Attraverso la raccolta dei diversi dati, che spesso hanno portato a conferme, quanto a sorprese, è iniziata la possibile mappatura delle opere in ogni singola stanza. A questo risultato ha contribuito enormemente la collaborazione con il Getty Institute, diretto da Thomas Gaehtgens, che attraverso l’attento studio condotto da Glenn Philips con il suo team su documenti, lettere e fotografie relative a Sezeemann e a When Attitudes Become Form ha permesso l’identificazione delle opere sia in mostra che non. Accanto a questa preziosa indagine sulle fonti curatoriali si è affiancata la ricerca nell’archivio della Kunsthalle, dove si sono trovati riscontri ed informazioni utili per ampliare la visione totale dell’evento, incluse le recensioni e le polemiche sollevate. Infine un ultimo arricchimento è venuto dagli artisti e dalle loro fondazioni che hanno fornito precisazioni sulle opere esposte e non. In generale la ricostruzione ha potuto contare su oltre un migliaio di fotografie, provenienti dagli archivi di Claudio Abate, Leonardo Bezzola, Balthasar Burkhard, Siegfried Kühn, Dölf Preisig, Harry Shunk e Albert Winkler, una raccolta quasi completa, e per la maggior parte inedita, di tutto quanto è stato registrato attraverso le immagini fotografiche. Queste sono state sottoposte ad un’accorta analisi e sono diventate fonti di scoperte e di novità, che hanno spesso arricchito la conoscenza anche degli stessi protagonisti, ampliandone i ricordi e le visioni. Sono venute alla luce opere e installazioni, mai menzionate né registrate sia nel catalogo di Berna sia nelle successive ricerche fatte da studiosi internazionali”. Una volta tracciata la mappa di tutte le opere in mostra e non, come si è proceduto per averle? Quali problemi hanno comportato i prestiti, una volta scoperto che l’opera è andata distrutta o dispersa ? Quale metodo espositivo è stato adottato per evidenziare le assenze? “Essendo una mostra che ha rappresentato un momento di rottura rispetto alla staticità e alla fissità del lavoro d’arte, immettendo un fattore performativo, per cui a volte l’opera mutava nel corso del tempo arrivando a distruggersi, è apparso immediatamente chiaro che a Venezia la possibilità di una ricostruzione totale e originale sarebbe stata impossibile. Tuttavia si è proceduto cercando di avvicinarci al massimo risultato con la consapevolezza che il revisiting avrebbe dovuto basarsi su due realtà: la prima consistente nel reperimento delle opere originali già acquisite da raccolte private e pubbliche, ad esempio i rintracciabili lavori di Carl Andre, Claes Oldenburg, Bruce Nauman, Eva Hesse, Giovanni Anselmo, Hanne Darboven, Reiner Ruthenbeck, Marinus Boezem e Richard Tuttle, che insieme ai rifacimenti – la seconda realtà – da attuarsi invece con la collaborazione degli artisti o delle loro fondazioni che nel loro insieme avrebbero permesso la ricostruzione dell’impatto visivo nelle singole stanze, con la relazione tra volumi e materie. Il primo compito è stato assolto nella maniera tradizionale con richieste a musei e collezionisti, mentre la seconda ha richiesto un ritorno alla fonte, in questo caso l’autore stesso o il suo archivio per chiedere se era possibile una riproposta, sorta di copia espositiva o replica del lavoro: quest’ultimo caso ha sollevato diverse problematiche che hanno coinvolto gli artisti quanto i musei e i collezionisti. Tuttavia alcuni artisti non riconoscono oggi il valore di certi lavori del 1969 o li ritengono ancorati nel loro passato e non più esponibili. Se addirittura non li rinnegano come errori di gioventù o idee che non condividono più. È cambiata così tanto l’arte dal 1969? E quale approccio ha seguito in questi casi ? Nel ricostruire questa mostra ha più peso il documento storico o il rispetto del volere soggettivo dell’artista oggi a quaranta anni di distanza? “La traslazione da un momento all’altro significa un trasporto nel tempo, è una resurrezione di cariche espressive ed emotive che sono passate. Siccome non avvengono attraverso la memoria ma mediante il remake si riproducono concretamente e diventano azioni presenti, quindi una carica che era trascorsa viene riproposta come attuale. Per alcuni è difficile riproporre impulsi e motivazioni già provate, per altri non c’è alcunché di nuovo né di differente, perché il fattore attivo dell’opera è tuttora in corso ed è ancora effettiva. In un caso la rievocazione riflette acquisizioni già elaborate, ma troppo sperimentali o giovanili, per altri è già una definizione di un percorso che è testimonianza di una dichiarazione linguistica anticipatrice ma già matura. Certamente la rielaborazione odierna non corrisponde più ad un’attitudine che tendeva ad oltrepassare il linguaggio tradizionale, ma rischia di essere un ritorno al passato. Tuttavia per capire il presente bisogna far riferimento alle trasformazioni già attuate, anche se appaiono o sono errori. Dopo il 1969 l’arte si è lentamente adeguata alla società dei consumi e dell’informazione di massa, per cui la primarietà delle materie e dei gesti ha lasciato campo alla processualità industriale e mercantile. Lentamente l’operazione artistica si è tramutata in un prodotto prefabbricato ed apparente: una costruzione speculare e narrativa del reale. Si è attuata una moltiplicazione dell’esistente che ha appiattito le forme e il discorso visivi radicali e trasgressivi. Si è creato uno spettacolo dell’arte per riproporne una dimensione decorativa ed esibizionista, mentre l’arte scaturita dal 1968 aspirava ad essere de-realizzante ed iconoclasta. Di fatto l’aspirazione di When Attitudes Become Form è stata quella di abolire il rituale tradizionale del mostrare un’opera a favore di un’esperienza del suo processo di costruzione e di transito dinnanzi allo sguardo dell’osservatore. Qual è il ruolo del curatore in una ripetizione, quasi identica come ambienti e opere, di una mostra in origine curata da un altro? Esiste una sorta di ‘copyright’ nel concepire la curatela di una mostra ? Se sì quanto la mostra intesa come progetto autoriale s’avvicina ad un’opera d’arte? Nel rifare la mostra come WABF è necessario assumere lo stesso ruolo del curatore, che incontrò artisti e protagonisti oppure la rivisitazione si può fare in modo automatico, puramente tecnico, ripetendo azioni e decisioni? “Se si assume When Attitudes Become Form come un oggetto d’uso storico e linguistico, confezionato nel 1969, innalzando l’insieme a unità compatta e definita, la prima operazione curatoriale è quella di restaurarne la totalità, mettendo insieme i frammenti (i singoli lavori d’arte) dislocati e dispersi. È un processo che inizialmente è indifferente alle parti che compongono il tutto. L’intento non è suscitare nuove associazioni o assegnare nuove collocazioni, ma praticare una ricostruzione senza ridisegnarla né modificarla, usando solo gli smembramenti. È un fissarsi su una struttura rigida, ordinata e armonica in cui le relazioni tra le componenti formava un sistema chiuso. Pertanto, il ritrovamento dei residui ha quale fine di ricomporre e mettere insieme il ‘testo’ narrativo steso da Szeemann in collaborazione con gli artisti stessi, immesso tra le ‘pagine’ architettoniche, bianche, della Kunsthalle di Berna. La raccolta di queste parti, spesso effimere e disperse, insieme ai residui che sono entrati nei musei e nelle collezioni, è tesa a ricreare un puzzle o una costellazione identificabile come una totalità, all’epoca pensata quale un nuovo sistema di fare, di mostrare e di pensare l’arte. Tale processo è coinciso, quindi, con un vero e proprio restauro di un prodotto dell’attività creativa. Innanzitutto si è dovuto riconoscere il valore dell’intera operazione, come è stato ammesso da tutti gli studiosi d’arte contemporanea, poi si è identificata la sua materia cioè la sua consistenza fisica, seguita dal riconoscimento estetico e storico che ha contribuito alla necessità di trasmetterla nel futuro, quale fatto fondante di una vicenda primaria. Tale molteplice consistenza è data dall’intreccio tra architettura, opere, relazioni e tutte queste componenti sono state studiate attraverso un metodo scientifico, prima in relazione al tempo ed al luogo in cui è stata realizzata, a Berna, e poi in rapporto al presente storico e alla sua nuova collocazione a Venezia. È fondamentale indagare l’unità dell’esposizione, sia da un punto di vista qualitativo che quantitativo cercando di avvicinarci al suo intero. Il passaggio successivo è stato di verificare fino a che punto fosse possibile la ricostruzione di tale unità. Ciò è avvenuto mettendo insieme tutte le informazioni possibili sui singoli tasselli del mosaico espositivo, capendo anche dove ci sarebbero le lacune e i vuoti che potevano riguardare il materiale che componeva la mostra. Che tipo di intervento sarebbe stato necessario per colmarle? Si sarebbero ripristinate con un inserimento di simulazioni contemporanee, oppure si sarebbe lasciato un vuoto, cercando di segnalare un’assenza? O ancora in maniera più radicale sarebbe stato necessario costruire immagini in vitro, molto vicine ad un ‘falso’, quasi sempre fallimentare? Quale sarebbe stata la legittimità di un tale intervento sostitutivo o informativo? Si sarebbe lavorato caso per caso o sulle singole accumulazioni, stanza per stanza? Come risolvere tutte queste problematiche che avrebbero riguardato la visione del curatore, passata e presente, con la consapevolezza che il ruolo del curatore che non è solo quello di assemblatore di nuovi insiemi, ma anche di un ricostruttore di contesti, ambientali e culturali, dove ricostruire da buon conservatore della storia le tracce passate? A tali problematiche sollevate dal remake o dal revisiting di When Attitudes Become Form si è tentato di rispondere creando a Venezia un dialogo tra il curatore-restauratorericostruttore delle cose d’arte e l’architetto Rem Koolhaas e l’artista Thomas Demand, al fine di creare una prospettiva multipla e plurilinguistica capace di affrontare le diverse risposte architettoniche e visuali. Insieme si sono cercate e trovate soluzioni sul raccordo temporale e spaziale tra l’evento del 1969 e la decisione di un suo remake e di un suo reenacting. È sorto qui il problema della cornice che ospitava nel 1969 la mostra, totalmente diversa da quella veneziana nel 2013: la necessità di definire un trapasso tra lo spazio fisico in cui era immersa nella Kunsthalle e nella Schulwarte a Berna e quello del palazzo settecentesco di Ca’ Corner della Regina a Venezia. Due spazialità diverse che avrebbero dovuto interagire con l’oggetto When Attitudes Become Form. Quale possibile raccordo o disaccordo si deve trovare tra le due temporalità e le due spazialità? Inventarne un terzo che riguarda il godimento attuale dell’intera opera, così che risulti facile da percepire ad un pubblico attuale, oppure lavorare su uno strappo ambientale e temporale? La differenza è sostanziale e riguarda il rapporto con l’osservatore, il pubblico. Siccome qualsiasi architettura ha un valore spaziale diverso, rimuovere quella di Berna per utilizzare quella di Venezia sarebbe stata un’operazione di estrinsecazione diversa dalla formulazione storica. Annullare invece la presenza storico-muraria di Venezia a favore di una sequenza di stanze white cube avrebbe significato immettere l’insieme curato da Szeemann in un limbo, senza ancoraggi o referenze visive ed esperienziali alla situazione presente. Si è optato per una spazialità che non risolvesse il discorso a favore di una o dell’altra architettura, forzando la frattura temporale e spaziale. Il risultato è stato di creare un continuum dove il problema architettonico altera ed è alterato dall’innesto tra Kunsthalle, Schulwarte e Ca’ Corner della Regina. Non si è tentato di realizzare alcun falso criterio di continuità o di integrazione stilistica, ma si è lavorato per contrasto, immettendo in modo eclatante gli spazi moderni di Berna dentro il contenitore storico di Venezia. E, a ben vedere, entrambe le situazioni di fatto fanno parte della trasmissione dell’opera When Attitudes Become Form. Una volta trovata la cornice corretta per evidenziare la complessità di una ricostruzione, s’è passati al recupero e alla ricostruzione, quando necessario, delle figure – cioè le opere – che componevano il ‘racconto’ per immagini di Szeemann. Il lavoro del curatore a Venezia è stato dunque quello di negare la propria soggettività di assemblatore di mostre per ricostruire e restaurare un testo di un altro curatore. Questa spersonalizzazione è un tentativo di far sì che relazione oggettiva e soggettiva con la cosa esposta non siano più considerati antinomici. Il compito finale è stato quello di evocare un sorprendente prodotto d’epoca, d’identificarsi con esso, senza assumerlo come romantica e nostalgica rovina dell’altrui e proprio tempo passato. Una volta ricostruito come significante privilegiato di una serie di significati instabili e aleatori, entrare in rapporto diacronico con esso per suscitare una sensibilità attuale. E siccome questo oggetto del 1969, ricostruito e restaurato, necessitava nel 2013 di un nuovo rapporto con l’attualità, lo si è inserito in una zona di sospensione, un territorio estraneo alla sua storia e alla sua cronologia – Ca’ Corner della Regina – con l’idea di rilanciare la geografia e la storia del suo immaginario. Di fatto, inserirlo come un corpo irritante in un dentro che potesse provocare una secrezione di difesa: la sua nuova perla”. Ora che When Attitudes Become Form si è aperta a Venezia, in Cà Corner della Regina, cosa è cambiato nel suo percorso di storico e di curatore? “Rivisitare dal vero un evento che avevo vissuto in diretta a Berna e ricostruirlo, mi ha confermato la potenza del momento storico sia sul piano del linguaggio artistico che del procedere del curatore. Essendo una rivisitazione condotta in occasione della Biennale di Venezia 2013, quindi da collocarsi in un contesto non neutro, ma definito da altre proposte curatoriali – quella di Massimiliano Gioni, con il suo Palazzo Enciclopedico, e quelle delle decine e decine di curatori che sono intervenuti nelle mostre collaterali – ho capito che il pericolo dell’arte contemporanea e del suo modo di comunicare sta nel ridursi a un’immagine sottile e senza peso, capace di scorrere fluidamente, senza ancoraggio sulla parete bianca, la quale può essere metafora di un museo, di una galleria e di una fiera. Si è perso il contatto e, diciamo, il dialogo con il contesto, e l’arte si è ridotta ad un prodotto senza peso e energia, fondamentalmente un decoro temporaneo di un possibile cubo bianco, simbolico di qualsiasi contesto abitativo ospitante. Sento quindi sempre più l’esigenza di ancorare l’arte a un luogo o un territorio, invitandola a mettere le radici, senza dimenticare la storia. Ad esempio la cancellazione dell’architettura cinquecentesca dell’Arsenale, condotta attraverso la costruzione di percorsi dalle bianche pareti in legno o in cartongesso, è indice di un’astrazione ambientale, legata alla messa in un limbo dell’arte. When Attitudes Become Form era invece un tutto che il mercato ha parimenti spezzato, ma si capisce la sua forza ricomponendolo. I frammenti non formano una statua o un vaso, sono rovine, e qui sta il rischio del presente contemporaneo di trasformarsi in rovina. All’epoca l’istanza di fare arte non era tesa ad una pratica edonistica né didattica né economica, per cui le cose potevano andare distrutte o disperse, essere inutili e non funzionali. A contare era la prova di un’energia mentale e fisica, comportamentale ed emotiva che portava alla costruzione di ‘figure’ immaginarie senza alcun fine se non il piacere di esprimersi. L’aspirazione all’idea e della sua soddisfazione cercava di avere effetto sul reale, non solo in cambio della sopravvivenza, ma dell’azione sul pubblico, che allora si definiva ‘politica’: rifiuto del diletto e del decoro a favore di un produrre energetico che sollecitasse domande”.
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di Germano Celant - [gallery ids="9601,9602,9603,9604,9605,9606,9607,9608"]Qual è stato l’impianto teorico e stiocro che ha sostenuto la rivisitazione e la ricostruzione ,”così com’era”, della mostra curata da Harald Szeemann nel 1969 alla Kunsthalle di Berna? “È sempre la lettura della storia dell’arte a sostenere un progetto. Se si pensa alla logica che ha sostenuto la comunicazione artistica nel corso dei secoli passati si può verificare che – in generale – fino all’Ottocento gli interventi degli artisti erano eseguiti in relazione o in situazione, vale a dire rispondevano a una commissione o a un contesto che veniva loro suggerito od offerto. Quindi le opere erano messe in relazione o erano situate in un territorio ambientale o informativo che era scelto dialetticamente tra committente e artista stesso. Per un lungo periodo l’arte, che non aspira a circolare liberamente come prodotto di scambio e di consumo, si nutre di osmosi con il contesto, dalla caverna al palazzo, dalle pareti al soffitto, e forma un unicum indivisibile. Tale dialogo si spezza quando nell’Ottocento, una volta scomparso il mecenatismo dei nobili, le opere si devono adeguare ad un mercato borghese che si nutre di artefatti disponibili alla circolazione, nel 1863 si creano i Salons. Sono queste le nuove ambientazioni degli artisti ‘non integrati’, vale a dire dei ‘refusés’ e degli ‘indipendenti’ in cui sono raccolti non più integrati, ma appesi ai muri i lavori artistici da mettere in vendita. Tale salto contestuale che sradica l’intervento dall’inserimento murario crea un altro tipo di relazione e di situazione, quella tra le opere stesse e il loro allestimento. È un passaggio che non è mai stato studiato completamente, perché mancano le tracce della logica con cui gli stessi artisti entravano in relazione tra di loro, ponendo i quadri sopra velluti o sculture su piedestalli, e le poche fotografie dell’epoca non permettono una tale ricostruzione. Tuttavia l’input dell’artista sul modo di vedere la sua opera doveva essere importante e controllato, non affidato al caso o ad altri, come mercanti. E se lo era, anche questo elemento può essere soggetto di studio. Tuttavia a partire dal Novecento, le esposizioni sono sempre più controllate dagli artisti stessi, che le adottano per lanciare i loro movimenti linguistici, da Der Blaue Reiter a Monaco nel 1911 a Les Peintres Futuristes Italiens a Parigi nel 1912. Sono momenti di installazione a cui gli artisti partecipano arrivando a creare insiemi dirompenti e sorprendenti, come The First International Dada Fair, a Berlino nel 1920 e Esposition Internationale du Surréalisme a Parigi nel 1938. Si potrebbe affermare che tali insieme diventano un dispositivo dove l’apparente confusione diventa una fusione visuale che argomenta la poetica del gruppo. Il fatto di organizzare le cose o gli oggetti, le fotografie o i materiali secondo un accadere, che sembra fuori di ogni aspettativa, suscita interrogativi e domande. È la stessa cosa successa con When Attitudes Become Form, dove le opere si devono considerare in funzione dell’insieme. Qui ogni entità singola sembra scomparire a favore di un intreccio tra le parti, qualcosa che lo spettatore deve sbrogliare da sé. La concettualità nasce prima delle opere, perché il discorso deriva dal dispositivo curatoriale. Qui sta l’importanza di Szeemann che abbandona la mostra a ‘composizioni’ curiose e caotiche, dense e aperte. Se si assume la mostra come un tutto, in maniera barocca, si capisce come la mostra sia riuscita nel 1969 ad allontanarsi dal display classico e museale, vigente allora nel mondo dell’arte moderna e contemporanea. Lavorando sulle attitudini e sui loro risultati improvvisati ed effimeri, ottiene infatti effetti poetici, inventati e scoperti in situ. In tal modo il piacere del concetto si traduce in conoscenza del piacere. Non si pone alcun criterio di convenienza solo di legame, che deriva da una reciproca familiarità tra gli artisti e il loro fare. Ricostruire questo campo di energia, con le sue varietà espressive, ha significato rivisitare un dispositivo che se anticamente era architettonico, come una cappella o una chiesa, qui era basato sulla varietà e sulla variabilità di una sintonia che non era concreta e muraria, ma basata su un’integrità esperienziale condivisa. Un intreccio di momenti lirici e drammatici che hanno prodotto un tutto dall’acutezza mirabile che commuove ancora oggi. E su tale ipotesi di insieme meravigliante che si è costruito il progetto, facendolo coincidere con un’assolutezza scientifica, capace di ricreare questo tempio effimero del fare arte nel 1969. Di fatto si è cercato di continuare lo studio degli ‘interventi’ globali degli artisti in un contesto che non è più la chiesa o il palazzo, ma la mostra che è diventata il luogo del nuovo splendore contemporaneo”. Si può dire che When Attitudes Become Form rappresenti l’ultimo anelito dello sconvolgimento e della trasgressione modernista, per cui cristallizzarlo in una situazione fuori del suo contesto storico, politico e culturale non rischia di dissolvere la radicalità dell’originale? Se al tempo le immagini di tale operazione hanno avuto un effetto sulla realtà e sull’articolarsi del linguaggio dell’arte, oggi non rischiano di trasformarsi in feticizzazione nostalgica di un’illusione, quindi di una debolezza? “È evidente che la mostra organizzata da Szeemann nel 1969 è stata un’apertura verso un’immaginazione libera quanto politicamente inutile: un buon proposito di un fare rappresentativo che si connetteva alle avanguardie del modernismo. Si può assumere quale gesto morale e critico verso le proposte tradizionali del fare arte, che respingeva la realtà solo per rappresentarla e sottoporla ad un processo mimetico. Le ricerche mostrate a Berna, come in Op Losse Schroeven, realizzata in contemporanea allo Stedelijk Museum di Amsterdam, che presero il nome di Land art, Process art, Arte povera, Conceptual art, erano un ulteriore tentativo di rivalutare la dimensione pragmatica del vedere e del sentire. Vale a dire un cambio di segno espresso nell’attenzione alle tecniche e ai materiali, per esaltare una concezione poetica rispetto a una contemplativa, in cui l’essere umano è spinto a immergersi e non semplicemente guardare. Basta osservare la documentazione che riguarda l’arrivo in scena del pubblico, per capire come tale arte tendesse a un coinvolgimento fisico e corporale. Naturalmente, tale porsi è stato visto, allora, come un eccesso di negatività e di trasgressione rispetto all’istituzione. Qualcosa di ingovernabile e senza regole, che spingeva verso una demitizzazione della sacralità della pittura e della scultura: un rifiuto delle forme classiche per un’esaltazione della dimensione informe – all’epoca definita anche anti-form – della marginalità artistica. Con il suo interesse per il carattere insignificante e concreto delle materie e delle cose l’esposizione del 1969 solennizzò il carattere fortuito e caotico dell’arte, la sua permeabilità a tutti i possibili linguaggi e a tutte le possibili materie, dal piombo all’acqua, dal fuoco alla cera, dalla margarina al tubo fluorescente, dal cuoio al feltro, dai vetri rotti al ghiaccio, dalla cenere al cotone, così come a tutti gli strumenti utili, non privilegiati, dalla pala al caterpillar, dal giornale al cartellone, dalla lettura al camminare… Da cui la de-sacralizzazione di una cultura visiva che si era identificata solo con il dipingere e lo scolpire come con la dislocazione o lo spiazzamento linguistici dell’oggetto trovato. È una celebrazione del significato dell’insignificante, della realtà che si pone in sintonia proprio con il carattere effimero e temporaneo di un esistere sociale e culturale: un doppio senza valore da contrapporre a una catastrofe dei valori passati. E la sanzione prima della presenza di fare rovinoso e frammentario, dissolto e fluido, contrario ad ogni uni-dimensionalità dell’arte”. Di fatto, il reenacting di WABF rischia di tramutare l’effetto di trasgressione in una proposta rassicurante. All’epoca, l’esibizione di scarti industriali e di materie performative e mutanti che bruciavano o si scioglievano per dare corpo ad altre entità tendevano a mettere in discussione la staticità quanto la sacralità dell’artefatto, quanto del luogo espositivo, la Kunsthalle Bern, tanto da sollevare le reazioni dei conservatori che costrinsero Szeemann a dimettersi. Oggi questo non può succedere, anzi questo strappo curatoriale ed artistico viene sacralizzato. Quello che era stato proposto come elusione della fissità e delle regolarità classica ora viene fissato e dissolto in un’accettazione senza riserve: un simulacro privo di effetti. Si può affermare che oggi la radicalità e la trasgressione legate al percorso del modernismo hanno trovato un luogo ed un posto, compresa il display catastrofico e caotico della mostra di Szeemann? Il remake veneziano è l’ultimo atto sublimante di una radicalità che è ormai obsoleta? “La messa in discussione, e la conseguente azione trasgressiva, esistono perché si pone un punto di partenza e di possibile alternativa rispetto ad una condizione preesistente. L’aspetto utopico di tale fare, che implicava un mondo linguistico altro, opposto o quanto meno diverso dal precedente, va ancorato alla situazione storica del momento, il biennio 1968-1969, quando ci si accorge che l’arte si è tramutata in una atto puramente decorativo. Seppure le ricerche sviluppatesi dal 1945 al 1964, dall Espressionismo astratto alla Pop art, avessero tentato di prendere in considerazione la dimensione solitaria e disperata dell’artista, la sua angoscia esistenziale e l’esperienza drammatica del vivere, travolto dalla tragedia della seconda guerra mondiale, come il dissolvimento del valore morale e rappresentativo dell’arte ormai scalzata e fagocitata dall’immaginario mediatico, dalla pubblicità al cartoons, tali proposizioni non erano riuscite a scalzare il valore decorativo dell’artefatto. Si ponevano come duplicati di un immaginario individuale e industriale, senza indebolire e screditare minimamente la pratica del fare, del mostrare, del comunicare e del consumare l’arte. Le attitudini prodotte e mostrate a Berna sottintendevano una scena espositiva che, occupando non solo i musei, ma le strade e gli spazi pubblici, riflettesse un’azione politica in cui tutti fossero coinvolti, artisti e spettatori, e di cui tutti dovevano prendere consapevolezza. È stata questa la vera illusione che rivela ancora il desiderio di una rivoluzione illuminista intrecciata al sogno di proseguire il discorso radicale delle avanguardie del modernismo. Certamente il remake di tale evento rischia, nella sua ripetizione, di esaltare un momento ideale ma al tempo stesso serve a far percepire, mediante l’avvicinamento al suo stato ‘originale’, la realtà di un mito che non è affidabile solo alla documentazione fotografica, ma all’esperienza di un entusiasmo e di un fervore artistico che chiedeva coinvolgimento. La resurrezione di When Attitudes Become Form mette in circolazione lo spettro di una radicalità che oggi non ha più effetto, perché l’arte non è più un’arma politica rispetto alle lotte reali. Affidandosi allo sguardo dell’oggi, tali proposte appaiono forse facili e irreali ma bisogna sottolineare che questa ipotetica sconfitta ha portato ad una nuova dimensione dell’immaginario artistico. Ad un’analisi retrospettiva, si può dire che la sua effettualità sul mondo sia stata infinitesimale, ma rimane in ogni caso un’influenza sul dissolvimento delle strutture tradizionali del sistema dell’arte. Se tutto questo oggi si è trasformato in business, per cui l’arte ha perso qualsiasi identità sociale per diventare merce simbolica ed economica, significa che il tentativo di scollamento dal compromesso consumistico è fallito. L’arte si è posta a rimorchio del mercato ed è arrivata al punto estremo di inefficacia nel suo rapporto critico e poetico con la società e la cultura. Di fatto, a contare nella costruzione di When Attitudes Become Form sono stati anche gli aggiustamenti spaziali che ogni artista ha attuato per convivere con gli altri. È un muoversi interattivo, piuttosto che la creazione di uno spazio privato ed indipendente. Non si poneva infatti alcuna ‘proprietà’ ambientale, ma la semplice territorialità dell’opera stessa. Era il lavoro a cercarsi linkage con gli altri, così da stabilire un rapporto empatico e condiviso. Simile legame ha un carattere comunitario, ampiamente documentato dalle fotografie in cui diversi artisti lavorano in contemporanea, nella stessa stanza, quasi fossero una ‘comune’, ed è tipico del momento storico, basato su una pratica di socialità che è politica quanto creativa. È qualcosa di simile ad un incontro casuale che produce al tempo stesso una confusione e una fusione. La mostra di Berna è stata quasi una formazione di proposizioni che, come in un incavo terrestre, hanno trovato il loro sviluppo scendendo dai soffitti o arrampicandosi alle pareti o trovando una dimensione gravitazionale a pavimento. Il senso vero della mostra di Szeemann è stato quello di mettere insieme un divenire indeterminato dell’arte così che si percepisse un continuo transito tra le opere, in modo che non fosse possibile isolare le caratteristiche individuali, ma l’energia d’insieme. È un momento interattivo e un mettersi ‘in rete’ che evidenzia il passaggio da uno all’altro, in piena attualità: la simultaneità e la coesistenza del presente artistico, che è anche sottolineata dal messa in mostra di gesti e di azioni corporali, dalla stesura di margarina di Joseph Beuys alla distesa di piombo fuso di Richard Serra all’accensione dei giunchi di Gilberto Zorio e alla rimozione fotografica di Ger van Elk. Per non parlare dell’arte come processo ed operazione in situ che cerca di superare il senso del prodotto confezionato e fabbricato a favore dell’operazione linguistica relativa ad una specifica collocazione e situazione, che non è all’interno dell’istituzione ma si immerge nel contrasto urbano, da Michael Heizer a Daniel Buren. Nasce una mostra che funziona come un vortice capace di travolgere lo spettatore, per metterlo in relazione diretta con il processo creativo. È un modo di sottoporre il pubblico a una forza vertiginosa che ne alteri la visione, così da perdersi in essa”. Prima di arrivare ad una soluzione che integrasse la ricostruzione di una vicenda radicale in un contesto attuale, completamente dominato da altri valori non solo linguistici, ma economici come si è proceduto per acquisire tutti i dati scientifici su cui lavorare ad una mappatura completa e precisa di quanto era avvenuto a Berna? “La ricerca si è sviluppata su diversi livelli, che includevano le fonti primarie dall’archivio di Szeemann, ora presso il Getty Institute di Los Angeles, e le testimonianze dirette degli artisti o i documenti reperibili nelle loro fondazioni, quanto le tracce fotografiche e scritte nella biblioteca della Kusthalle di Berna. Attraverso la raccolta dei diversi dati, che spesso hanno portato a conferme, quanto a sorprese, è iniziata la possibile mappatura delle opere in ogni singola stanza. A questo risultato ha contribuito enormemente la collaborazione con il Getty Institute, diretto da Thomas Gaehtgens, che attraverso l’attento studio condotto da Glenn Philips con il suo team su documenti, lettere e fotografie relative a Sezeemann e a When Attitudes Become Form ha permesso l’identificazione delle opere sia in mostra che non. Accanto a questa preziosa indagine sulle fonti curatoriali si è affiancata la ricerca nell’archivio della Kunsthalle, dove si sono trovati riscontri ed informazioni utili per ampliare la visione totale dell’evento, incluse le recensioni e le polemiche sollevate. Infine un ultimo arricchimento è venuto dagli artisti e dalle loro fondazioni che hanno fornito precisazioni sulle opere esposte e non. In generale la ricostruzione ha potuto contare su oltre un migliaio di fotografie, provenienti dagli archivi di Claudio Abate, Leonardo Bezzola, Balthasar Burkhard, Siegfried Kühn, Dölf Preisig, Harry Shunk e Albert Winkler, una raccolta quasi completa, e per la maggior parte inedita, di tutto quanto è stato registrato attraverso le immagini fotografiche. Queste sono state sottoposte ad un’accorta analisi e sono diventate fonti di scoperte e di novità, che hanno spesso arricchito la conoscenza anche degli stessi protagonisti, ampliandone i ricordi e le visioni. Sono venute alla luce opere e installazioni, mai menzionate né registrate sia nel catalogo di Berna sia nelle successive ricerche fatte da studiosi internazionali”. Una volta tracciata la mappa di tutte le opere in mostra e non, come si è proceduto per averle? Quali problemi hanno comportato i prestiti, una volta scoperto che l’opera è andata distrutta o dispersa ? Quale metodo espositivo è stato adottato per evidenziare le assenze? “Essendo una mostra che ha rappresentato un momento di rottura rispetto alla staticità e alla fissità del lavoro d’arte, immettendo un fattore performativo, per cui a volte l’opera mutava nel corso del tempo arrivando a distruggersi, è apparso immediatamente chiaro che a Venezia la possibilità di una ricostruzione totale e originale sarebbe stata impossibile. Tuttavia si è proceduto cercando di avvicinarci al massimo risultato con la consapevolezza che il revisiting avrebbe dovuto basarsi su due realtà: la prima consistente nel reperimento delle opere originali già acquisite da raccolte private e pubbliche, ad esempio i rintracciabili lavori di Carl Andre, Claes Oldenburg, Bruce Nauman, Eva Hesse, Giovanni Anselmo, Hanne Darboven, Reiner Ruthenbeck, Marinus Boezem e Richard Tuttle, che insieme ai rifacimenti – la seconda realtà – da attuarsi invece con la collaborazione degli artisti o delle loro fondazioni che nel loro insieme avrebbero permesso la ricostruzione dell’impatto visivo nelle singole stanze, con la relazione tra volumi e materie. Il primo compito è stato assolto nella maniera tradizionale con richieste a musei e collezionisti, mentre la seconda ha richiesto un ritorno alla fonte, in questo caso l’autore stesso o il suo archivio per chiedere se era possibile una riproposta, sorta di copia espositiva o replica del lavoro: quest’ultimo caso ha sollevato diverse problematiche che hanno coinvolto gli artisti quanto i musei e i collezionisti. Tuttavia alcuni artisti non riconoscono oggi il valore di certi lavori del 1969 o li ritengono ancorati nel loro passato e non più esponibili. Se addirittura non li rinnegano come errori di gioventù o idee che non condividono più. È cambiata così tanto l’arte dal 1969? E quale approccio ha seguito in questi casi ? Nel ricostruire questa mostra ha più peso il documento storico o il rispetto del volere soggettivo dell’artista oggi a quaranta anni di distanza? “La traslazione da un momento all’altro significa un trasporto nel tempo, è una resurrezione di cariche espressive ed emotive che sono passate. Siccome non avvengono attraverso la memoria ma mediante il remake si riproducono concretamente e diventano azioni presenti, quindi una carica che era trascorsa viene riproposta come attuale. Per alcuni è difficile riproporre impulsi e motivazioni già provate, per altri non c’è alcunché di nuovo né di differente, perché il fattore attivo dell’opera è tuttora in corso ed è ancora effettiva. In un caso la rievocazione riflette acquisizioni già elaborate, ma troppo sperimentali o giovanili, per altri è già una definizione di un percorso che è testimonianza di una dichiarazione linguistica anticipatrice ma già matura. Certamente la rielaborazione odierna non corrisponde più ad un’attitudine che tendeva ad oltrepassare il linguaggio tradizionale, ma rischia di essere un ritorno al passato. Tuttavia per capire il presente bisogna far riferimento alle trasformazioni già attuate, anche se appaiono o sono errori. Dopo il 1969 l’arte si è lentamente adeguata alla società dei consumi e dell’informazione di massa, per cui la primarietà delle materie e dei gesti ha lasciato campo alla processualità industriale e mercantile. Lentamente l’operazione artistica si è tramutata in un prodotto prefabbricato ed apparente: una costruzione speculare e narrativa del reale. Si è attuata una moltiplicazione dell’esistente che ha appiattito le forme e il discorso visivi radicali e trasgressivi. Si è creato uno spettacolo dell’arte per riproporne una dimensione decorativa ed esibizionista, mentre l’arte scaturita dal 1968 aspirava ad essere de-realizzante ed iconoclasta. Di fatto l’aspirazione di When Attitudes Become Form è stata quella di abolire il rituale tradizionale del mostrare un’opera a favore di un’esperienza del suo processo di costruzione e di transito dinnanzi allo sguardo dell’osservatore. Qual è il ruolo del curatore in una ripetizione, quasi identica come ambienti e opere, di una mostra in origine curata da un altro? Esiste una sorta di ‘copyright’ nel concepire la curatela di una mostra ? Se sì quanto la mostra intesa come progetto autoriale s’avvicina ad un’opera d’arte? Nel rifare la mostra come WABF è necessario assumere lo stesso ruolo del curatore, che incontrò artisti e protagonisti oppure la rivisitazione si può fare in modo automatico, puramente tecnico, ripetendo azioni e decisioni? “Se si assume When Attitudes Become Form come un oggetto d’uso storico e linguistico, confezionato nel 1969, innalzando l’insieme a unità compatta e definita, la prima operazione curatoriale è quella di restaurarne la totalità, mettendo insieme i frammenti (i singoli lavori d’arte) dislocati e dispersi. È un processo che inizialmente è indifferente alle parti che compongono il tutto. L’intento non è suscitare nuove associazioni o assegnare nuove collocazioni, ma praticare una ricostruzione senza ridisegnarla né modificarla, usando solo gli smembramenti. È un fissarsi su una struttura rigida, ordinata e armonica in cui le relazioni tra le componenti formava un sistema chiuso. Pertanto, il ritrovamento dei residui ha quale fine di ricomporre e mettere insieme il ‘testo’ narrativo steso da Szeemann in collaborazione con gli artisti stessi, immesso tra le ‘pagine’ architettoniche, bianche, della Kunsthalle di Berna. La raccolta di queste parti, spesso effimere e disperse, insieme ai residui che sono entrati nei musei e nelle collezioni, è tesa a ricreare un puzzle o una costellazione identificabile come una totalità, all’epoca pensata quale un nuovo sistema di fare, di mostrare e di pensare l’arte. Tale processo è coinciso, quindi, con un vero e proprio restauro di un prodotto dell’attività creativa. Innanzitutto si è dovuto riconoscere il valore dell’intera operazione, come è stato ammesso da tutti gli studiosi d’arte contemporanea, poi si è identificata la sua materia cioè la sua consistenza fisica, seguita dal riconoscimento estetico e storico che ha contribuito alla necessità di trasmetterla nel futuro, quale fatto fondante di una vicenda primaria. Tale molteplice consistenza è data dall’intreccio tra architettura, opere, relazioni e tutte queste componenti sono state studiate attraverso un metodo scientifico, prima in relazione al tempo ed al luogo in cui è stata realizzata, a Berna, e poi in rapporto al presente storico e alla sua nuova collocazione a Venezia. È fondamentale indagare l’unità dell’esposizione, sia da un punto di vista qualitativo che quantitativo cercando di avvicinarci al suo intero. Il passaggio successivo è stato di verificare fino a che punto fosse possibile la ricostruzione di tale unità. Ciò è avvenuto mettendo insieme tutte le informazioni possibili sui singoli tasselli del mosaico espositivo, capendo anche dove ci sarebbero le lacune e i vuoti che potevano riguardare il materiale che componeva la mostra. Che tipo di intervento sarebbe stato necessario per colmarle? Si sarebbero ripristinate con un inserimento di simulazioni contemporanee, oppure si sarebbe lasciato un vuoto, cercando di segnalare un’assenza? O ancora in maniera più radicale sarebbe stato necessario costruire immagini in vitro, molto vicine ad un ‘falso’, quasi sempre fallimentare? Quale sarebbe stata la legittimità di un tale intervento sostitutivo o informativo? Si sarebbe lavorato caso per caso o sulle singole accumulazioni, stanza per stanza? Come risolvere tutte queste problematiche che avrebbero riguardato la visione del curatore, passata e presente, con la consapevolezza che il ruolo del curatore che non è solo quello di assemblatore di nuovi insiemi, ma anche di un ricostruttore di contesti, ambientali e culturali, dove ricostruire da buon conservatore della storia le tracce passate? A tali problematiche sollevate dal remake o dal revisiting di When Attitudes Become Form si è tentato di rispondere creando a Venezia un dialogo tra il curatore-restauratorericostruttore delle cose d’arte e l’architetto Rem Koolhaas e l’artista Thomas Demand, al fine di creare una prospettiva multipla e plurilinguistica capace di affrontare le diverse risposte architettoniche e visuali. Insieme si sono cercate e trovate soluzioni sul raccordo temporale e spaziale tra l’evento del 1969 e la decisione di un suo remake e di un suo reenacting. È sorto qui il problema della cornice che ospitava nel 1969 la mostra, totalmente diversa da quella veneziana nel 2013: la necessità di definire un trapasso tra lo spazio fisico in cui era immersa nella Kunsthalle e nella Schulwarte a Berna e quello del palazzo settecentesco di Ca’ Corner della Regina a Venezia. Due spazialità diverse che avrebbero dovuto interagire con l’oggetto When Attitudes Become Form. Quale possibile raccordo o disaccordo si deve trovare tra le due temporalità e le due spazialità? Inventarne un terzo che riguarda il godimento attuale dell’intera opera, così che risulti facile da percepire ad un pubblico attuale, oppure lavorare su uno strappo ambientale e temporale? La differenza è sostanziale e riguarda il rapporto con l’osservatore, il pubblico. Siccome qualsiasi architettura ha un valore spaziale diverso, rimuovere quella di Berna per utilizzare quella di Venezia sarebbe stata un’operazione di estrinsecazione diversa dalla formulazione storica. Annullare invece la presenza storico-muraria di Venezia a favore di una sequenza di stanze white cube avrebbe significato immettere l’insieme curato da Szeemann in un limbo, senza ancoraggi o referenze visive ed esperienziali alla situazione presente. Si è optato per una spazialità che non risolvesse il discorso a favore di una o dell’altra architettura, forzando la frattura temporale e spaziale. Il risultato è stato di creare un continuum dove il problema architettonico altera ed è alterato dall’innesto tra Kunsthalle, Schulwarte e Ca’ Corner della Regina. Non si è tentato di realizzare alcun falso criterio di continuità o di integrazione stilistica, ma si è lavorato per contrasto, immettendo in modo eclatante gli spazi moderni di Berna dentro il contenitore storico di Venezia. E, a ben vedere, entrambe le situazioni di fatto fanno parte della trasmissione dell’opera When Attitudes Become Form. Una volta trovata la cornice corretta per evidenziare la complessità di una ricostruzione, s’è passati al recupero e alla ricostruzione, quando necessario, delle figure – cioè le opere – che componevano il ‘racconto’ per immagini di Szeemann. Il lavoro del curatore a Venezia è stato dunque quello di negare la propria soggettività di assemblatore di mostre per ricostruire e restaurare un testo di un altro curatore. Questa spersonalizzazione è un tentativo di far sì che relazione oggettiva e soggettiva con la cosa esposta non siano più considerati antinomici. Il compito finale è stato quello di evocare un sorprendente prodotto d’epoca, d’identificarsi con esso, senza assumerlo come romantica e nostalgica rovina dell’altrui e proprio tempo passato. Una volta ricostruito come significante privilegiato di una serie di significati instabili e aleatori, entrare in rapporto diacronico con esso per suscitare una sensibilità attuale. E siccome questo oggetto del 1969, ricostruito e restaurato, necessitava nel 2013 di un nuovo rapporto con l’attualità, lo si è inserito in una zona di sospensione, un territorio estraneo alla sua storia e alla sua cronologia – Ca’ Corner della Regina – con l’idea di rilanciare la geografia e la storia del suo immaginario. Di fatto, inserirlo come un corpo irritante in un dentro che potesse provocare una secrezione di difesa: la sua nuova perla”. Ora che When Attitudes Become Form si è aperta a Venezia, in Cà Corner della Regina, cosa è cambiato nel suo percorso di storico e di curatore? “Rivisitare dal vero un evento che avevo vissuto in diretta a Berna e ricostruirlo, mi ha confermato la potenza del momento storico sia sul piano del linguaggio artistico che del procedere del curatore. Essendo una rivisitazione condotta in occasione della Biennale di Venezia 2013, quindi da collocarsi in un contesto non neutro, ma definito da altre proposte curatoriali – quella di Massimiliano Gioni, con il suo Palazzo Enciclopedico, e quelle delle decine e decine di curatori che sono intervenuti nelle mostre collaterali – ho capito che il pericolo dell’arte contemporanea e del suo modo di comunicare sta nel ridursi a un’immagine sottile e senza peso, capace di scorrere fluidamente, senza ancoraggio sulla parete bianca, la quale può essere metafora di un museo, di una galleria e di una fiera. Si è perso il contatto e, diciamo, il dialogo con il contesto, e l’arte si è ridotta ad un prodotto senza peso e energia, fondamentalmente un decoro temporaneo di un possibile cubo bianco, simbolico di qualsiasi contesto abitativo ospitante. Sento quindi sempre più l’esigenza di ancorare l’arte a un luogo o un territorio, invitandola a mettere le radici, senza dimenticare la storia. Ad esempio la cancellazione dell’architettura cinquecentesca dell’Arsenale, condotta attraverso la costruzione di percorsi dalle bianche pareti in legno o in cartongesso, è indice di un’astrazione ambientale, legata alla messa in un limbo dell’arte. When Attitudes Become Form era invece un tutto che il mercato ha parimenti spezzato, ma si capisce la sua forza ricomponendolo. I frammenti non formano una statua o un vaso, sono rovine, e qui sta il rischio del presente contemporaneo di trasformarsi in rovina. All’epoca l’istanza di fare arte non era tesa ad una pratica edonistica né didattica né economica, per cui le cose potevano andare distrutte o disperse, essere inutili e non funzionali. A contare era la prova di un’energia mentale e fisica, comportamentale ed emotiva che portava alla costruzione di ‘figure’ immaginarie senza alcun fine se non il piacere di esprimersi. L’aspirazione all’idea e della sua soddisfazione cercava di avere effetto sul reale, non solo in cambio della sopravvivenza, ma dell’azione sul pubblico, che allora si definiva ‘politica’: rifiuto del diletto e del decoro a favore di un produrre energetico che sollecitasse domande”.
Qual è stato l’impianto teorico e stiocro che ha sostenuto la rivisitazione e la ricostruzione ,”così com’era”, della mostra curata da Harald Szeemann nel 1969 alla Kunsthalle di Berna? “È sempre la lettura della storia dell’arte a sostenere un progetto. Se si pensa alla logica che ha sostenuto la comunicazione artistica nel corso dei secoli passati si può verificare che – in generale – fino all’Ottocento gli interventi degli artisti erano eseguiti in relazione o in situazione, vale a dire rispondevano a una commissione o a un contesto che veniva loro suggerito od offerto. Quindi le opere erano messe in relazione o erano situate in un territorio ambientale o informativo che era scelto dialetticamente tra committente e artista stesso. Per un lungo periodo l’arte, che non aspira a circolare liberamente come prodotto di scambio e di consumo, si nutre di osmosi con il contesto, dalla caverna al palazzo, dalle pareti al soffitto, e forma un unicum indivisibile. Tale dialogo si spezza quando nell’Ottocento, una volta scomparso il mecenatismo dei nobili, le opere si devono adeguare ad un mercato borghese che si nutre di artefatti disponibili alla circolazione, nel 1863 si creano i Salons. Sono queste le nuove ambientazioni degli artisti ‘non integrati’, vale a dire dei ‘refusés’ e degli ‘indipendenti’ in cui sono raccolti non più integrati, ma appesi ai muri i lavori artistici da mettere in vendita. Tale salto contestuale che sradica l’intervento dall’inserimento murario crea un altro tipo di relazione e di situazione, quella tra le opere stesse e il loro allestimento. È un passaggio che non è mai stato studiato completamente, perché mancano le tracce della logica con cui gli stessi artisti entravano in relazione tra di loro, ponendo i quadri sopra velluti o sculture su piedestalli, e le poche fotografie dell’epoca non permettono una tale ricostruzione. Tuttavia l’input dell’artista sul modo di vedere la sua opera doveva essere importante e controllato, non affidato al caso o ad altri, come mercanti. E se lo era, anche questo elemento può essere soggetto di studio. Tuttavia a partire dal Novecento, le esposizioni sono sempre più controllate dagli artisti stessi, che le adottano per lanciare i loro movimenti linguistici, da Der Blaue Reiter a Monaco nel 1911 a Les Peintres Futuristes Italiens a Parigi nel 1912. Sono momenti di installazione a cui gli artisti partecipano arrivando a creare insiemi dirompenti e sorprendenti, come The First International Dada Fair, a Berlino nel 1920 e Esposition Internationale du Surréalisme a Parigi nel 1938. Si potrebbe affermare che tali insieme diventano un dispositivo dove l’apparente confusione diventa una fusione visuale che argomenta la poetica del gruppo. Il fatto di organizzare le cose o gli oggetti, le fotografie o i materiali secondo un accadere, che sembra fuori di ogni aspettativa, suscita interrogativi e domande. È la stessa cosa successa con When Attitudes Become Form, dove le opere si devono considerare in funzione dell’insieme. Qui ogni entità singola sembra scomparire a favore di un intreccio tra le parti, qualcosa che lo spettatore deve sbrogliare da sé. La concettualità nasce prima delle opere, perché il discorso deriva dal dispositivo curatoriale. Qui sta l’importanza di Szeemann che abbandona la mostra a ‘composizioni’ curiose e caotiche, dense e aperte. Se si assume la mostra come un tutto, in maniera barocca, si capisce come la mostra sia riuscita nel 1969 ad allontanarsi dal display classico e museale, vigente allora nel mondo dell’arte moderna e contemporanea. Lavorando sulle attitudini e sui loro risultati improvvisati ed effimeri, ottiene infatti effetti poetici, inventati e scoperti in situ. In tal modo il piacere del concetto si traduce in conoscenza del piacere. Non si pone alcun criterio di convenienza solo di legame, che deriva da una reciproca familiarità tra gli artisti e il loro fare. Ricostruire questo campo di energia, con le sue varietà espressive, ha significato rivisitare un dispositivo che se anticamente era architettonico, come una cappella o una chiesa, qui era basato sulla varietà e sulla variabilità di una sintonia che non era concreta e muraria, ma basata su un’integrità esperienziale condivisa. Un intreccio di momenti lirici e drammatici che hanno prodotto un tutto dall’acutezza mirabile che commuove ancora oggi. E su tale ipotesi di insieme meravigliante che si è costruito il progetto, facendolo coincidere con un’assolutezza scientifica, capace di ricreare questo tempio effimero del fare arte nel 1969. Di fatto si è cercato di continuare lo studio degli ‘interventi’ globali degli artisti in un contesto che non è più la chiesa o il palazzo, ma la mostra che è diventata il luogo del nuovo splendore contemporaneo”. Si può dire che When Attitudes Become Form rappresenti l’ultimo anelito dello sconvolgimento e della trasgressione modernista, per cui cristallizzarlo in una situazione fuori del suo contesto storico, politico e culturale non rischia di dissolvere la radicalità dell’originale? Se al tempo le immagini di tale operazione hanno avuto un effetto sulla realtà e sull’articolarsi del linguaggio dell’arte, oggi non rischiano di trasformarsi in feticizzazione nostalgica di un’illusione, quindi di una debolezza? “È evidente che la mostra organizzata da Szeemann nel 1969 è stata un’apertura verso un’immaginazione libera quanto politicamente inutile: un buon proposito di un fare rappresentativo che si connetteva alle avanguardie del modernismo. Si può assumere quale gesto morale e critico verso le proposte tradizionali del fare arte, che respingeva la realtà solo per rappresentarla e sottoporla ad un processo mimetico. Le ricerche mostrate a Berna, come in Op Losse Schroeven, realizzata in contemporanea allo Stedelijk Museum di Amsterdam, che presero il nome di Land art, Process art, Arte povera, Conceptual art, erano un ulteriore tentativo di rivalutare la dimensione pragmatica del vedere e del sentire. Vale a dire un cambio di segno espresso nell’attenzione alle tecniche e ai materiali, per esaltare una concezione poetica rispetto a una contemplativa, in cui l’essere umano è spinto a immergersi e non semplicemente guardare. Basta osservare la documentazione che riguarda l’arrivo in scena del pubblico, per capire come tale arte tendesse a un coinvolgimento fisico e corporale. Naturalmente, tale porsi è stato visto, allora, come un eccesso di negatività e di trasgressione rispetto all’istituzione. Qualcosa di ingovernabile e senza regole, che spingeva verso una demitizzazione della sacralità della pittura e della scultura: un rifiuto delle forme classiche per un’esaltazione della dimensione informe – all’epoca definita anche anti-form – della marginalità artistica. Con il suo interesse per il carattere insignificante e concreto delle materie e delle cose l’esposizione del 1969 solennizzò il carattere fortuito e caotico dell’arte, la sua permeabilità a tutti i possibili linguaggi e a tutte le possibili materie, dal piombo all’acqua, dal fuoco alla cera, dalla margarina al tubo fluorescente, dal cuoio al feltro, dai vetri rotti al ghiaccio, dalla cenere al cotone, così come a tutti gli strumenti utili, non privilegiati, dalla pala al caterpillar, dal giornale al cartellone, dalla lettura al camminare… Da cui la de-sacralizzazione di una cultura visiva che si era identificata solo con il dipingere e lo scolpire come con la dislocazione o lo spiazzamento linguistici dell’oggetto trovato. È una celebrazione del significato dell’insignificante, della realtà che si pone in sintonia proprio con il carattere effimero e temporaneo di un esistere sociale e culturale: un doppio senza valore da contrapporre a una catastrofe dei valori passati. E la sanzione prima della presenza di fare rovinoso e frammentario, dissolto e fluido, contrario ad ogni uni-dimensionalità dell’arte”. Di fatto, il reenacting di WABF rischia di tramutare l’effetto di trasgressione in una proposta rassicurante. All’epoca, l’esibizione di scarti industriali e di materie performative e mutanti che bruciavano o si scioglievano per dare corpo ad altre entità tendevano a mettere in discussione la staticità quanto la sacralità dell’artefatto, quanto del luogo espositivo, la Kunsthalle Bern, tanto da sollevare le reazioni dei conservatori che costrinsero Szeemann a dimettersi. Oggi questo non può succedere, anzi questo strappo curatoriale ed artistico viene sacralizzato. Quello che era stato proposto come elusione della fissità e delle regolarità classica ora viene fissato e dissolto in un’accettazione senza riserve: un simulacro privo di effetti. Si può affermare che oggi la radicalità e la trasgressione legate al percorso del modernismo hanno trovato un luogo ed un posto, compresa il display catastrofico e caotico della mostra di Szeemann? Il remake veneziano è l’ultimo atto sublimante di una radicalità che è ormai obsoleta? “La messa in discussione, e la conseguente azione trasgressiva, esistono perché si pone un punto di partenza e di possibile alternativa rispetto ad una condizione preesistente. L’aspetto utopico di tale fare, che implicava un mondo linguistico altro, opposto o quanto meno diverso dal precedente, va ancorato alla situazione storica del momento, il biennio 1968-1969, quando ci si accorge che l’arte si è tramutata in una atto puramente decorativo. Seppure le ricerche sviluppatesi dal 1945 al 1964, dall Espressionismo astratto alla Pop art, avessero tentato di prendere in considerazione la dimensione solitaria e disperata dell’artista, la sua angoscia esistenziale e l’esperienza drammatica del vivere, travolto dalla tragedia della seconda guerra mondiale, come il dissolvimento del valore morale e rappresentativo dell’arte ormai scalzata e fagocitata dall’immaginario mediatico, dalla pubblicità al cartoons, tali proposizioni non erano riuscite a scalzare il valore decorativo dell’artefatto. Si ponevano come duplicati di un immaginario individuale e industriale, senza indebolire e screditare minimamente la pratica del fare, del mostrare, del comunicare e del consumare l’arte. Le attitudini prodotte e mostrate a Berna sottintendevano una scena espositiva che, occupando non solo i musei, ma le strade e gli spazi pubblici, riflettesse un’azione politica in cui tutti fossero coinvolti, artisti e spettatori, e di cui tutti dovevano prendere consapevolezza. È stata questa la vera illusione che rivela ancora il desiderio di una rivoluzione illuminista intrecciata al sogno di proseguire il discorso radicale delle avanguardie del modernismo. Certamente il remake di tale evento rischia, nella sua ripetizione, di esaltare un momento ideale ma al tempo stesso serve a far percepire, mediante l’avvicinamento al suo stato ‘originale’, la realtà di un mito che non è affidabile solo alla documentazione fotografica, ma all’esperienza di un entusiasmo e di un fervore artistico che chiedeva coinvolgimento. La resurrezione di When Attitudes Become Form mette in circolazione lo spettro di una radicalità che oggi non ha più effetto, perché l’arte non è più un’arma politica rispetto alle lotte reali. Affidandosi allo sguardo dell’oggi, tali proposte appaiono forse facili e irreali ma bisogna sottolineare che questa ipotetica sconfitta ha portato ad una nuova dimensione dell’immaginario artistico. Ad un’analisi retrospettiva, si può dire che la sua effettualità sul mondo sia stata infinitesimale, ma rimane in ogni caso un’influenza sul dissolvimento delle strutture tradizionali del sistema dell’arte. Se tutto questo oggi si è trasformato in business, per cui l’arte ha perso qualsiasi identità sociale per diventare merce simbolica ed economica, significa che il tentativo di scollamento dal compromesso consumistico è fallito. L’arte si è posta a rimorchio del mercato ed è arrivata al punto estremo di inefficacia nel suo rapporto critico e poetico con la società e la cultura. Di fatto, a contare nella costruzione di When Attitudes Become Form sono stati anche gli aggiustamenti spaziali che ogni artista ha attuato per convivere con gli altri. È un muoversi interattivo, piuttosto che la creazione di uno spazio privato ed indipendente. Non si poneva infatti alcuna ‘proprietà’ ambientale, ma la semplice territorialità dell’opera stessa. Era il lavoro a cercarsi linkage con gli altri, così da stabilire un rapporto empatico e condiviso. Simile legame ha un carattere comunitario, ampiamente documentato dalle fotografie in cui diversi artisti lavorano in contemporanea, nella stessa stanza, quasi fossero una ‘comune’, ed è tipico del momento storico, basato su una pratica di socialità che è politica quanto creativa. È qualcosa di simile ad un incontro casuale che produce al tempo stesso una confusione e una fusione. La mostra di Berna è stata quasi una formazione di proposizioni che, come in un incavo terrestre, hanno trovato il loro sviluppo scendendo dai soffitti o arrampicandosi alle pareti o trovando una dimensione gravitazionale a pavimento. Il senso vero della mostra di Szeemann è stato quello di mettere insieme un divenire indeterminato dell’arte così che si percepisse un continuo transito tra le opere, in modo che non fosse possibile isolare le caratteristiche individuali, ma l’energia d’insieme. È un momento interattivo e un mettersi ‘in rete’ che evidenzia il passaggio da uno all’altro, in piena attualità: la simultaneità e la coesistenza del presente artistico, che è anche sottolineata dal messa in mostra di gesti e di azioni corporali, dalla stesura di margarina di Joseph Beuys alla distesa di piombo fuso di Richard Serra all’accensione dei giunchi di Gilberto Zorio e alla rimozione fotografica di Ger van Elk. Per non parlare dell’arte come processo ed operazione in situ che cerca di superare il senso del prodotto confezionato e fabbricato a favore dell’operazione linguistica relativa ad una specifica collocazione e situazione, che non è all’interno dell’istituzione ma si immerge nel contrasto urbano, da Michael Heizer a Daniel Buren. Nasce una mostra che funziona come un vortice capace di travolgere lo spettatore, per metterlo in relazione diretta con il processo creativo. È un modo di sottoporre il pubblico a una forza vertiginosa che ne alteri la visione, così da perdersi in essa”. Prima di arrivare ad una soluzione che integrasse la ricostruzione di una vicenda radicale in un contesto attuale, completamente dominato da altri valori non solo linguistici, ma economici come si è proceduto per acquisire tutti i dati scientifici su cui lavorare ad una mappatura completa e precisa di quanto era avvenuto a Berna? “La ricerca si è sviluppata su diversi livelli, che includevano le fonti primarie dall’archivio di Szeemann, ora presso il Getty Institute di Los Angeles, e le testimonianze dirette degli artisti o i documenti reperibili nelle loro fondazioni, quanto le tracce fotografiche e scritte nella biblioteca della Kusthalle di Berna. Attraverso la raccolta dei diversi dati, che spesso hanno portato a conferme, quanto a sorprese, è iniziata la possibile mappatura delle opere in ogni singola stanza. A questo risultato ha contribuito enormemente la collaborazione con il Getty Institute, diretto da Thomas Gaehtgens, che attraverso l’attento studio condotto da Glenn Philips con il suo team su documenti, lettere e fotografie relative a Sezeemann e a When Attitudes Become Form ha permesso l’identificazione delle opere sia in mostra che non. Accanto a questa preziosa indagine sulle fonti curatoriali si è affiancata la ricerca nell’archivio della Kunsthalle, dove si sono trovati riscontri ed informazioni utili per ampliare la visione totale dell’evento, incluse le recensioni e le polemiche sollevate. Infine un ultimo arricchimento è venuto dagli artisti e dalle loro fondazioni che hanno fornito precisazioni sulle opere esposte e non. In generale la ricostruzione ha potuto contare su oltre un migliaio di fotografie, provenienti dagli archivi di Claudio Abate, Leonardo Bezzola, Balthasar Burkhard, Siegfried Kühn, Dölf Preisig, Harry Shunk e Albert Winkler, una raccolta quasi completa, e per la maggior parte inedita, di tutto quanto è stato registrato attraverso le immagini fotografiche. Queste sono state sottoposte ad un’accorta analisi e sono diventate fonti di scoperte e di novità, che hanno spesso arricchito la conoscenza anche degli stessi protagonisti, ampliandone i ricordi e le visioni. Sono venute alla luce opere e installazioni, mai menzionate né registrate sia nel catalogo di Berna sia nelle successive ricerche fatte da studiosi internazionali”. Una volta tracciata la mappa di tutte le opere in mostra e non, come si è proceduto per averle? Quali problemi hanno comportato i prestiti, una volta scoperto che l’opera è andata distrutta o dispersa ? Quale metodo espositivo è stato adottato per evidenziare le assenze? “Essendo una mostra che ha rappresentato un momento di rottura rispetto alla staticità e alla fissità del lavoro d’arte, immettendo un fattore performativo, per cui a volte l’opera mutava nel corso del tempo arrivando a distruggersi, è apparso immediatamente chiaro che a Venezia la possibilità di una ricostruzione totale e originale sarebbe stata impossibile. Tuttavia si è proceduto cercando di avvicinarci al massimo risultato con la consapevolezza che il revisiting avrebbe dovuto basarsi su due realtà: la prima consistente nel reperimento delle opere originali già acquisite da raccolte private e pubbliche, ad esempio i rintracciabili lavori di Carl Andre, Claes Oldenburg, Bruce Nauman, Eva Hesse, Giovanni Anselmo, Hanne Darboven, Reiner Ruthenbeck, Marinus Boezem e Richard Tuttle, che insieme ai rifacimenti – la seconda realtà – da attuarsi invece con la collaborazione degli artisti o delle loro fondazioni che nel loro insieme avrebbero permesso la ricostruzione dell’impatto visivo nelle singole stanze, con la relazione tra volumi e materie. Il primo compito è stato assolto nella maniera tradizionale con richieste a musei e collezionisti, mentre la seconda ha richiesto un ritorno alla fonte, in questo caso l’autore stesso o il suo archivio per chiedere se era possibile una riproposta, sorta di copia espositiva o replica del lavoro: quest’ultimo caso ha sollevato diverse problematiche che hanno coinvolto gli artisti quanto i musei e i collezionisti. Tuttavia alcuni artisti non riconoscono oggi il valore di certi lavori del 1969 o li ritengono ancorati nel loro passato e non più esponibili. Se addirittura non li rinnegano come errori di gioventù o idee che non condividono più. È cambiata così tanto l’arte dal 1969? E quale approccio ha seguito in questi casi ? Nel ricostruire questa mostra ha più peso il documento storico o il rispetto del volere soggettivo dell’artista oggi a quaranta anni di distanza? “La traslazione da un momento all’altro significa un trasporto nel tempo, è una resurrezione di cariche espressive ed emotive che sono passate. Siccome non avvengono attraverso la memoria ma mediante il remake si riproducono concretamente e diventano azioni presenti, quindi una carica che era trascorsa viene riproposta come attuale. Per alcuni è difficile riproporre impulsi e motivazioni già provate, per altri non c’è alcunché di nuovo né di differente, perché il fattore attivo dell’opera è tuttora in corso ed è ancora effettiva. In un caso la rievocazione riflette acquisizioni già elaborate, ma troppo sperimentali o giovanili, per altri è già una definizione di un percorso che è testimonianza di una dichiarazione linguistica anticipatrice ma già matura. Certamente la rielaborazione odierna non corrisponde più ad un’attitudine che tendeva ad oltrepassare il linguaggio tradizionale, ma rischia di essere un ritorno al passato. Tuttavia per capire il presente bisogna far riferimento alle trasformazioni già attuate, anche se appaiono o sono errori. Dopo il 1969 l’arte si è lentamente adeguata alla società dei consumi e dell’informazione di massa, per cui la primarietà delle materie e dei gesti ha lasciato campo alla processualità industriale e mercantile. Lentamente l’operazione artistica si è tramutata in un prodotto prefabbricato ed apparente: una costruzione speculare e narrativa del reale. Si è attuata una moltiplicazione dell’esistente che ha appiattito le forme e il discorso visivi radicali e trasgressivi. Si è creato uno spettacolo dell’arte per riproporne una dimensione decorativa ed esibizionista, mentre l’arte scaturita dal 1968 aspirava ad essere de-realizzante ed iconoclasta. Di fatto l’aspirazione di When Attitudes Become Form è stata quella di abolire il rituale tradizionale del mostrare un’opera a favore di un’esperienza del suo processo di costruzione e di transito dinnanzi allo sguardo dell’osservatore. Qual è il ruolo del curatore in una ripetizione, quasi identica come ambienti e opere, di una mostra in origine curata da un altro? Esiste una sorta di ‘copyright’ nel concepire la curatela di una mostra ? Se sì quanto la mostra intesa come progetto autoriale s’avvicina ad un’opera d’arte? Nel rifare la mostra come WABF è necessario assumere lo stesso ruolo del curatore, che incontrò artisti e protagonisti oppure la rivisitazione si può fare in modo automatico, puramente tecnico, ripetendo azioni e decisioni? “Se si assume When Attitudes Become Form come un oggetto d’uso storico e linguistico, confezionato nel 1969, innalzando l’insieme a unità compatta e definita, la prima operazione curatoriale è quella di restaurarne la totalità, mettendo insieme i frammenti (i singoli lavori d’arte) dislocati e dispersi. È un processo che inizialmente è indifferente alle parti che compongono il tutto. L’intento non è suscitare nuove associazioni o assegnare nuove collocazioni, ma praticare una ricostruzione senza ridisegnarla né modificarla, usando solo gli smembramenti. È un fissarsi su una struttura rigida, ordinata e armonica in cui le relazioni tra le componenti formava un sistema chiuso. Pertanto, il ritrovamento dei residui ha quale fine di ricomporre e mettere insieme il ‘testo’ narrativo steso da Szeemann in collaborazione con gli artisti stessi, immesso tra le ‘pagine’ architettoniche, bianche, della Kunsthalle di Berna. La raccolta di queste parti, spesso effimere e disperse, insieme ai residui che sono entrati nei musei e nelle collezioni, è tesa a ricreare un puzzle o una costellazione identificabile come una totalità, all’epoca pensata quale un nuovo sistema di fare, di mostrare e di pensare l’arte. Tale processo è coinciso, quindi, con un vero e proprio restauro di un prodotto dell’attività creativa. Innanzitutto si è dovuto riconoscere il valore dell’intera operazione, come è stato ammesso da tutti gli studiosi d’arte contemporanea, poi si è identificata la sua materia cioè la sua consistenza fisica, seguita dal riconoscimento estetico e storico che ha contribuito alla necessità di trasmetterla nel futuro, quale fatto fondante di una vicenda primaria. Tale molteplice consistenza è data dall’intreccio tra architettura, opere, relazioni e tutte queste componenti sono state studiate attraverso un metodo scientifico, prima in relazione al tempo ed al luogo in cui è stata realizzata, a Berna, e poi in rapporto al presente storico e alla sua nuova collocazione a Venezia. È fondamentale indagare l’unità dell’esposizione, sia da un punto di vista qualitativo che quantitativo cercando di avvicinarci al suo intero. Il passaggio successivo è stato di verificare fino a che punto fosse possibile la ricostruzione di tale unità. Ciò è avvenuto mettendo insieme tutte le informazioni possibili sui singoli tasselli del mosaico espositivo, capendo anche dove ci sarebbero le lacune e i vuoti che potevano riguardare il materiale che componeva la mostra. Che tipo di intervento sarebbe stato necessario per colmarle? Si sarebbero ripristinate con un inserimento di simulazioni contemporanee, oppure si sarebbe lasciato un vuoto, cercando di segnalare un’assenza? O ancora in maniera più radicale sarebbe stato necessario costruire immagini in vitro, molto vicine ad un ‘falso’, quasi sempre fallimentare? Quale sarebbe stata la legittimità di un tale intervento sostitutivo o informativo? Si sarebbe lavorato caso per caso o sulle singole accumulazioni, stanza per stanza? Come risolvere tutte queste problematiche che avrebbero riguardato la visione del curatore, passata e presente, con la consapevolezza che il ruolo del curatore che non è solo quello di assemblatore di nuovi insiemi, ma anche di un ricostruttore di contesti, ambientali e culturali, dove ricostruire da buon conservatore della storia le tracce passate? A tali problematiche sollevate dal remake o dal revisiting di When Attitudes Become Form si è tentato di rispondere creando a Venezia un dialogo tra il curatore-restauratorericostruttore delle cose d’arte e l’architetto Rem Koolhaas e l’artista Thomas Demand, al fine di creare una prospettiva multipla e plurilinguistica capace di affrontare le diverse risposte architettoniche e visuali. Insieme si sono cercate e trovate soluzioni sul raccordo temporale e spaziale tra l’evento del 1969 e la decisione di un suo remake e di un suo reenacting. È sorto qui il problema della cornice che ospitava nel 1969 la mostra, totalmente diversa da quella veneziana nel 2013: la necessità di definire un trapasso tra lo spazio fisico in cui era immersa nella Kunsthalle e nella Schulwarte a Berna e quello del palazzo settecentesco di Ca’ Corner della Regina a Venezia. Due spazialità diverse che avrebbero dovuto interagire con l’oggetto When Attitudes Become Form. Quale possibile raccordo o disaccordo si deve trovare tra le due temporalità e le due spazialità? Inventarne un terzo che riguarda il godimento attuale dell’intera opera, così che risulti facile da percepire ad un pubblico attuale, oppure lavorare su uno strappo ambientale e temporale? La differenza è sostanziale e riguarda il rapporto con l’osservatore, il pubblico. Siccome qualsiasi architettura ha un valore spaziale diverso, rimuovere quella di Berna per utilizzare quella di Venezia sarebbe stata un’operazione di estrinsecazione diversa dalla formulazione storica. Annullare invece la presenza storico-muraria di Venezia a favore di una sequenza di stanze white cube avrebbe significato immettere l’insieme curato da Szeemann in un limbo, senza ancoraggi o referenze visive ed esperienziali alla situazione presente. Si è optato per una spazialità che non risolvesse il discorso a favore di una o dell’altra architettura, forzando la frattura temporale e spaziale. Il risultato è stato di creare un continuum dove il problema architettonico altera ed è alterato dall’innesto tra Kunsthalle, Schulwarte e Ca’ Corner della Regina. Non si è tentato di realizzare alcun falso criterio di continuità o di integrazione stilistica, ma si è lavorato per contrasto, immettendo in modo eclatante gli spazi moderni di Berna dentro il contenitore storico di Venezia. E, a ben vedere, entrambe le situazioni di fatto fanno parte della trasmissione dell’opera When Attitudes Become Form. Una volta trovata la cornice corretta per evidenziare la complessità di una ricostruzione, s’è passati al recupero e alla ricostruzione, quando necessario, delle figure – cioè le opere – che componevano il ‘racconto’ per immagini di Szeemann. Il lavoro del curatore a Venezia è stato dunque quello di negare la propria soggettività di assemblatore di mostre per ricostruire e restaurare un testo di un altro curatore. Questa spersonalizzazione è un tentativo di far sì che relazione oggettiva e soggettiva con la cosa esposta non siano più considerati antinomici. Il compito finale è stato quello di evocare un sorprendente prodotto d’epoca, d’identificarsi con esso, senza assumerlo come romantica e nostalgica rovina dell’altrui e proprio tempo passato. Una volta ricostruito come significante privilegiato di una serie di significati instabili e aleatori, entrare in rapporto diacronico con esso per suscitare una sensibilità attuale. E siccome questo oggetto del 1969, ricostruito e restaurato, necessitava nel 2013 di un nuovo rapporto con l’attualità, lo si è inserito in una zona di sospensione, un territorio estraneo alla sua storia e alla sua cronologia – Ca’ Corner della Regina – con l’idea di rilanciare la geografia e la storia del suo immaginario. Di fatto, inserirlo come un corpo irritante in un dentro che potesse provocare una secrezione di difesa: la sua nuova perla”. Ora che When Attitudes Become Form si è aperta a Venezia, in Cà Corner della Regina, cosa è cambiato nel suo percorso di storico e di curatore? “Rivisitare dal vero un evento che avevo vissuto in diretta a Berna e ricostruirlo, mi ha confermato la potenza del momento storico sia sul piano del linguaggio artistico che del procedere del curatore. Essendo una rivisitazione condotta in occasione della Biennale di Venezia 2013, quindi da collocarsi in un contesto non neutro, ma definito da altre proposte curatoriali – quella di Massimiliano Gioni, con il suo Palazzo Enciclopedico, e quelle delle decine e decine di curatori che sono intervenuti nelle mostre collaterali – ho capito che il pericolo dell’arte contemporanea e del suo modo di comunicare sta nel ridursi a un’immagine sottile e senza peso, capace di scorrere fluidamente, senza ancoraggio sulla parete bianca, la quale può essere metafora di un museo, di una galleria e di una fiera. Si è perso il contatto e, diciamo, il dialogo con il contesto, e l’arte si è ridotta ad un prodotto senza peso e energia, fondamentalmente un decoro temporaneo di un possibile cubo bianco, simbolico di qualsiasi contesto abitativo ospitante. Sento quindi sempre più l’esigenza di ancorare l’arte a un luogo o un territorio, invitandola a mettere le radici, senza dimenticare la storia. Ad esempio la cancellazione dell’architettura cinquecentesca dell’Arsenale, condotta attraverso la costruzione di percorsi dalle bianche pareti in legno o in cartongesso, è indice di un’astrazione ambientale, legata alla messa in un limbo dell’arte. When Attitudes Become Form era invece un tutto che il mercato ha parimenti spezzato, ma si capisce la sua forza ricomponendolo. I frammenti non formano una statua o un vaso, sono rovine, e qui sta il rischio del presente contemporaneo di trasformarsi in rovina. All’epoca l’istanza di fare arte non era tesa ad una pratica edonistica né didattica né economica, per cui le cose potevano andare distrutte o disperse, essere inutili e non funzionali. A contare era la prova di un’energia mentale e fisica, comportamentale ed emotiva che portava alla costruzione di ‘figure’ immaginarie senza alcun fine se non il piacere di esprimersi. L’aspirazione all’idea e della sua soddisfazione cercava di avere effetto sul reale, non solo in cambio della sopravvivenza, ma dell’azione sul pubblico, che allora si definiva ‘politica’: rifiuto del diletto e del decoro a favore di un produrre energetico che sollecitasse domande”.
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di Germano Celant -
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di Germano Celant - [gallery ids="9601,9602,9603,9604,9605,9606,9607,9608"]Qual è stato l’impianto teorico e stiocro che ha sostenuto la rivisitazione e la ricostruzione ,”così com’era”, della mostra curata da Harald Szeemann nel 1969 alla Kunsthalle di Berna? “È sempre la lettura della storia dell’arte a sostenere un progetto. Se si pensa alla logica che ha sostenuto la comunicazione artistica nel corso dei secoli passati si può verificare che – in generale – fino all’Ottocento gli interventi degli artisti erano eseguiti in relazione o in situazione, vale a dire rispondevano a una commissione o a un contesto che veniva loro suggerito od offerto. Quindi le opere erano messe in relazione o erano situate in un territorio ambientale o informativo che era scelto dialetticamente tra committente e artista stesso. Per un lungo periodo l’arte, che non aspira a circolare liberamente come prodotto di scambio e di consumo, si nutre di osmosi con il contesto, dalla caverna al palazzo, dalle pareti al soffitto, e forma un unicum indivisibile. Tale dialogo si spezza quando nell’Ottocento, una volta scomparso il mecenatismo dei nobili, le opere si devono adeguare ad un mercato borghese che si nutre di artefatti disponibili alla circolazione, nel 1863 si creano i Salons. Sono queste le nuove ambientazioni degli artisti ‘non integrati’, vale a dire dei ‘refusés’ e degli ‘indipendenti’ in cui sono raccolti non più integrati, ma appesi ai muri i lavori artistici da mettere in vendita. Tale salto contestuale che sradica l’intervento dall’inserimento murario crea un altro tipo di relazione e di situazione, quella tra le opere stesse e il loro allestimento. È un passaggio che non è mai stato studiato completamente, perché mancano le tracce della logica con cui gli stessi artisti entravano in relazione tra di loro, ponendo i quadri sopra velluti o sculture su piedestalli, e le poche fotografie dell’epoca non permettono una tale ricostruzione. Tuttavia l’input dell’artista sul modo di vedere la sua opera doveva essere importante e controllato, non affidato al caso o ad altri, come mercanti. E se lo era, anche questo elemento può essere soggetto di studio. Tuttavia a partire dal Novecento, le esposizioni sono sempre più controllate dagli artisti stessi, che le adottano per lanciare i loro movimenti linguistici, da Der Blaue Reiter a Monaco nel 1911 a Les Peintres Futuristes Italiens a Parigi nel 1912. Sono momenti di installazione a cui gli artisti partecipano arrivando a creare insiemi dirompenti e sorprendenti, come The First International Dada Fair, a Berlino nel 1920 e Esposition Internationale du Surréalisme a Parigi nel 1938. Si potrebbe affermare che tali insieme diventano un dispositivo dove l’apparente confusione diventa una fusione visuale che argomenta la poetica del gruppo. Il fatto di organizzare le cose o gli oggetti, le fotografie o i materiali secondo un accadere, che sembra fuori di ogni aspettativa, suscita interrogativi e domande. È la stessa cosa successa con When Attitudes Become Form, dove le opere si devono considerare in funzione dell’insieme. Qui ogni entità singola sembra scomparire a favore di un intreccio tra le parti, qualcosa che lo spettatore deve sbrogliare da sé. La concettualità nasce prima delle opere, perché il discorso deriva dal dispositivo curatoriale. Qui sta l’importanza di Szeemann che abbandona la mostra a ‘composizioni’ curiose e caotiche, dense e aperte. Se si assume la mostra come un tutto, in maniera barocca, si capisce come la mostra sia riuscita nel 1969 ad allontanarsi dal display classico e museale, vigente allora nel mondo dell’arte moderna e contemporanea. Lavorando sulle attitudini e sui loro risultati improvvisati ed effimeri, ottiene infatti effetti poetici, inventati e scoperti in situ. In tal modo il piacere del concetto si traduce in conoscenza del piacere. Non si pone alcun criterio di convenienza solo di legame, che deriva da una reciproca familiarità tra gli artisti e il loro fare. Ricostruire questo campo di energia, con le sue varietà espressive, ha significato rivisitare un dispositivo che se anticamente era architettonico, come una cappella o una chiesa, qui era basato sulla varietà e sulla variabilità di una sintonia che non era concreta e muraria, ma basata su un’integrità esperienziale condivisa. Un intreccio di momenti lirici e drammatici che hanno prodotto un tutto dall’acutezza mirabile che commuove ancora oggi. E su tale ipotesi di insieme meravigliante che si è costruito il progetto, facendolo coincidere con un’assolutezza scientifica, capace di ricreare questo tempio effimero del fare arte nel 1969. Di fatto si è cercato di continuare lo studio degli ‘interventi’ globali degli artisti in un contesto che non è più la chiesa o il palazzo, ma la mostra che è diventata il luogo del nuovo splendore contemporaneo”. Si può dire che When Attitudes Become Form rappresenti l’ultimo anelito dello sconvolgimento e della trasgressione modernista, per cui cristallizzarlo in una situazione fuori del suo contesto storico, politico e culturale non rischia di dissolvere la radicalità dell’originale? Se al tempo le immagini di tale operazione hanno avuto un effetto sulla realtà e sull’articolarsi del linguaggio dell’arte, oggi non rischiano di trasformarsi in feticizzazione nostalgica di un’illusione, quindi di una debolezza? “È evidente che la mostra organizzata da Szeemann nel 1969 è stata un’apertura verso un’immaginazione libera quanto politicamente inutile: un buon proposito di un fare rappresentativo che si connetteva alle avanguardie del modernismo. Si può assumere quale gesto morale e critico verso le proposte tradizionali del fare arte, che respingeva la realtà solo per rappresentarla e sottoporla ad un processo mimetico. Le ricerche mostrate a Berna, come in Op Losse Schroeven, realizzata in contemporanea allo Stedelijk Museum di Amsterdam, che presero il nome di Land art, Process art, Arte povera, Conceptual art, erano un ulteriore tentativo di rivalutare la dimensione pragmatica del vedere e del sentire. Vale a dire un cambio di segno espresso nell’attenzione alle tecniche e ai materiali, per esaltare una concezione poetica rispetto a una contemplativa, in cui l’essere umano è spinto a immergersi e non semplicemente guardare. Basta osservare la documentazione che riguarda l’arrivo in scena del pubblico, per capire come tale arte tendesse a un coinvolgimento fisico e corporale. Naturalmente, tale porsi è stato visto, allora, come un eccesso di negatività e di trasgressione rispetto all’istituzione. Qualcosa di ingovernabile e senza regole, che spingeva verso una demitizzazione della sacralità della pittura e della scultura: un rifiuto delle forme classiche per un’esaltazione della dimensione informe – all’epoca definita anche anti-form – della marginalità artistica. Con il suo interesse per il carattere insignificante e concreto delle materie e delle cose l’esposizione del 1969 solennizzò il carattere fortuito e caotico dell’arte, la sua permeabilità a tutti i possibili linguaggi e a tutte le possibili materie, dal piombo all’acqua, dal fuoco alla cera, dalla margarina al tubo fluorescente, dal cuoio al feltro, dai vetri rotti al ghiaccio, dalla cenere al cotone, così come a tutti gli strumenti utili, non privilegiati, dalla pala al caterpillar, dal giornale al cartellone, dalla lettura al camminare… Da cui la de-sacralizzazione di una cultura visiva che si era identificata solo con il dipingere e lo scolpire come con la dislocazione o lo spiazzamento linguistici dell’oggetto trovato. È una celebrazione del significato dell’insignificante, della realtà che si pone in sintonia proprio con il carattere effimero e temporaneo di un esistere sociale e culturale: un doppio senza valore da contrapporre a una catastrofe dei valori passati. E la sanzione prima della presenza di fare rovinoso e frammentario, dissolto e fluido, contrario ad ogni uni-dimensionalità dell’arte”. Di fatto, il reenacting di WABF rischia di tramutare l’effetto di trasgressione in una proposta rassicurante. All’epoca, l’esibizione di scarti industriali e di materie performative e mutanti che bruciavano o si scioglievano per dare corpo ad altre entità tendevano a mettere in discussione la staticità quanto la sacralità dell’artefatto, quanto del luogo espositivo, la Kunsthalle Bern, tanto da sollevare le reazioni dei conservatori che costrinsero Szeemann a dimettersi. Oggi questo non può succedere, anzi questo strappo curatoriale ed artistico viene sacralizzato. Quello che era stato proposto come elusione della fissità e delle regolarità classica ora viene fissato e dissolto in un’accettazione senza riserve: un simulacro privo di effetti. Si può affermare che oggi la radicalità e la trasgressione legate al percorso del modernismo hanno trovato un luogo ed un posto, compresa il display catastrofico e caotico della mostra di Szeemann? Il remake veneziano è l’ultimo atto sublimante di una radicalità che è ormai obsoleta? “La messa in discussione, e la conseguente azione trasgressiva, esistono perché si pone un punto di partenza e di possibile alternativa rispetto ad una condizione preesistente. L’aspetto utopico di tale fare, che implicava un mondo linguistico altro, opposto o quanto meno diverso dal precedente, va ancorato alla situazione storica del momento, il biennio 1968-1969, quando ci si accorge che l’arte si è tramutata in una atto puramente decorativo. Seppure le ricerche sviluppatesi dal 1945 al 1964, dall Espressionismo astratto alla Pop art, avessero tentato di prendere in considerazione la dimensione solitaria e disperata dell’artista, la sua angoscia esistenziale e l’esperienza drammatica del vivere, travolto dalla tragedia della seconda guerra mondiale, come il dissolvimento del valore morale e rappresentativo dell’arte ormai scalzata e fagocitata dall’immaginario mediatico, dalla pubblicità al cartoons, tali proposizioni non erano riuscite a scalzare il valore decorativo dell’artefatto. Si ponevano come duplicati di un immaginario individuale e industriale, senza indebolire e screditare minimamente la pratica del fare, del mostrare, del comunicare e del consumare l’arte. Le attitudini prodotte e mostrate a Berna sottintendevano una scena espositiva che, occupando non solo i musei, ma le strade e gli spazi pubblici, riflettesse un’azione politica in cui tutti fossero coinvolti, artisti e spettatori, e di cui tutti dovevano prendere consapevolezza. È stata questa la vera illusione che rivela ancora il desiderio di una rivoluzione illuminista intrecciata al sogno di proseguire il discorso radicale delle avanguardie del modernismo. Certamente il remake di tale evento rischia, nella sua ripetizione, di esaltare un momento ideale ma al tempo stesso serve a far percepire, mediante l’avvicinamento al suo stato ‘originale’, la realtà di un mito che non è affidabile solo alla documentazione fotografica, ma all’esperienza di un entusiasmo e di un fervore artistico che chiedeva coinvolgimento. La resurrezione di When Attitudes Become Form mette in circolazione lo spettro di una radicalità che oggi non ha più effetto, perché l’arte non è più un’arma politica rispetto alle lotte reali. Affidandosi allo sguardo dell’oggi, tali proposte appaiono forse facili e irreali ma bisogna sottolineare che questa ipotetica sconfitta ha portato ad una nuova dimensione dell’immaginario artistico. Ad un’analisi retrospettiva, si può dire che la sua effettualità sul mondo sia stata infinitesimale, ma rimane in ogni caso un’influenza sul dissolvimento delle strutture tradizionali del sistema dell’arte. Se tutto questo oggi si è trasformato in business, per cui l’arte ha perso qualsiasi identità sociale per diventare merce simbolica ed economica, significa che il tentativo di scollamento dal compromesso consumistico è fallito. L’arte si è posta a rimorchio del mercato ed è arrivata al punto estremo di inefficacia nel suo rapporto critico e poetico con la società e la cultura. Di fatto, a contare nella costruzione di When Attitudes Become Form sono stati anche gli aggiustamenti spaziali che ogni artista ha attuato per convivere con gli altri. È un muoversi interattivo, piuttosto che la creazione di uno spazio privato ed indipendente. Non si poneva infatti alcuna ‘proprietà’ ambientale, ma la semplice territorialità dell’opera stessa. Era il lavoro a cercarsi linkage con gli altri, così da stabilire un rapporto empatico e condiviso. Simile legame ha un carattere comunitario, ampiamente documentato dalle fotografie in cui diversi artisti lavorano in contemporanea, nella stessa stanza, quasi fossero una ‘comune’, ed è tipico del momento storico, basato su una pratica di socialità che è politica quanto creativa. È qualcosa di simile ad un incontro casuale che produce al tempo stesso una confusione e una fusione. La mostra di Berna è stata quasi una formazione di proposizioni che, come in un incavo terrestre, hanno trovato il loro sviluppo scendendo dai soffitti o arrampicandosi alle pareti o trovando una dimensione gravitazionale a pavimento. Il senso vero della mostra di Szeemann è stato quello di mettere insieme un divenire indeterminato dell’arte così che si percepisse un continuo transito tra le opere, in modo che non fosse possibile isolare le caratteristiche individuali, ma l’energia d’insieme. È un momento interattivo e un mettersi ‘in rete’ che evidenzia il passaggio da uno all’altro, in piena attualità: la simultaneità e la coesistenza del presente artistico, che è anche sottolineata dal messa in mostra di gesti e di azioni corporali, dalla stesura di margarina di Joseph Beuys alla distesa di piombo fuso di Richard Serra all’accensione dei giunchi di Gilberto Zorio e alla rimozione fotografica di Ger van Elk. Per non parlare dell’arte come processo ed operazione in situ che cerca di superare il senso del prodotto confezionato e fabbricato a favore dell’operazione linguistica relativa ad una specifica collocazione e situazione, che non è all’interno dell’istituzione ma si immerge nel contrasto urbano, da Michael Heizer a Daniel Buren. Nasce una mostra che funziona come un vortice capace di travolgere lo spettatore, per metterlo in relazione diretta con il processo creativo. È un modo di sottoporre il pubblico a una forza vertiginosa che ne alteri la visione, così da perdersi in essa”. Prima di arrivare ad una soluzione che integrasse la ricostruzione di una vicenda radicale in un contesto attuale, completamente dominato da altri valori non solo linguistici, ma economici come si è proceduto per acquisire tutti i dati scientifici su cui lavorare ad una mappatura completa e precisa di quanto era avvenuto a Berna? “La ricerca si è sviluppata su diversi livelli, che includevano le fonti primarie dall’archivio di Szeemann, ora presso il Getty Institute di Los Angeles, e le testimonianze dirette degli artisti o i documenti reperibili nelle loro fondazioni, quanto le tracce fotografiche e scritte nella biblioteca della Kusthalle di Berna. Attraverso la raccolta dei diversi dati, che spesso hanno portato a conferme, quanto a sorprese, è iniziata la possibile mappatura delle opere in ogni singola stanza. A questo risultato ha contribuito enormemente la collaborazione con il Getty Institute, diretto da Thomas Gaehtgens, che attraverso l’attento studio condotto da Glenn Philips con il suo team su documenti, lettere e fotografie relative a Sezeemann e a When Attitudes Become Form ha permesso l’identificazione delle opere sia in mostra che non. Accanto a questa preziosa indagine sulle fonti curatoriali si è affiancata la ricerca nell’archivio della Kunsthalle, dove si sono trovati riscontri ed informazioni utili per ampliare la visione totale dell’evento, incluse le recensioni e le polemiche sollevate. Infine un ultimo arricchimento è venuto dagli artisti e dalle loro fondazioni che hanno fornito precisazioni sulle opere esposte e non. In generale la ricostruzione ha potuto contare su oltre un migliaio di fotografie, provenienti dagli archivi di Claudio Abate, Leonardo Bezzola, Balthasar Burkhard, Siegfried Kühn, Dölf Preisig, Harry Shunk e Albert Winkler, una raccolta quasi completa, e per la maggior parte inedita, di tutto quanto è stato registrato attraverso le immagini fotografiche. Queste sono state sottoposte ad un’accorta analisi e sono diventate fonti di scoperte e di novità, che hanno spesso arricchito la conoscenza anche degli stessi protagonisti, ampliandone i ricordi e le visioni. Sono venute alla luce opere e installazioni, mai menzionate né registrate sia nel catalogo di Berna sia nelle successive ricerche fatte da studiosi internazionali”. Una volta tracciata la mappa di tutte le opere in mostra e non, come si è proceduto per averle? Quali problemi hanno comportato i prestiti, una volta scoperto che l’opera è andata distrutta o dispersa ? Quale metodo espositivo è stato adottato per evidenziare le assenze? “Essendo una mostra che ha rappresentato un momento di rottura rispetto alla staticità e alla fissità del lavoro d’arte, immettendo un fattore performativo, per cui a volte l’opera mutava nel corso del tempo arrivando a distruggersi, è apparso immediatamente chiaro che a Venezia la possibilità di una ricostruzione totale e originale sarebbe stata impossibile. Tuttavia si è proceduto cercando di avvicinarci al massimo risultato con la consapevolezza che il revisiting avrebbe dovuto basarsi su due realtà: la prima consistente nel reperimento delle opere originali già acquisite da raccolte private e pubbliche, ad esempio i rintracciabili lavori di Carl Andre, Claes Oldenburg, Bruce Nauman, Eva Hesse, Giovanni Anselmo, Hanne Darboven, Reiner Ruthenbeck, Marinus Boezem e Richard Tuttle, che insieme ai rifacimenti – la seconda realtà – da attuarsi invece con la collaborazione degli artisti o delle loro fondazioni che nel loro insieme avrebbero permesso la ricostruzione dell’impatto visivo nelle singole stanze, con la relazione tra volumi e materie. Il primo compito è stato assolto nella maniera tradizionale con richieste a musei e collezionisti, mentre la seconda ha richiesto un ritorno alla fonte, in questo caso l’autore stesso o il suo archivio per chiedere se era possibile una riproposta, sorta di copia espositiva o replica del lavoro: quest’ultimo caso ha sollevato diverse problematiche che hanno coinvolto gli artisti quanto i musei e i collezionisti. Tuttavia alcuni artisti non riconoscono oggi il valore di certi lavori del 1969 o li ritengono ancorati nel loro passato e non più esponibili. Se addirittura non li rinnegano come errori di gioventù o idee che non condividono più. È cambiata così tanto l’arte dal 1969? E quale approccio ha seguito in questi casi ? Nel ricostruire questa mostra ha più peso il documento storico o il rispetto del volere soggettivo dell’artista oggi a quaranta anni di distanza? “La traslazione da un momento all’altro significa un trasporto nel tempo, è una resurrezione di cariche espressive ed emotive che sono passate. Siccome non avvengono attraverso la memoria ma mediante il remake si riproducono concretamente e diventano azioni presenti, quindi una carica che era trascorsa viene riproposta come attuale. Per alcuni è difficile riproporre impulsi e motivazioni già provate, per altri non c’è alcunché di nuovo né di differente, perché il fattore attivo dell’opera è tuttora in corso ed è ancora effettiva. In un caso la rievocazione riflette acquisizioni già elaborate, ma troppo sperimentali o giovanili, per altri è già una definizione di un percorso che è testimonianza di una dichiarazione linguistica anticipatrice ma già matura. Certamente la rielaborazione odierna non corrisponde più ad un’attitudine che tendeva ad oltrepassare il linguaggio tradizionale, ma rischia di essere un ritorno al passato. Tuttavia per capire il presente bisogna far riferimento alle trasformazioni già attuate, anche se appaiono o sono errori. Dopo il 1969 l’arte si è lentamente adeguata alla società dei consumi e dell’informazione di massa, per cui la primarietà delle materie e dei gesti ha lasciato campo alla processualità industriale e mercantile. Lentamente l’operazione artistica si è tramutata in un prodotto prefabbricato ed apparente: una costruzione speculare e narrativa del reale. Si è attuata una moltiplicazione dell’esistente che ha appiattito le forme e il discorso visivi radicali e trasgressivi. Si è creato uno spettacolo dell’arte per riproporne una dimensione decorativa ed esibizionista, mentre l’arte scaturita dal 1968 aspirava ad essere de-realizzante ed iconoclasta. Di fatto l’aspirazione di When Attitudes Become Form è stata quella di abolire il rituale tradizionale del mostrare un’opera a favore di un’esperienza del suo processo di costruzione e di transito dinnanzi allo sguardo dell’osservatore. Qual è il ruolo del curatore in una ripetizione, quasi identica come ambienti e opere, di una mostra in origine curata da un altro? Esiste una sorta di ‘copyright’ nel concepire la curatela di una mostra ? Se sì quanto la mostra intesa come progetto autoriale s’avvicina ad un’opera d’arte? Nel rifare la mostra come WABF è necessario assumere lo stesso ruolo del curatore, che incontrò artisti e protagonisti oppure la rivisitazione si può fare in modo automatico, puramente tecnico, ripetendo azioni e decisioni? “Se si assume When Attitudes Become Form come un oggetto d’uso storico e linguistico, confezionato nel 1969, innalzando l’insieme a unità compatta e definita, la prima operazione curatoriale è quella di restaurarne la totalità, mettendo insieme i frammenti (i singoli lavori d’arte) dislocati e dispersi. È un processo che inizialmente è indifferente alle parti che compongono il tutto. L’intento non è suscitare nuove associazioni o assegnare nuove collocazioni, ma praticare una ricostruzione senza ridisegnarla né modificarla, usando solo gli smembramenti. È un fissarsi su una struttura rigida, ordinata e armonica in cui le relazioni tra le componenti formava un sistema chiuso. Pertanto, il ritrovamento dei residui ha quale fine di ricomporre e mettere insieme il ‘testo’ narrativo steso da Szeemann in collaborazione con gli artisti stessi, immesso tra le ‘pagine’ architettoniche, bianche, della Kunsthalle di Berna. La raccolta di queste parti, spesso effimere e disperse, insieme ai residui che sono entrati nei musei e nelle collezioni, è tesa a ricreare un puzzle o una costellazione identificabile come una totalità, all’epoca pensata quale un nuovo sistema di fare, di mostrare e di pensare l’arte. Tale processo è coinciso, quindi, con un vero e proprio restauro di un prodotto dell’attività creativa. Innanzitutto si è dovuto riconoscere il valore dell’intera operazione, come è stato ammesso da tutti gli studiosi d’arte contemporanea, poi si è identificata la sua materia cioè la sua consistenza fisica, seguita dal riconoscimento estetico e storico che ha contribuito alla necessità di trasmetterla nel futuro, quale fatto fondante di una vicenda primaria. Tale molteplice consistenza è data dall’intreccio tra architettura, opere, relazioni e tutte queste componenti sono state studiate attraverso un metodo scientifico, prima in relazione al tempo ed al luogo in cui è stata realizzata, a Berna, e poi in rapporto al presente storico e alla sua nuova collocazione a Venezia. È fondamentale indagare l’unità dell’esposizione, sia da un punto di vista qualitativo che quantitativo cercando di avvicinarci al suo intero. Il passaggio successivo è stato di verificare fino a che punto fosse possibile la ricostruzione di tale unità. Ciò è avvenuto mettendo insieme tutte le informazioni possibili sui singoli tasselli del mosaico espositivo, capendo anche dove ci sarebbero le lacune e i vuoti che potevano riguardare il materiale che componeva la mostra. Che tipo di intervento sarebbe stato necessario per colmarle? Si sarebbero ripristinate con un inserimento di simulazioni contemporanee, oppure si sarebbe lasciato un vuoto, cercando di segnalare un’assenza? O ancora in maniera più radicale sarebbe stato necessario costruire immagini in vitro, molto vicine ad un ‘falso’, quasi sempre fallimentare? Quale sarebbe stata la legittimità di un tale intervento sostitutivo o informativo? Si sarebbe lavorato caso per caso o sulle singole accumulazioni, stanza per stanza? Come risolvere tutte queste problematiche che avrebbero riguardato la visione del curatore, passata e presente, con la consapevolezza che il ruolo del curatore che non è solo quello di assemblatore di nuovi insiemi, ma anche di un ricostruttore di contesti, ambientali e culturali, dove ricostruire da buon conservatore della storia le tracce passate? A tali problematiche sollevate dal remake o dal revisiting di When Attitudes Become Form si è tentato di rispondere creando a Venezia un dialogo tra il curatore-restauratorericostruttore delle cose d’arte e l’architetto Rem Koolhaas e l’artista Thomas Demand, al fine di creare una prospettiva multipla e plurilinguistica capace di affrontare le diverse risposte architettoniche e visuali. Insieme si sono cercate e trovate soluzioni sul raccordo temporale e spaziale tra l’evento del 1969 e la decisione di un suo remake e di un suo reenacting. È sorto qui il problema della cornice che ospitava nel 1969 la mostra, totalmente diversa da quella veneziana nel 2013: la necessità di definire un trapasso tra lo spazio fisico in cui era immersa nella Kunsthalle e nella Schulwarte a Berna e quello del palazzo settecentesco di Ca’ Corner della Regina a Venezia. Due spazialità diverse che avrebbero dovuto interagire con l’oggetto When Attitudes Become Form. Quale possibile raccordo o disaccordo si deve trovare tra le due temporalità e le due spazialità? Inventarne un terzo che riguarda il godimento attuale dell’intera opera, così che risulti facile da percepire ad un pubblico attuale, oppure lavorare su uno strappo ambientale e temporale? La differenza è sostanziale e riguarda il rapporto con l’osservatore, il pubblico. Siccome qualsiasi architettura ha un valore spaziale diverso, rimuovere quella di Berna per utilizzare quella di Venezia sarebbe stata un’operazione di estrinsecazione diversa dalla formulazione storica. Annullare invece la presenza storico-muraria di Venezia a favore di una sequenza di stanze white cube avrebbe significato immettere l’insieme curato da Szeemann in un limbo, senza ancoraggi o referenze visive ed esperienziali alla situazione presente. Si è optato per una spazialità che non risolvesse il discorso a favore di una o dell’altra architettura, forzando la frattura temporale e spaziale. Il risultato è stato di creare un continuum dove il problema architettonico altera ed è alterato dall’innesto tra Kunsthalle, Schulwarte e Ca’ Corner della Regina. Non si è tentato di realizzare alcun falso criterio di continuità o di integrazione stilistica, ma si è lavorato per contrasto, immettendo in modo eclatante gli spazi moderni di Berna dentro il contenitore storico di Venezia. E, a ben vedere, entrambe le situazioni di fatto fanno parte della trasmissione dell’opera When Attitudes Become Form. Una volta trovata la cornice corretta per evidenziare la complessità di una ricostruzione, s’è passati al recupero e alla ricostruzione, quando necessario, delle figure – cioè le opere – che componevano il ‘racconto’ per immagini di Szeemann. Il lavoro del curatore a Venezia è stato dunque quello di negare la propria soggettività di assemblatore di mostre per ricostruire e restaurare un testo di un altro curatore. Questa spersonalizzazione è un tentativo di far sì che relazione oggettiva e soggettiva con la cosa esposta non siano più considerati antinomici. Il compito finale è stato quello di evocare un sorprendente prodotto d’epoca, d’identificarsi con esso, senza assumerlo come romantica e nostalgica rovina dell’altrui e proprio tempo passato. Una volta ricostruito come significante privilegiato di una serie di significati instabili e aleatori, entrare in rapporto diacronico con esso per suscitare una sensibilità attuale. E siccome questo oggetto del 1969, ricostruito e restaurato, necessitava nel 2013 di un nuovo rapporto con l’attualità, lo si è inserito in una zona di sospensione, un territorio estraneo alla sua storia e alla sua cronologia – Ca’ Corner della Regina – con l’idea di rilanciare la geografia e la storia del suo immaginario. Di fatto, inserirlo come un corpo irritante in un dentro che potesse provocare una secrezione di difesa: la sua nuova perla”. Ora che When Attitudes Become Form si è aperta a Venezia, in Cà Corner della Regina, cosa è cambiato nel suo percorso di storico e di curatore? “Rivisitare dal vero un evento che avevo vissuto in diretta a Berna e ricostruirlo, mi ha confermato la potenza del momento storico sia sul piano del linguaggio artistico che del procedere del curatore. Essendo una rivisitazione condotta in occasione della Biennale di Venezia 2013, quindi da collocarsi in un contesto non neutro, ma definito da altre proposte curatoriali – quella di Massimiliano Gioni, con il suo Palazzo Enciclopedico, e quelle delle decine e decine di curatori che sono intervenuti nelle mostre collaterali – ho capito che il pericolo dell’arte contemporanea e del suo modo di comunicare sta nel ridursi a un’immagine sottile e senza peso, capace di scorrere fluidamente, senza ancoraggio sulla parete bianca, la quale può essere metafora di un museo, di una galleria e di una fiera. Si è perso il contatto e, diciamo, il dialogo con il contesto, e l’arte si è ridotta ad un prodotto senza peso e energia, fondamentalmente un decoro temporaneo di un possibile cubo bianco, simbolico di qualsiasi contesto abitativo ospitante. Sento quindi sempre più l’esigenza di ancorare l’arte a un luogo o un territorio, invitandola a mettere le radici, senza dimenticare la storia. Ad esempio la cancellazione dell’architettura cinquecentesca dell’Arsenale, condotta attraverso la costruzione di percorsi dalle bianche pareti in legno o in cartongesso, è indice di un’astrazione ambientale, legata alla messa in un limbo dell’arte. When Attitudes Become Form era invece un tutto che il mercato ha parimenti spezzato, ma si capisce la sua forza ricomponendolo. I frammenti non formano una statua o un vaso, sono rovine, e qui sta il rischio del presente contemporaneo di trasformarsi in rovina. All’epoca l’istanza di fare arte non era tesa ad una pratica edonistica né didattica né economica, per cui le cose potevano andare distrutte o disperse, essere inutili e non funzionali. A contare era la prova di un’energia mentale e fisica, comportamentale ed emotiva che portava alla costruzione di ‘figure’ immaginarie senza alcun fine se non il piacere di esprimersi. L’aspirazione all’idea e della sua soddisfazione cercava di avere effetto sul reale, non solo in cambio della sopravvivenza, ma dell’azione sul pubblico, che allora si definiva ‘politica’: rifiuto del diletto e del decoro a favore di un produrre energetico che sollecitasse domande”.
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di Germano Celant - [gallery ids="9601,9602,9603,9604,9605,9606,9607,9608"]Qual è stato l’impianto teorico e stiocro che ha sostenuto la rivisitazione e la ricostruzione ,”così com’era”, della mostra curata da Harald Szeemann nel 1969 alla Kunsthalle di Berna? “È sempre la lettura della storia dell’arte a sostenere un progetto. Se si pensa alla logica che ha sostenuto la comunicazione artistica nel corso dei secoli passati si può verificare che – in generale – fino all’Ottocento gli interventi degli artisti erano eseguiti in relazione o in situazione, vale a dire rispondevano a una commissione o a un contesto che veniva loro suggerito od offerto. Quindi le opere erano messe in relazione o erano situate in un territorio ambientale o informativo che era scelto dialetticamente tra committente e artista stesso. Per un lungo periodo l’arte, che non aspira a circolare liberamente come prodotto di scambio e di consumo, si nutre di osmosi con il contesto, dalla caverna al palazzo, dalle pareti al soffitto, e forma un unicum indivisibile. Tale dialogo si spezza quando nell’Ottocento, una volta scomparso il mecenatismo dei nobili, le opere si devono adeguare ad un mercato borghese che si nutre di artefatti disponibili alla circolazione, nel 1863 si creano i Salons. Sono queste le nuove ambientazioni degli artisti ‘non integrati’, vale a dire dei ‘refusés’ e degli ‘indipendenti’ in cui sono raccolti non più integrati, ma appesi ai muri i lavori artistici da mettere in vendita. Tale salto contestuale che sradica l’intervento dall’inserimento murario crea un altro tipo di relazione e di situazione, quella tra le opere stesse e il loro allestimento. È un passaggio che non è mai stato studiato completamente, perché mancano le tracce della logica con cui gli stessi artisti entravano in relazione tra di loro, ponendo i quadri sopra velluti o sculture su piedestalli, e le poche fotografie dell’epoca non permettono una tale ricostruzione. Tuttavia l’input dell’artista sul modo di vedere la sua opera doveva essere importante e controllato, non affidato al caso o ad altri, come mercanti. E se lo era, anche questo elemento può essere soggetto di studio. Tuttavia a partire dal Novecento, le esposizioni sono sempre più controllate dagli artisti stessi, che le adottano per lanciare i loro movimenti linguistici, da Der Blaue Reiter a Monaco nel 1911 a Les Peintres Futuristes Italiens a Parigi nel 1912. Sono momenti di installazione a cui gli artisti partecipano arrivando a creare insiemi dirompenti e sorprendenti, come The First International Dada Fair, a Berlino nel 1920 e Esposition Internationale du Surréalisme a Parigi nel 1938. Si potrebbe affermare che tali insieme diventano un dispositivo dove l’apparente confusione diventa una fusione visuale che argomenta la poetica del gruppo. Il fatto di organizzare le cose o gli oggetti, le fotografie o i materiali secondo un accadere, che sembra fuori di ogni aspettativa, suscita interrogativi e domande. È la stessa cosa successa con When Attitudes Become Form, dove le opere si devono considerare in funzione dell’insieme. Qui ogni entità singola sembra scomparire a favore di un intreccio tra le parti, qualcosa che lo spettatore deve sbrogliare da sé. La concettualità nasce prima delle opere, perché il discorso deriva dal dispositivo curatoriale. Qui sta l’importanza di Szeemann che abbandona la mostra a ‘composizioni’ curiose e caotiche, dense e aperte. Se si assume la mostra come un tutto, in maniera barocca, si capisce come la mostra sia riuscita nel 1969 ad allontanarsi dal display classico e museale, vigente allora nel mondo dell’arte moderna e contemporanea. Lavorando sulle attitudini e sui loro risultati improvvisati ed effimeri, ottiene infatti effetti poetici, inventati e scoperti in situ. In tal modo il piacere del concetto si traduce in conoscenza del piacere. Non si pone alcun criterio di convenienza solo di legame, che deriva da una reciproca familiarità tra gli artisti e il loro fare. Ricostruire questo campo di energia, con le sue varietà espressive, ha significato rivisitare un dispositivo che se anticamente era architettonico, come una cappella o una chiesa, qui era basato sulla varietà e sulla variabilità di una sintonia che non era concreta e muraria, ma basata su un’integrità esperienziale condivisa. Un intreccio di momenti lirici e drammatici che hanno prodotto un tutto dall’acutezza mirabile che commuove ancora oggi. E su tale ipotesi di insieme meravigliante che si è costruito il progetto, facendolo coincidere con un’assolutezza scientifica, capace di ricreare questo tempio effimero del fare arte nel 1969. Di fatto si è cercato di continuare lo studio degli ‘interventi’ globali degli artisti in un contesto che non è più la chiesa o il palazzo, ma la mostra che è diventata il luogo del nuovo splendore contemporaneo”. Si può dire che When Attitudes Become Form rappresenti l’ultimo anelito dello sconvolgimento e della trasgressione modernista, per cui cristallizzarlo in una situazione fuori del suo contesto storico, politico e culturale non rischia di dissolvere la radicalità dell’originale? Se al tempo le immagini di tale operazione hanno avuto un effetto sulla realtà e sull’articolarsi del linguaggio dell’arte, oggi non rischiano di trasformarsi in feticizzazione nostalgica di un’illusione, quindi di una debolezza? “È evidente che la mostra organizzata da Szeemann nel 1969 è stata un’apertura verso un’immaginazione libera quanto politicamente inutile: un buon proposito di un fare rappresentativo che si connetteva alle avanguardie del modernismo. Si può assumere quale gesto morale e critico verso le proposte tradizionali del fare arte, che respingeva la realtà solo per rappresentarla e sottoporla ad un processo mimetico. Le ricerche mostrate a Berna, come in Op Losse Schroeven, realizzata in contemporanea allo Stedelijk Museum di Amsterdam, che presero il nome di Land art, Process art, Arte povera, Conceptual art, erano un ulteriore tentativo di rivalutare la dimensione pragmatica del vedere e del sentire. Vale a dire un cambio di segno espresso nell’attenzione alle tecniche e ai materiali, per esaltare una concezione poetica rispetto a una contemplativa, in cui l’essere umano è spinto a immergersi e non semplicemente guardare. Basta osservare la documentazione che riguarda l’arrivo in scena del pubblico, per capire come tale arte tendesse a un coinvolgimento fisico e corporale. Naturalmente, tale porsi è stato visto, allora, come un eccesso di negatività e di trasgressione rispetto all’istituzione. Qualcosa di ingovernabile e senza regole, che spingeva verso una demitizzazione della sacralità della pittura e della scultura: un rifiuto delle forme classiche per un’esaltazione della dimensione informe – all’epoca definita anche anti-form – della marginalità artistica. Con il suo interesse per il carattere insignificante e concreto delle materie e delle cose l’esposizione del 1969 solennizzò il carattere fortuito e caotico dell’arte, la sua permeabilità a tutti i possibili linguaggi e a tutte le possibili materie, dal piombo all’acqua, dal fuoco alla cera, dalla margarina al tubo fluorescente, dal cuoio al feltro, dai vetri rotti al ghiaccio, dalla cenere al cotone, così come a tutti gli strumenti utili, non privilegiati, dalla pala al caterpillar, dal giornale al cartellone, dalla lettura al camminare… Da cui la de-sacralizzazione di una cultura visiva che si era identificata solo con il dipingere e lo scolpire come con la dislocazione o lo spiazzamento linguistici dell’oggetto trovato. È una celebrazione del significato dell’insignificante, della realtà che si pone in sintonia proprio con il carattere effimero e temporaneo di un esistere sociale e culturale: un doppio senza valore da contrapporre a una catastrofe dei valori passati. E la sanzione prima della presenza di fare rovinoso e frammentario, dissolto e fluido, contrario ad ogni uni-dimensionalità dell’arte”. Di fatto, il reenacting di WABF rischia di tramutare l’effetto di trasgressione in una proposta rassicurante. All’epoca, l’esibizione di scarti industriali e di materie performative e mutanti che bruciavano o si scioglievano per dare corpo ad altre entità tendevano a mettere in discussione la staticità quanto la sacralità dell’artefatto, quanto del luogo espositivo, la Kunsthalle Bern, tanto da sollevare le reazioni dei conservatori che costrinsero Szeemann a dimettersi. Oggi questo non può succedere, anzi questo strappo curatoriale ed artistico viene sacralizzato. Quello che era stato proposto come elusione della fissità e delle regolarità classica ora viene fissato e dissolto in un’accettazione senza riserve: un simulacro privo di effetti. Si può affermare che oggi la radicalità e la trasgressione legate al percorso del modernismo hanno trovato un luogo ed un posto, compresa il display catastrofico e caotico della mostra di Szeemann? Il remake veneziano è l’ultimo atto sublimante di una radicalità che è ormai obsoleta? “La messa in discussione, e la conseguente azione trasgressiva, esistono perché si pone un punto di partenza e di possibile alternativa rispetto ad una condizione preesistente. L’aspetto utopico di tale fare, che implicava un mondo linguistico altro, opposto o quanto meno diverso dal precedente, va ancorato alla situazione storica del momento, il biennio 1968-1969, quando ci si accorge che l’arte si è tramutata in una atto puramente decorativo. Seppure le ricerche sviluppatesi dal 1945 al 1964, dall Espressionismo astratto alla Pop art, avessero tentato di prendere in considerazione la dimensione solitaria e disperata dell’artista, la sua angoscia esistenziale e l’esperienza drammatica del vivere, travolto dalla tragedia della seconda guerra mondiale, come il dissolvimento del valore morale e rappresentativo dell’arte ormai scalzata e fagocitata dall’immaginario mediatico, dalla pubblicità al cartoons, tali proposizioni non erano riuscite a scalzare il valore decorativo dell’artefatto. Si ponevano come duplicati di un immaginario individuale e industriale, senza indebolire e screditare minimamente la pratica del fare, del mostrare, del comunicare e del consumare l’arte. Le attitudini prodotte e mostrate a Berna sottintendevano una scena espositiva che, occupando non solo i musei, ma le strade e gli spazi pubblici, riflettesse un’azione politica in cui tutti fossero coinvolti, artisti e spettatori, e di cui tutti dovevano prendere consapevolezza. È stata questa la vera illusione che rivela ancora il desiderio di una rivoluzione illuminista intrecciata al sogno di proseguire il discorso radicale delle avanguardie del modernismo. Certamente il remake di tale evento rischia, nella sua ripetizione, di esaltare un momento ideale ma al tempo stesso serve a far percepire, mediante l’avvicinamento al suo stato ‘originale’, la realtà di un mito che non è affidabile solo alla documentazione fotografica, ma all’esperienza di un entusiasmo e di un fervore artistico che chiedeva coinvolgimento. La resurrezione di When Attitudes Become Form mette in circolazione lo spettro di una radicalità che oggi non ha più effetto, perché l’arte non è più un’arma politica rispetto alle lotte reali. Affidandosi allo sguardo dell’oggi, tali proposte appaiono forse facili e irreali ma bisogna sottolineare che questa ipotetica sconfitta ha portato ad una nuova dimensione dell’immaginario artistico. Ad un’analisi retrospettiva, si può dire che la sua effettualità sul mondo sia stata infinitesimale, ma rimane in ogni caso un’influenza sul dissolvimento delle strutture tradizionali del sistema dell’arte. Se tutto questo oggi si è trasformato in business, per cui l’arte ha perso qualsiasi identità sociale per diventare merce simbolica ed economica, significa che il tentativo di scollamento dal compromesso consumistico è fallito. L’arte si è posta a rimorchio del mercato ed è arrivata al punto estremo di inefficacia nel suo rapporto critico e poetico con la società e la cultura. Di fatto, a contare nella costruzione di When Attitudes Become Form sono stati anche gli aggiustamenti spaziali che ogni artista ha attuato per convivere con gli altri. È un muoversi interattivo, piuttosto che la creazione di uno spazio privato ed indipendente. Non si poneva infatti alcuna ‘proprietà’ ambientale, ma la semplice territorialità dell’opera stessa. Era il lavoro a cercarsi linkage con gli altri, così da stabilire un rapporto empatico e condiviso. Simile legame ha un carattere comunitario, ampiamente documentato dalle fotografie in cui diversi artisti lavorano in contemporanea, nella stessa stanza, quasi fossero una ‘comune’, ed è tipico del momento storico, basato su una pratica di socialità che è politica quanto creativa. È qualcosa di simile ad un incontro casuale che produce al tempo stesso una confusione e una fusione. La mostra di Berna è stata quasi una formazione di proposizioni che, come in un incavo terrestre, hanno trovato il loro sviluppo scendendo dai soffitti o arrampicandosi alle pareti o trovando una dimensione gravitazionale a pavimento. Il senso vero della mostra di Szeemann è stato quello di mettere insieme un divenire indeterminato dell’arte così che si percepisse un continuo transito tra le opere, in modo che non fosse possibile isolare le caratteristiche individuali, ma l’energia d’insieme. È un momento interattivo e un mettersi ‘in rete’ che evidenzia il passaggio da uno all’altro, in piena attualità: la simultaneità e la coesistenza del presente artistico, che è anche sottolineata dal messa in mostra di gesti e di azioni corporali, dalla stesura di margarina di Joseph Beuys alla distesa di piombo fuso di Richard Serra all’accensione dei giunchi di Gilberto Zorio e alla rimozione fotografica di Ger van Elk. Per non parlare dell’arte come processo ed operazione in situ che cerca di superare il senso del prodotto confezionato e fabbricato a favore dell’operazione linguistica relativa ad una specifica collocazione e situazione, che non è all’interno dell’istituzione ma si immerge nel contrasto urbano, da Michael Heizer a Daniel Buren. Nasce una mostra che funziona come un vortice capace di travolgere lo spettatore, per metterlo in relazione diretta con il processo creativo. È un modo di sottoporre il pubblico a una forza vertiginosa che ne alteri la visione, così da perdersi in essa”. Prima di arrivare ad una soluzione che integrasse la ricostruzione di una vicenda radicale in un contesto attuale, completamente dominato da altri valori non solo linguistici, ma economici come si è proceduto per acquisire tutti i dati scientifici su cui lavorare ad una mappatura completa e precisa di quanto era avvenuto a Berna? “La ricerca si è sviluppata su diversi livelli, che includevano le fonti primarie dall’archivio di Szeemann, ora presso il Getty Institute di Los Angeles, e le testimonianze dirette degli artisti o i documenti reperibili nelle loro fondazioni, quanto le tracce fotografiche e scritte nella biblioteca della Kusthalle di Berna. Attraverso la raccolta dei diversi dati, che spesso hanno portato a conferme, quanto a sorprese, è iniziata la possibile mappatura delle opere in ogni singola stanza. A questo risultato ha contribuito enormemente la collaborazione con il Getty Institute, diretto da Thomas Gaehtgens, che attraverso l’attento studio condotto da Glenn Philips con il suo team su documenti, lettere e fotografie relative a Sezeemann e a When Attitudes Become Form ha permesso l’identificazione delle opere sia in mostra che non. Accanto a questa preziosa indagine sulle fonti curatoriali si è affiancata la ricerca nell’archivio della Kunsthalle, dove si sono trovati riscontri ed informazioni utili per ampliare la visione totale dell’evento, incluse le recensioni e le polemiche sollevate. Infine un ultimo arricchimento è venuto dagli artisti e dalle loro fondazioni che hanno fornito precisazioni sulle opere esposte e non. In generale la ricostruzione ha potuto contare su oltre un migliaio di fotografie, provenienti dagli archivi di Claudio Abate, Leonardo Bezzola, Balthasar Burkhard, Siegfried Kühn, Dölf Preisig, Harry Shunk e Albert Winkler, una raccolta quasi completa, e per la maggior parte inedita, di tutto quanto è stato registrato attraverso le immagini fotografiche. Queste sono state sottoposte ad un’accorta analisi e sono diventate fonti di scoperte e di novità, che hanno spesso arricchito la conoscenza anche degli stessi protagonisti, ampliandone i ricordi e le visioni. Sono venute alla luce opere e installazioni, mai menzionate né registrate sia nel catalogo di Berna sia nelle successive ricerche fatte da studiosi internazionali”. Una volta tracciata la mappa di tutte le opere in mostra e non, come si è proceduto per averle? Quali problemi hanno comportato i prestiti, una volta scoperto che l’opera è andata distrutta o dispersa ? Quale metodo espositivo è stato adottato per evidenziare le assenze? “Essendo una mostra che ha rappresentato un momento di rottura rispetto alla staticità e alla fissità del lavoro d’arte, immettendo un fattore performativo, per cui a volte l’opera mutava nel corso del tempo arrivando a distruggersi, è apparso immediatamente chiaro che a Venezia la possibilità di una ricostruzione totale e originale sarebbe stata impossibile. Tuttavia si è proceduto cercando di avvicinarci al massimo risultato con la consapevolezza che il revisiting avrebbe dovuto basarsi su due realtà: la prima consistente nel reperimento delle opere originali già acquisite da raccolte private e pubbliche, ad esempio i rintracciabili lavori di Carl Andre, Claes Oldenburg, Bruce Nauman, Eva Hesse, Giovanni Anselmo, Hanne Darboven, Reiner Ruthenbeck, Marinus Boezem e Richard Tuttle, che insieme ai rifacimenti – la seconda realtà – da attuarsi invece con la collaborazione degli artisti o delle loro fondazioni che nel loro insieme avrebbero permesso la ricostruzione dell’impatto visivo nelle singole stanze, con la relazione tra volumi e materie. Il primo compito è stato assolto nella maniera tradizionale con richieste a musei e collezionisti, mentre la seconda ha richiesto un ritorno alla fonte, in questo caso l’autore stesso o il suo archivio per chiedere se era possibile una riproposta, sorta di copia espositiva o replica del lavoro: quest’ultimo caso ha sollevato diverse problematiche che hanno coinvolto gli artisti quanto i musei e i collezionisti. Tuttavia alcuni artisti non riconoscono oggi il valore di certi lavori del 1969 o li ritengono ancorati nel loro passato e non più esponibili. Se addirittura non li rinnegano come errori di gioventù o idee che non condividono più. È cambiata così tanto l’arte dal 1969? E quale approccio ha seguito in questi casi ? Nel ricostruire questa mostra ha più peso il documento storico o il rispetto del volere soggettivo dell’artista oggi a quaranta anni di distanza? “La traslazione da un momento all’altro significa un trasporto nel tempo, è una resurrezione di cariche espressive ed emotive che sono passate. Siccome non avvengono attraverso la memoria ma mediante il remake si riproducono concretamente e diventano azioni presenti, quindi una carica che era trascorsa viene riproposta come attuale. Per alcuni è difficile riproporre impulsi e motivazioni già provate, per altri non c’è alcunché di nuovo né di differente, perché il fattore attivo dell’opera è tuttora in corso ed è ancora effettiva. In un caso la rievocazione riflette acquisizioni già elaborate, ma troppo sperimentali o giovanili, per altri è già una definizione di un percorso che è testimonianza di una dichiarazione linguistica anticipatrice ma già matura. Certamente la rielaborazione odierna non corrisponde più ad un’attitudine che tendeva ad oltrepassare il linguaggio tradizionale, ma rischia di essere un ritorno al passato. Tuttavia per capire il presente bisogna far riferimento alle trasformazioni già attuate, anche se appaiono o sono errori. Dopo il 1969 l’arte si è lentamente adeguata alla società dei consumi e dell’informazione di massa, per cui la primarietà delle materie e dei gesti ha lasciato campo alla processualità industriale e mercantile. Lentamente l’operazione artistica si è tramutata in un prodotto prefabbricato ed apparente: una costruzione speculare e narrativa del reale. Si è attuata una moltiplicazione dell’esistente che ha appiattito le forme e il discorso visivi radicali e trasgressivi. Si è creato uno spettacolo dell’arte per riproporne una dimensione decorativa ed esibizionista, mentre l’arte scaturita dal 1968 aspirava ad essere de-realizzante ed iconoclasta. Di fatto l’aspirazione di When Attitudes Become Form è stata quella di abolire il rituale tradizionale del mostrare un’opera a favore di un’esperienza del suo processo di costruzione e di transito dinnanzi allo sguardo dell’osservatore. Qual è il ruolo del curatore in una ripetizione, quasi identica come ambienti e opere, di una mostra in origine curata da un altro? Esiste una sorta di ‘copyright’ nel concepire la curatela di una mostra ? Se sì quanto la mostra intesa come progetto autoriale s’avvicina ad un’opera d’arte? Nel rifare la mostra come WABF è necessario assumere lo stesso ruolo del curatore, che incontrò artisti e protagonisti oppure la rivisitazione si può fare in modo automatico, puramente tecnico, ripetendo azioni e decisioni? “Se si assume When Attitudes Become Form come un oggetto d’uso storico e linguistico, confezionato nel 1969, innalzando l’insieme a unità compatta e definita, la prima operazione curatoriale è quella di restaurarne la totalità, mettendo insieme i frammenti (i singoli lavori d’arte) dislocati e dispersi. È un processo che inizialmente è indifferente alle parti che compongono il tutto. L’intento non è suscitare nuove associazioni o assegnare nuove collocazioni, ma praticare una ricostruzione senza ridisegnarla né modificarla, usando solo gli smembramenti. È un fissarsi su una struttura rigida, ordinata e armonica in cui le relazioni tra le componenti formava un sistema chiuso. Pertanto, il ritrovamento dei residui ha quale fine di ricomporre e mettere insieme il ‘testo’ narrativo steso da Szeemann in collaborazione con gli artisti stessi, immesso tra le ‘pagine’ architettoniche, bianche, della Kunsthalle di Berna. La raccolta di queste parti, spesso effimere e disperse, insieme ai residui che sono entrati nei musei e nelle collezioni, è tesa a ricreare un puzzle o una costellazione identificabile come una totalità, all’epoca pensata quale un nuovo sistema di fare, di mostrare e di pensare l’arte. Tale processo è coinciso, quindi, con un vero e proprio restauro di un prodotto dell’attività creativa. Innanzitutto si è dovuto riconoscere il valore dell’intera operazione, come è stato ammesso da tutti gli studiosi d’arte contemporanea, poi si è identificata la sua materia cioè la sua consistenza fisica, seguita dal riconoscimento estetico e storico che ha contribuito alla necessità di trasmetterla nel futuro, quale fatto fondante di una vicenda primaria. Tale molteplice consistenza è data dall’intreccio tra architettura, opere, relazioni e tutte queste componenti sono state studiate attraverso un metodo scientifico, prima in relazione al tempo ed al luogo in cui è stata realizzata, a Berna, e poi in rapporto al presente storico e alla sua nuova collocazione a Venezia. È fondamentale indagare l’unità dell’esposizione, sia da un punto di vista qualitativo che quantitativo cercando di avvicinarci al suo intero. Il passaggio successivo è stato di verificare fino a che punto fosse possibile la ricostruzione di tale unità. Ciò è avvenuto mettendo insieme tutte le informazioni possibili sui singoli tasselli del mosaico espositivo, capendo anche dove ci sarebbero le lacune e i vuoti che potevano riguardare il materiale che componeva la mostra. Che tipo di intervento sarebbe stato necessario per colmarle? Si sarebbero ripristinate con un inserimento di simulazioni contemporanee, oppure si sarebbe lasciato un vuoto, cercando di segnalare un’assenza? O ancora in maniera più radicale sarebbe stato necessario costruire immagini in vitro, molto vicine ad un ‘falso’, quasi sempre fallimentare? Quale sarebbe stata la legittimità di un tale intervento sostitutivo o informativo? Si sarebbe lavorato caso per caso o sulle singole accumulazioni, stanza per stanza? Come risolvere tutte queste problematiche che avrebbero riguardato la visione del curatore, passata e presente, con la consapevolezza che il ruolo del curatore che non è solo quello di assemblatore di nuovi insiemi, ma anche di un ricostruttore di contesti, ambientali e culturali, dove ricostruire da buon conservatore della storia le tracce passate? A tali problematiche sollevate dal remake o dal revisiting di When Attitudes Become Form si è tentato di rispondere creando a Venezia un dialogo tra il curatore-restauratorericostruttore delle cose d’arte e l’architetto Rem Koolhaas e l’artista Thomas Demand, al fine di creare una prospettiva multipla e plurilinguistica capace di affrontare le diverse risposte architettoniche e visuali. Insieme si sono cercate e trovate soluzioni sul raccordo temporale e spaziale tra l’evento del 1969 e la decisione di un suo remake e di un suo reenacting. È sorto qui il problema della cornice che ospitava nel 1969 la mostra, totalmente diversa da quella veneziana nel 2013: la necessità di definire un trapasso tra lo spazio fisico in cui era immersa nella Kunsthalle e nella Schulwarte a Berna e quello del palazzo settecentesco di Ca’ Corner della Regina a Venezia. Due spazialità diverse che avrebbero dovuto interagire con l’oggetto When Attitudes Become Form. Quale possibile raccordo o disaccordo si deve trovare tra le due temporalità e le due spazialità? Inventarne un terzo che riguarda il godimento attuale dell’intera opera, così che risulti facile da percepire ad un pubblico attuale, oppure lavorare su uno strappo ambientale e temporale? La differenza è sostanziale e riguarda il rapporto con l’osservatore, il pubblico. Siccome qualsiasi architettura ha un valore spaziale diverso, rimuovere quella di Berna per utilizzare quella di Venezia sarebbe stata un’operazione di estrinsecazione diversa dalla formulazione storica. Annullare invece la presenza storico-muraria di Venezia a favore di una sequenza di stanze white cube avrebbe significato immettere l’insieme curato da Szeemann in un limbo, senza ancoraggi o referenze visive ed esperienziali alla situazione presente. Si è optato per una spazialità che non risolvesse il discorso a favore di una o dell’altra architettura, forzando la frattura temporale e spaziale. Il risultato è stato di creare un continuum dove il problema architettonico altera ed è alterato dall’innesto tra Kunsthalle, Schulwarte e Ca’ Corner della Regina. Non si è tentato di realizzare alcun falso criterio di continuità o di integrazione stilistica, ma si è lavorato per contrasto, immettendo in modo eclatante gli spazi moderni di Berna dentro il contenitore storico di Venezia. E, a ben vedere, entrambe le situazioni di fatto fanno parte della trasmissione dell’opera When Attitudes Become Form. Una volta trovata la cornice corretta per evidenziare la complessità di una ricostruzione, s’è passati al recupero e alla ricostruzione, quando necessario, delle figure – cioè le opere – che componevano il ‘racconto’ per immagini di Szeemann. Il lavoro del curatore a Venezia è stato dunque quello di negare la propria soggettività di assemblatore di mostre per ricostruire e restaurare un testo di un altro curatore. Questa spersonalizzazione è un tentativo di far sì che relazione oggettiva e soggettiva con la cosa esposta non siano più considerati antinomici. Il compito finale è stato quello di evocare un sorprendente prodotto d’epoca, d’identificarsi con esso, senza assumerlo come romantica e nostalgica rovina dell’altrui e proprio tempo passato. Una volta ricostruito come significante privilegiato di una serie di significati instabili e aleatori, entrare in rapporto diacronico con esso per suscitare una sensibilità attuale. E siccome questo oggetto del 1969, ricostruito e restaurato, necessitava nel 2013 di un nuovo rapporto con l’attualità, lo si è inserito in una zona di sospensione, un territorio estraneo alla sua storia e alla sua cronologia – Ca’ Corner della Regina – con l’idea di rilanciare la geografia e la storia del suo immaginario. Di fatto, inserirlo come un corpo irritante in un dentro che potesse provocare una secrezione di difesa: la sua nuova perla”. Ora che When Attitudes Become Form si è aperta a Venezia, in Cà Corner della Regina, cosa è cambiato nel suo percorso di storico e di curatore? “Rivisitare dal vero un evento che avevo vissuto in diretta a Berna e ricostruirlo, mi ha confermato la potenza del momento storico sia sul piano del linguaggio artistico che del procedere del curatore. Essendo una rivisitazione condotta in occasione della Biennale di Venezia 2013, quindi da collocarsi in un contesto non neutro, ma definito da altre proposte curatoriali – quella di Massimiliano Gioni, con il suo Palazzo Enciclopedico, e quelle delle decine e decine di curatori che sono intervenuti nelle mostre collaterali – ho capito che il pericolo dell’arte contemporanea e del suo modo di comunicare sta nel ridursi a un’immagine sottile e senza peso, capace di scorrere fluidamente, senza ancoraggio sulla parete bianca, la quale può essere metafora di un museo, di una galleria e di una fiera. Si è perso il contatto e, diciamo, il dialogo con il contesto, e l’arte si è ridotta ad un prodotto senza peso e energia, fondamentalmente un decoro temporaneo di un possibile cubo bianco, simbolico di qualsiasi contesto abitativo ospitante. Sento quindi sempre più l’esigenza di ancorare l’arte a un luogo o un territorio, invitandola a mettere le radici, senza dimenticare la storia. Ad esempio la cancellazione dell’architettura cinquecentesca dell’Arsenale, condotta attraverso la costruzione di percorsi dalle bianche pareti in legno o in cartongesso, è indice di un’astrazione ambientale, legata alla messa in un limbo dell’arte. When Attitudes Become Form era invece un tutto che il mercato ha parimenti spezzato, ma si capisce la sua forza ricomponendolo. I frammenti non formano una statua o un vaso, sono rovine, e qui sta il rischio del presente contemporaneo di trasformarsi in rovina. All’epoca l’istanza di fare arte non era tesa ad una pratica edonistica né didattica né economica, per cui le cose potevano andare distrutte o disperse, essere inutili e non funzionali. A contare era la prova di un’energia mentale e fisica, comportamentale ed emotiva che portava alla costruzione di ‘figure’ immaginarie senza alcun fine se non il piacere di esprimersi. L’aspirazione all’idea e della sua soddisfazione cercava di avere effetto sul reale, non solo in cambio della sopravvivenza, ma dell’azione sul pubblico, che allora si definiva ‘politica’: rifiuto del diletto e del decoro a favore di un produrre energetico che sollecitasse domande”.
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di Germano Celant - [gallery ids="9601,9602,9603,9604,9605,9606,9607,9608"]Qual è stato l’impianto teorico e stiocro che ha sostenuto la rivisitazione e la ricostruzione ,”così com’era”, della mostra curata da Harald Szeemann nel 1969 alla Kunsthalle di Berna? “È sempre la lettura della storia dell’arte a sostenere un progetto. Se si pensa alla logica che ha sostenuto la comunicazione artistica nel corso dei secoli passati si può verificare che – in generale – fino all’Ottocento gli interventi degli artisti erano eseguiti in relazione o in situazione, vale a dire rispondevano a una commissione o a un contesto che veniva loro suggerito od offerto. Quindi le opere erano messe in relazione o erano situate in un territorio ambientale o informativo che era scelto dialetticamente tra committente e artista stesso. Per un lungo periodo l’arte, che non aspira a circolare liberamente come prodotto di scambio e di consumo, si nutre di osmosi con il contesto, dalla caverna al palazzo, dalle pareti al soffitto, e forma un unicum indivisibile. Tale dialogo si spezza quando nell’Ottocento, una volta scomparso il mecenatismo dei nobili, le opere si devono adeguare ad un mercato borghese che si nutre di artefatti disponibili alla circolazione, nel 1863 si creano i Salons. Sono queste le nuove ambientazioni degli artisti ‘non integrati’, vale a dire dei ‘refusés’ e degli ‘indipendenti’ in cui sono raccolti non più integrati, ma appesi ai muri i lavori artistici da mettere in vendita. Tale salto contestuale che sradica l’intervento dall’inserimento murario crea un altro tipo di relazione e di situazione, quella tra le opere stesse e il loro allestimento. È un passaggio che non è mai stato studiato completamente, perché mancano le tracce della logica con cui gli stessi artisti entravano in relazione tra di loro, ponendo i quadri sopra velluti o sculture su piedestalli, e le poche fotografie dell’epoca non permettono una tale ricostruzione. Tuttavia l’input dell’artista sul modo di vedere la sua opera doveva essere importante e controllato, non affidato al caso o ad altri, come mercanti. E se lo era, anche questo elemento può essere soggetto di studio. Tuttavia a partire dal Novecento, le esposizioni sono sempre più controllate dagli artisti stessi, che le adottano per lanciare i loro movimenti linguistici, da Der Blaue Reiter a Monaco nel 1911 a Les Peintres Futuristes Italiens a Parigi nel 1912. Sono momenti di installazione a cui gli artisti partecipano arrivando a creare insiemi dirompenti e sorprendenti, come The First International Dada Fair, a Berlino nel 1920 e Esposition Internationale du Surréalisme a Parigi nel 1938. Si potrebbe affermare che tali insieme diventano un dispositivo dove l’apparente confusione diventa una fusione visuale che argomenta la poetica del gruppo. Il fatto di organizzare le cose o gli oggetti, le fotografie o i materiali secondo un accadere, che sembra fuori di ogni aspettativa, suscita interrogativi e domande. È la stessa cosa successa con When Attitudes Become Form, dove le opere si devono considerare in funzione dell’insieme. Qui ogni entità singola sembra scomparire a favore di un intreccio tra le parti, qualcosa che lo spettatore deve sbrogliare da sé. La concettualità nasce prima delle opere, perché il discorso deriva dal dispositivo curatoriale. Qui sta l’importanza di Szeemann che abbandona la mostra a ‘composizioni’ curiose e caotiche, dense e aperte. Se si assume la mostra come un tutto, in maniera barocca, si capisce come la mostra sia riuscita nel 1969 ad allontanarsi dal display classico e museale, vigente allora nel mondo dell’arte moderna e contemporanea. Lavorando sulle attitudini e sui loro risultati improvvisati ed effimeri, ottiene infatti effetti poetici, inventati e scoperti in situ. In tal modo il piacere del concetto si traduce in conoscenza del piacere. Non si pone alcun criterio di convenienza solo di legame, che deriva da una reciproca familiarità tra gli artisti e il loro fare. Ricostruire questo campo di energia, con le sue varietà espressive, ha significato rivisitare un dispositivo che se anticamente era architettonico, come una cappella o una chiesa, qui era basato sulla varietà e sulla variabilità di una sintonia che non era concreta e muraria, ma basata su un’integrità esperienziale condivisa. Un intreccio di momenti lirici e drammatici che hanno prodotto un tutto dall’acutezza mirabile che commuove ancora oggi. E su tale ipotesi di insieme meravigliante che si è costruito il progetto, facendolo coincidere con un’assolutezza scientifica, capace di ricreare questo tempio effimero del fare arte nel 1969. Di fatto si è cercato di continuare lo studio degli ‘interventi’ globali degli artisti in un contesto che non è più la chiesa o il palazzo, ma la mostra che è diventata il luogo del nuovo splendore contemporaneo”. Si può dire che When Attitudes Become Form rappresenti l’ultimo anelito dello sconvolgimento e della trasgressione modernista, per cui cristallizzarlo in una situazione fuori del suo contesto storico, politico e culturale non rischia di dissolvere la radicalità dell’originale? Se al tempo le immagini di tale operazione hanno avuto un effetto sulla realtà e sull’articolarsi del linguaggio dell’arte, oggi non rischiano di trasformarsi in feticizzazione nostalgica di un’illusione, quindi di una debolezza? “È evidente che la mostra organizzata da Szeemann nel 1969 è stata un’apertura verso un’immaginazione libera quanto politicamente inutile: un buon proposito di un fare rappresentativo che si connetteva alle avanguardie del modernismo. Si può assumere quale gesto morale e critico verso le proposte tradizionali del fare arte, che respingeva la realtà solo per rappresentarla e sottoporla ad un processo mimetico. Le ricerche mostrate a Berna, come in Op Losse Schroeven, realizzata in contemporanea allo Stedelijk Museum di Amsterdam, che presero il nome di Land art, Process art, Arte povera, Conceptual art, erano un ulteriore tentativo di rivalutare la dimensione pragmatica del vedere e del sentire. Vale a dire un cambio di segno espresso nell’attenzione alle tecniche e ai materiali, per esaltare una concezione poetica rispetto a una contemplativa, in cui l’essere umano è spinto a immergersi e non semplicemente guardare. Basta osservare la documentazione che riguarda l’arrivo in scena del pubblico, per capire come tale arte tendesse a un coinvolgimento fisico e corporale. Naturalmente, tale porsi è stato visto, allora, come un eccesso di negatività e di trasgressione rispetto all’istituzione. Qualcosa di ingovernabile e senza regole, che spingeva verso una demitizzazione della sacralità della pittura e della scultura: un rifiuto delle forme classiche per un’esaltazione della dimensione informe – all’epoca definita anche anti-form – della marginalità artistica. Con il suo interesse per il carattere insignificante e concreto delle materie e delle cose l’esposizione del 1969 solennizzò il carattere fortuito e caotico dell’arte, la sua permeabilità a tutti i possibili linguaggi e a tutte le possibili materie, dal piombo all’acqua, dal fuoco alla cera, dalla margarina al tubo fluorescente, dal cuoio al feltro, dai vetri rotti al ghiaccio, dalla cenere al cotone, così come a tutti gli strumenti utili, non privilegiati, dalla pala al caterpillar, dal giornale al cartellone, dalla lettura al camminare… Da cui la de-sacralizzazione di una cultura visiva che si era identificata solo con il dipingere e lo scolpire come con la dislocazione o lo spiazzamento linguistici dell’oggetto trovato. È una celebrazione del significato dell’insignificante, della realtà che si pone in sintonia proprio con il carattere effimero e temporaneo di un esistere sociale e culturale: un doppio senza valore da contrapporre a una catastrofe dei valori passati. E la sanzione prima della presenza di fare rovinoso e frammentario, dissolto e fluido, contrario ad ogni uni-dimensionalità dell’arte”. Di fatto, il reenacting di WABF rischia di tramutare l’effetto di trasgressione in una proposta rassicurante. All’epoca, l’esibizione di scarti industriali e di materie performative e mutanti che bruciavano o si scioglievano per dare corpo ad altre entità tendevano a mettere in discussione la staticità quanto la sacralità dell’artefatto, quanto del luogo espositivo, la Kunsthalle Bern, tanto da sollevare le reazioni dei conservatori che costrinsero Szeemann a dimettersi. Oggi questo non può succedere, anzi questo strappo curatoriale ed artistico viene sacralizzato. Quello che era stato proposto come elusione della fissità e delle regolarità classica ora viene fissato e dissolto in un’accettazione senza riserve: un simulacro privo di effetti. Si può affermare che oggi la radicalità e la trasgressione legate al percorso del modernismo hanno trovato un luogo ed un posto, compresa il display catastrofico e caotico della mostra di Szeemann? Il remake veneziano è l’ultimo atto sublimante di una radicalità che è ormai obsoleta? “La messa in discussione, e la conseguente azione trasgressiva, esistono perché si pone un punto di partenza e di possibile alternativa rispetto ad una condizione preesistente. L’aspetto utopico di tale fare, che implicava un mondo linguistico altro, opposto o quanto meno diverso dal precedente, va ancorato alla situazione storica del momento, il biennio 1968-1969, quando ci si accorge che l’arte si è tramutata in una atto puramente decorativo. Seppure le ricerche sviluppatesi dal 1945 al 1964, dall Espressionismo astratto alla Pop art, avessero tentato di prendere in considerazione la dimensione solitaria e disperata dell’artista, la sua angoscia esistenziale e l’esperienza drammatica del vivere, travolto dalla tragedia della seconda guerra mondiale, come il dissolvimento del valore morale e rappresentativo dell’arte ormai scalzata e fagocitata dall’immaginario mediatico, dalla pubblicità al cartoons, tali proposizioni non erano riuscite a scalzare il valore decorativo dell’artefatto. Si ponevano come duplicati di un immaginario individuale e industriale, senza indebolire e screditare minimamente la pratica del fare, del mostrare, del comunicare e del consumare l’arte. Le attitudini prodotte e mostrate a Berna sottintendevano una scena espositiva che, occupando non solo i musei, ma le strade e gli spazi pubblici, riflettesse un’azione politica in cui tutti fossero coinvolti, artisti e spettatori, e di cui tutti dovevano prendere consapevolezza. È stata questa la vera illusione che rivela ancora il desiderio di una rivoluzione illuminista intrecciata al sogno di proseguire il discorso radicale delle avanguardie del modernismo. Certamente il remake di tale evento rischia, nella sua ripetizione, di esaltare un momento ideale ma al tempo stesso serve a far percepire, mediante l’avvicinamento al suo stato ‘originale’, la realtà di un mito che non è affidabile solo alla documentazione fotografica, ma all’esperienza di un entusiasmo e di un fervore artistico che chiedeva coinvolgimento. La resurrezione di When Attitudes Become Form mette in circolazione lo spettro di una radicalità che oggi non ha più effetto, perché l’arte non è più un’arma politica rispetto alle lotte reali. Affidandosi allo sguardo dell’oggi, tali proposte appaiono forse facili e irreali ma bisogna sottolineare che questa ipotetica sconfitta ha portato ad una nuova dimensione dell’immaginario artistico. Ad un’analisi retrospettiva, si può dire che la sua effettualità sul mondo sia stata infinitesimale, ma rimane in ogni caso un’influenza sul dissolvimento delle strutture tradizionali del sistema dell’arte. Se tutto questo oggi si è trasformato in business, per cui l’arte ha perso qualsiasi identità sociale per diventare merce simbolica ed economica, significa che il tentativo di scollamento dal compromesso consumistico è fallito. L’arte si è posta a rimorchio del mercato ed è arrivata al punto estremo di inefficacia nel suo rapporto critico e poetico con la società e la cultura. Di fatto, a contare nella costruzione di When Attitudes Become Form sono stati anche gli aggiustamenti spaziali che ogni artista ha attuato per convivere con gli altri. È un muoversi interattivo, piuttosto che la creazione di uno spazio privato ed indipendente. Non si poneva infatti alcuna ‘proprietà’ ambientale, ma la semplice territorialità dell’opera stessa. Era il lavoro a cercarsi linkage con gli altri, così da stabilire un rapporto empatico e condiviso. Simile legame ha un carattere comunitario, ampiamente documentato dalle fotografie in cui diversi artisti lavorano in contemporanea, nella stessa stanza, quasi fossero una ‘comune’, ed è tipico del momento storico, basato su una pratica di socialità che è politica quanto creativa. È qualcosa di simile ad un incontro casuale che produce al tempo stesso una confusione e una fusione. La mostra di Berna è stata quasi una formazione di proposizioni che, come in un incavo terrestre, hanno trovato il loro sviluppo scendendo dai soffitti o arrampicandosi alle pareti o trovando una dimensione gravitazionale a pavimento. Il senso vero della mostra di Szeemann è stato quello di mettere insieme un divenire indeterminato dell’arte così che si percepisse un continuo transito tra le opere, in modo che non fosse possibile isolare le caratteristiche individuali, ma l’energia d’insieme. È un momento interattivo e un mettersi ‘in rete’ che evidenzia il passaggio da uno all’altro, in piena attualità: la simultaneità e la coesistenza del presente artistico, che è anche sottolineata dal messa in mostra di gesti e di azioni corporali, dalla stesura di margarina di Joseph Beuys alla distesa di piombo fuso di Richard Serra all’accensione dei giunchi di Gilberto Zorio e alla rimozione fotografica di Ger van Elk. Per non parlare dell’arte come processo ed operazione in situ che cerca di superare il senso del prodotto confezionato e fabbricato a favore dell’operazione linguistica relativa ad una specifica collocazione e situazione, che non è all’interno dell’istituzione ma si immerge nel contrasto urbano, da Michael Heizer a Daniel Buren. Nasce una mostra che funziona come un vortice capace di travolgere lo spettatore, per metterlo in relazione diretta con il processo creativo. È un modo di sottoporre il pubblico a una forza vertiginosa che ne alteri la visione, così da perdersi in essa”. Prima di arrivare ad una soluzione che integrasse la ricostruzione di una vicenda radicale in un contesto attuale, completamente dominato da altri valori non solo linguistici, ma economici come si è proceduto per acquisire tutti i dati scientifici su cui lavorare ad una mappatura completa e precisa di quanto era avvenuto a Berna? “La ricerca si è sviluppata su diversi livelli, che includevano le fonti primarie dall’archivio di Szeemann, ora presso il Getty Institute di Los Angeles, e le testimonianze dirette degli artisti o i documenti reperibili nelle loro fondazioni, quanto le tracce fotografiche e scritte nella biblioteca della Kusthalle di Berna. Attraverso la raccolta dei diversi dati, che spesso hanno portato a conferme, quanto a sorprese, è iniziata la possibile mappatura delle opere in ogni singola stanza. A questo risultato ha contribuito enormemente la collaborazione con il Getty Institute, diretto da Thomas Gaehtgens, che attraverso l’attento studio condotto da Glenn Philips con il suo team su documenti, lettere e fotografie relative a Sezeemann e a When Attitudes Become Form ha permesso l’identificazione delle opere sia in mostra che non. Accanto a questa preziosa indagine sulle fonti curatoriali si è affiancata la ricerca nell’archivio della Kunsthalle, dove si sono trovati riscontri ed informazioni utili per ampliare la visione totale dell’evento, incluse le recensioni e le polemiche sollevate. Infine un ultimo arricchimento è venuto dagli artisti e dalle loro fondazioni che hanno fornito precisazioni sulle opere esposte e non. In generale la ricostruzione ha potuto contare su oltre un migliaio di fotografie, provenienti dagli archivi di Claudio Abate, Leonardo Bezzola, Balthasar Burkhard, Siegfried Kühn, Dölf Preisig, Harry Shunk e Albert Winkler, una raccolta quasi completa, e per la maggior parte inedita, di tutto quanto è stato registrato attraverso le immagini fotografiche. Queste sono state sottoposte ad un’accorta analisi e sono diventate fonti di scoperte e di novità, che hanno spesso arricchito la conoscenza anche degli stessi protagonisti, ampliandone i ricordi e le visioni. Sono venute alla luce opere e installazioni, mai menzionate né registrate sia nel catalogo di Berna sia nelle successive ricerche fatte da studiosi internazionali”. Una volta tracciata la mappa di tutte le opere in mostra e non, come si è proceduto per averle? Quali problemi hanno comportato i prestiti, una volta scoperto che l’opera è andata distrutta o dispersa ? Quale metodo espositivo è stato adottato per evidenziare le assenze? “Essendo una mostra che ha rappresentato un momento di rottura rispetto alla staticità e alla fissità del lavoro d’arte, immettendo un fattore performativo, per cui a volte l’opera mutava nel corso del tempo arrivando a distruggersi, è apparso immediatamente chiaro che a Venezia la possibilità di una ricostruzione totale e originale sarebbe stata impossibile. Tuttavia si è proceduto cercando di avvicinarci al massimo risultato con la consapevolezza che il revisiting avrebbe dovuto basarsi su due realtà: la prima consistente nel reperimento delle opere originali già acquisite da raccolte private e pubbliche, ad esempio i rintracciabili lavori di Carl Andre, Claes Oldenburg, Bruce Nauman, Eva Hesse, Giovanni Anselmo, Hanne Darboven, Reiner Ruthenbeck, Marinus Boezem e Richard Tuttle, che insieme ai rifacimenti – la seconda realtà – da attuarsi invece con la collaborazione degli artisti o delle loro fondazioni che nel loro insieme avrebbero permesso la ricostruzione dell’impatto visivo nelle singole stanze, con la relazione tra volumi e materie. Il primo compito è stato assolto nella maniera tradizionale con richieste a musei e collezionisti, mentre la seconda ha richiesto un ritorno alla fonte, in questo caso l’autore stesso o il suo archivio per chiedere se era possibile una riproposta, sorta di copia espositiva o replica del lavoro: quest’ultimo caso ha sollevato diverse problematiche che hanno coinvolto gli artisti quanto i musei e i collezionisti. Tuttavia alcuni artisti non riconoscono oggi il valore di certi lavori del 1969 o li ritengono ancorati nel loro passato e non più esponibili. Se addirittura non li rinnegano come errori di gioventù o idee che non condividono più. È cambiata così tanto l’arte dal 1969? E quale approccio ha seguito in questi casi ? Nel ricostruire questa mostra ha più peso il documento storico o il rispetto del volere soggettivo dell’artista oggi a quaranta anni di distanza? “La traslazione da un momento all’altro significa un trasporto nel tempo, è una resurrezione di cariche espressive ed emotive che sono passate. Siccome non avvengono attraverso la memoria ma mediante il remake si riproducono concretamente e diventano azioni presenti, quindi una carica che era trascorsa viene riproposta come attuale. Per alcuni è difficile riproporre impulsi e motivazioni già provate, per altri non c’è alcunché di nuovo né di differente, perché il fattore attivo dell’opera è tuttora in corso ed è ancora effettiva. In un caso la rievocazione riflette acquisizioni già elaborate, ma troppo sperimentali o giovanili, per altri è già una definizione di un percorso che è testimonianza di una dichiarazione linguistica anticipatrice ma già matura. Certamente la rielaborazione odierna non corrisponde più ad un’attitudine che tendeva ad oltrepassare il linguaggio tradizionale, ma rischia di essere un ritorno al passato. Tuttavia per capire il presente bisogna far riferimento alle trasformazioni già attuate, anche se appaiono o sono errori. Dopo il 1969 l’arte si è lentamente adeguata alla società dei consumi e dell’informazione di massa, per cui la primarietà delle materie e dei gesti ha lasciato campo alla processualità industriale e mercantile. Lentamente l’operazione artistica si è tramutata in un prodotto prefabbricato ed apparente: una costruzione speculare e narrativa del reale. Si è attuata una moltiplicazione dell’esistente che ha appiattito le forme e il discorso visivi radicali e trasgressivi. Si è creato uno spettacolo dell’arte per riproporne una dimensione decorativa ed esibizionista, mentre l’arte scaturita dal 1968 aspirava ad essere de-realizzante ed iconoclasta. Di fatto l’aspirazione di When Attitudes Become Form è stata quella di abolire il rituale tradizionale del mostrare un’opera a favore di un’esperienza del suo processo di costruzione e di transito dinnanzi allo sguardo dell’osservatore. Qual è il ruolo del curatore in una ripetizione, quasi identica come ambienti e opere, di una mostra in origine curata da un altro? Esiste una sorta di ‘copyright’ nel concepire la curatela di una mostra ? Se sì quanto la mostra intesa come progetto autoriale s’avvicina ad un’opera d’arte? Nel rifare la mostra come WABF è necessario assumere lo stesso ruolo del curatore, che incontrò artisti e protagonisti oppure la rivisitazione si può fare in modo automatico, puramente tecnico, ripetendo azioni e decisioni? “Se si assume When Attitudes Become Form come un oggetto d’uso storico e linguistico, confezionato nel 1969, innalzando l’insieme a unità compatta e definita, la prima operazione curatoriale è quella di restaurarne la totalità, mettendo insieme i frammenti (i singoli lavori d’arte) dislocati e dispersi. È un processo che inizialmente è indifferente alle parti che compongono il tutto. L’intento non è suscitare nuove associazioni o assegnare nuove collocazioni, ma praticare una ricostruzione senza ridisegnarla né modificarla, usando solo gli smembramenti. È un fissarsi su una struttura rigida, ordinata e armonica in cui le relazioni tra le componenti formava un sistema chiuso. Pertanto, il ritrovamento dei residui ha quale fine di ricomporre e mettere insieme il ‘testo’ narrativo steso da Szeemann in collaborazione con gli artisti stessi, immesso tra le ‘pagine’ architettoniche, bianche, della Kunsthalle di Berna. La raccolta di queste parti, spesso effimere e disperse, insieme ai residui che sono entrati nei musei e nelle collezioni, è tesa a ricreare un puzzle o una costellazione identificabile come una totalità, all’epoca pensata quale un nuovo sistema di fare, di mostrare e di pensare l’arte. Tale processo è coinciso, quindi, con un vero e proprio restauro di un prodotto dell’attività creativa. Innanzitutto si è dovuto riconoscere il valore dell’intera operazione, come è stato ammesso da tutti gli studiosi d’arte contemporanea, poi si è identificata la sua materia cioè la sua consistenza fisica, seguita dal riconoscimento estetico e storico che ha contribuito alla necessità di trasmetterla nel futuro, quale fatto fondante di una vicenda primaria. Tale molteplice consistenza è data dall’intreccio tra architettura, opere, relazioni e tutte queste componenti sono state studiate attraverso un metodo scientifico, prima in relazione al tempo ed al luogo in cui è stata realizzata, a Berna, e poi in rapporto al presente storico e alla sua nuova collocazione a Venezia. È fondamentale indagare l’unità dell’esposizione, sia da un punto di vista qualitativo che quantitativo cercando di avvicinarci al suo intero. Il passaggio successivo è stato di verificare fino a che punto fosse possibile la ricostruzione di tale unità. Ciò è avvenuto mettendo insieme tutte le informazioni possibili sui singoli tasselli del mosaico espositivo, capendo anche dove ci sarebbero le lacune e i vuoti che potevano riguardare il materiale che componeva la mostra. Che tipo di intervento sarebbe stato necessario per colmarle? Si sarebbero ripristinate con un inserimento di simulazioni contemporanee, oppure si sarebbe lasciato un vuoto, cercando di segnalare un’assenza? O ancora in maniera più radicale sarebbe stato necessario costruire immagini in vitro, molto vicine ad un ‘falso’, quasi sempre fallimentare? Quale sarebbe stata la legittimità di un tale intervento sostitutivo o informativo? Si sarebbe lavorato caso per caso o sulle singole accumulazioni, stanza per stanza? Come risolvere tutte queste problematiche che avrebbero riguardato la visione del curatore, passata e presente, con la consapevolezza che il ruolo del curatore che non è solo quello di assemblatore di nuovi insiemi, ma anche di un ricostruttore di contesti, ambientali e culturali, dove ricostruire da buon conservatore della storia le tracce passate? A tali problematiche sollevate dal remake o dal revisiting di When Attitudes Become Form si è tentato di rispondere creando a Venezia un dialogo tra il curatore-restauratorericostruttore delle cose d’arte e l’architetto Rem Koolhaas e l’artista Thomas Demand, al fine di creare una prospettiva multipla e plurilinguistica capace di affrontare le diverse risposte architettoniche e visuali. Insieme si sono cercate e trovate soluzioni sul raccordo temporale e spaziale tra l’evento del 1969 e la decisione di un suo remake e di un suo reenacting. È sorto qui il problema della cornice che ospitava nel 1969 la mostra, totalmente diversa da quella veneziana nel 2013: la necessità di definire un trapasso tra lo spazio fisico in cui era immersa nella Kunsthalle e nella Schulwarte a Berna e quello del palazzo settecentesco di Ca’ Corner della Regina a Venezia. Due spazialità diverse che avrebbero dovuto interagire con l’oggetto When Attitudes Become Form. Quale possibile raccordo o disaccordo si deve trovare tra le due temporalità e le due spazialità? Inventarne un terzo che riguarda il godimento attuale dell’intera opera, così che risulti facile da percepire ad un pubblico attuale, oppure lavorare su uno strappo ambientale e temporale? La differenza è sostanziale e riguarda il rapporto con l’osservatore, il pubblico. Siccome qualsiasi architettura ha un valore spaziale diverso, rimuovere quella di Berna per utilizzare quella di Venezia sarebbe stata un’operazione di estrinsecazione diversa dalla formulazione storica. Annullare invece la presenza storico-muraria di Venezia a favore di una sequenza di stanze white cube avrebbe significato immettere l’insieme curato da Szeemann in un limbo, senza ancoraggi o referenze visive ed esperienziali alla situazione presente. Si è optato per una spazialità che non risolvesse il discorso a favore di una o dell’altra architettura, forzando la frattura temporale e spaziale. Il risultato è stato di creare un continuum dove il problema architettonico altera ed è alterato dall’innesto tra Kunsthalle, Schulwarte e Ca’ Corner della Regina. Non si è tentato di realizzare alcun falso criterio di continuità o di integrazione stilistica, ma si è lavorato per contrasto, immettendo in modo eclatante gli spazi moderni di Berna dentro il contenitore storico di Venezia. E, a ben vedere, entrambe le situazioni di fatto fanno parte della trasmissione dell’opera When Attitudes Become Form. Una volta trovata la cornice corretta per evidenziare la complessità di una ricostruzione, s’è passati al recupero e alla ricostruzione, quando necessario, delle figure – cioè le opere – che componevano il ‘racconto’ per immagini di Szeemann. Il lavoro del curatore a Venezia è stato dunque quello di negare la propria soggettività di assemblatore di mostre per ricostruire e restaurare un testo di un altro curatore. Questa spersonalizzazione è un tentativo di far sì che relazione oggettiva e soggettiva con la cosa esposta non siano più considerati antinomici. Il compito finale è stato quello di evocare un sorprendente prodotto d’epoca, d’identificarsi con esso, senza assumerlo come romantica e nostalgica rovina dell’altrui e proprio tempo passato. Una volta ricostruito come significante privilegiato di una serie di significati instabili e aleatori, entrare in rapporto diacronico con esso per suscitare una sensibilità attuale. E siccome questo oggetto del 1969, ricostruito e restaurato, necessitava nel 2013 di un nuovo rapporto con l’attualità, lo si è inserito in una zona di sospensione, un territorio estraneo alla sua storia e alla sua cronologia – Ca’ Corner della Regina – con l’idea di rilanciare la geografia e la storia del suo immaginario. Di fatto, inserirlo come un corpo irritante in un dentro che potesse provocare una secrezione di difesa: la sua nuova perla”. Ora che When Attitudes Become Form si è aperta a Venezia, in Cà Corner della Regina, cosa è cambiato nel suo percorso di storico e di curatore? “Rivisitare dal vero un evento che avevo vissuto in diretta a Berna e ricostruirlo, mi ha confermato la potenza del momento storico sia sul piano del linguaggio artistico che del procedere del curatore. Essendo una rivisitazione condotta in occasione della Biennale di Venezia 2013, quindi da collocarsi in un contesto non neutro, ma definito da altre proposte curatoriali – quella di Massimiliano Gioni, con il suo Palazzo Enciclopedico, e quelle delle decine e decine di curatori che sono intervenuti nelle mostre collaterali – ho capito che il pericolo dell’arte contemporanea e del suo modo di comunicare sta nel ridursi a un’immagine sottile e senza peso, capace di scorrere fluidamente, senza ancoraggio sulla parete bianca, la quale può essere metafora di un museo, di una galleria e di una fiera. Si è perso il contatto e, diciamo, il dialogo con il contesto, e l’arte si è ridotta ad un prodotto senza peso e energia, fondamentalmente un decoro temporaneo di un possibile cubo bianco, simbolico di qualsiasi contesto abitativo ospitante. Sento quindi sempre più l’esigenza di ancorare l’arte a un luogo o un territorio, invitandola a mettere le radici, senza dimenticare la storia. Ad esempio la cancellazione dell’architettura cinquecentesca dell’Arsenale, condotta attraverso la costruzione di percorsi dalle bianche pareti in legno o in cartongesso, è indice di un’astrazione ambientale, legata alla messa in un limbo dell’arte. When Attitudes Become Form era invece un tutto che il mercato ha parimenti spezzato, ma si capisce la sua forza ricomponendolo. I frammenti non formano una statua o un vaso, sono rovine, e qui sta il rischio del presente contemporaneo di trasformarsi in rovina. All’epoca l’istanza di fare arte non era tesa ad una pratica edonistica né didattica né economica, per cui le cose potevano andare distrutte o disperse, essere inutili e non funzionali. A contare era la prova di un’energia mentale e fisica, comportamentale ed emotiva che portava alla costruzione di ‘figure’ immaginarie senza alcun fine se non il piacere di esprimersi. L’aspirazione all’idea e della sua soddisfazione cercava di avere effetto sul reale, non solo in cambio della sopravvivenza, ma dell’azione sul pubblico, che allora si definiva ‘politica’: rifiuto del diletto e del decoro a favore di un produrre energetico che sollecitasse domande”.
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di Germano Celant - [gallery ids="9601,9602,9603,9604,9605,9606,9607,9608"]Qual è stato l’impianto teorico e stiocro che ha sostenuto la rivisitazione e la ricostruzione ,”così com’era”, della mostra curata da Harald Szeemann nel 1969 alla Kunsthalle di Berna? “È sempre la lettura della storia dell’arte a sostenere un progetto. Se si pensa alla logica che ha sostenuto la comunicazione artistica nel corso dei secoli passati si può verificare che – in generale – fino all’Ottocento gli interventi degli artisti erano eseguiti in relazione o in situazione, vale a dire rispondevano a una commissione o a un contesto che veniva loro suggerito od offerto. Quindi le opere erano messe in relazione o erano situate in un territorio ambientale o informativo che era scelto dialetticamente tra committente e artista stesso. Per un lungo periodo l’arte, che non aspira a circolare liberamente come prodotto di scambio e di consumo, si nutre di osmosi con il contesto, dalla caverna al palazzo, dalle pareti al soffitto, e forma un unicum indivisibile. Tale dialogo si spezza quando nell’Ottocento, una volta scomparso il mecenatismo dei nobili, le opere si devono adeguare ad un mercato borghese che si nutre di artefatti disponibili alla circolazione, nel 1863 si creano i Salons. Sono queste le nuove ambientazioni degli artisti ‘non integrati’, vale a dire dei ‘refusés’ e degli ‘indipendenti’ in cui sono raccolti non più integrati, ma appesi ai muri i lavori artistici da mettere in vendita. Tale salto contestuale che sradica l’intervento dall’inserimento murario crea un altro tipo di relazione e di situazione, quella tra le opere stesse e il loro allestimento. È un passaggio che non è mai stato studiato completamente, perché mancano le tracce della logica con cui gli stessi artisti entravano in relazione tra di loro, ponendo i quadri sopra velluti o sculture su piedestalli, e le poche fotografie dell’epoca non permettono una tale ricostruzione. Tuttavia l’input dell’artista sul modo di vedere la sua opera doveva essere importante e controllato, non affidato al caso o ad altri, come mercanti. E se lo era, anche questo elemento può essere soggetto di studio. Tuttavia a partire dal Novecento, le esposizioni sono sempre più controllate dagli artisti stessi, che le adottano per lanciare i loro movimenti linguistici, da Der Blaue Reiter a Monaco nel 1911 a Les Peintres Futuristes Italiens a Parigi nel 1912. Sono momenti di installazione a cui gli artisti partecipano arrivando a creare insiemi dirompenti e sorprendenti, come The First International Dada Fair, a Berlino nel 1920 e Esposition Internationale du Surréalisme a Parigi nel 1938. Si potrebbe affermare che tali insieme diventano un dispositivo dove l’apparente confusione diventa una fusione visuale che argomenta la poetica del gruppo. Il fatto di organizzare le cose o gli oggetti, le fotografie o i materiali secondo un accadere, che sembra fuori di ogni aspettativa, suscita interrogativi e domande. È la stessa cosa successa con When Attitudes Become Form, dove le opere si devono considerare in funzione dell’insieme. Qui ogni entità singola sembra scomparire a favore di un intreccio tra le parti, qualcosa che lo spettatore deve sbrogliare da sé. La concettualità nasce prima delle opere, perché il discorso deriva dal dispositivo curatoriale. Qui sta l’importanza di Szeemann che abbandona la mostra a ‘composizioni’ curiose e caotiche, dense e aperte. Se si assume la mostra come un tutto, in maniera barocca, si capisce come la mostra sia riuscita nel 1969 ad allontanarsi dal display classico e museale, vigente allora nel mondo dell’arte moderna e contemporanea. Lavorando sulle attitudini e sui loro risultati improvvisati ed effimeri, ottiene infatti effetti poetici, inventati e scoperti in situ. In tal modo il piacere del concetto si traduce in conoscenza del piacere. Non si pone alcun criterio di convenienza solo di legame, che deriva da una reciproca familiarità tra gli artisti e il loro fare. Ricostruire questo campo di energia, con le sue varietà espressive, ha significato rivisitare un dispositivo che se anticamente era architettonico, come una cappella o una chiesa, qui era basato sulla varietà e sulla variabilità di una sintonia che non era concreta e muraria, ma basata su un’integrità esperienziale condivisa. Un intreccio di momenti lirici e drammatici che hanno prodotto un tutto dall’acutezza mirabile che commuove ancora oggi. E su tale ipotesi di insieme meravigliante che si è costruito il progetto, facendolo coincidere con un’assolutezza scientifica, capace di ricreare questo tempio effimero del fare arte nel 1969. Di fatto si è cercato di continuare lo studio degli ‘interventi’ globali degli artisti in un contesto che non è più la chiesa o il palazzo, ma la mostra che è diventata il luogo del nuovo splendore contemporaneo”. Si può dire che When Attitudes Become Form rappresenti l’ultimo anelito dello sconvolgimento e della trasgressione modernista, per cui cristallizzarlo in una situazione fuori del suo contesto storico, politico e culturale non rischia di dissolvere la radicalità dell’originale? Se al tempo le immagini di tale operazione hanno avuto un effetto sulla realtà e sull’articolarsi del linguaggio dell’arte, oggi non rischiano di trasformarsi in feticizzazione nostalgica di un’illusione, quindi di una debolezza? “È evidente che la mostra organizzata da Szeemann nel 1969 è stata un’apertura verso un’immaginazione libera quanto politicamente inutile: un buon proposito di un fare rappresentativo che si connetteva alle avanguardie del modernismo. Si può assumere quale gesto morale e critico verso le proposte tradizionali del fare arte, che respingeva la realtà solo per rappresentarla e sottoporla ad un processo mimetico. Le ricerche mostrate a Berna, come in Op Losse Schroeven, realizzata in contemporanea allo Stedelijk Museum di Amsterdam, che presero il nome di Land art, Process art, Arte povera, Conceptual art, erano un ulteriore tentativo di rivalutare la dimensione pragmatica del vedere e del sentire. Vale a dire un cambio di segno espresso nell’attenzione alle tecniche e ai materiali, per esaltare una concezione poetica rispetto a una contemplativa, in cui l’essere umano è spinto a immergersi e non semplicemente guardare. Basta osservare la documentazione che riguarda l’arrivo in scena del pubblico, per capire come tale arte tendesse a un coinvolgimento fisico e corporale. Naturalmente, tale porsi è stato visto, allora, come un eccesso di negatività e di trasgressione rispetto all’istituzione. Qualcosa di ingovernabile e senza regole, che spingeva verso una demitizzazione della sacralità della pittura e della scultura: un rifiuto delle forme classiche per un’esaltazione della dimensione informe – all’epoca definita anche anti-form – della marginalità artistica. Con il suo interesse per il carattere insignificante e concreto delle materie e delle cose l’esposizione del 1969 solennizzò il carattere fortuito e caotico dell’arte, la sua permeabilità a tutti i possibili linguaggi e a tutte le possibili materie, dal piombo all’acqua, dal fuoco alla cera, dalla margarina al tubo fluorescente, dal cuoio al feltro, dai vetri rotti al ghiaccio, dalla cenere al cotone, così come a tutti gli strumenti utili, non privilegiati, dalla pala al caterpillar, dal giornale al cartellone, dalla lettura al camminare… Da cui la de-sacralizzazione di una cultura visiva che si era identificata solo con il dipingere e lo scolpire come con la dislocazione o lo spiazzamento linguistici dell’oggetto trovato. È una celebrazione del significato dell’insignificante, della realtà che si pone in sintonia proprio con il carattere effimero e temporaneo di un esistere sociale e culturale: un doppio senza valore da contrapporre a una catastrofe dei valori passati. E la sanzione prima della presenza di fare rovinoso e frammentario, dissolto e fluido, contrario ad ogni uni-dimensionalità dell’arte”. Di fatto, il reenacting di WABF rischia di tramutare l’effetto di trasgressione in una proposta rassicurante. All’epoca, l’esibizione di scarti industriali e di materie performative e mutanti che bruciavano o si scioglievano per dare corpo ad altre entità tendevano a mettere in discussione la staticità quanto la sacralità dell’artefatto, quanto del luogo espositivo, la Kunsthalle Bern, tanto da sollevare le reazioni dei conservatori che costrinsero Szeemann a dimettersi. Oggi questo non può succedere, anzi questo strappo curatoriale ed artistico viene sacralizzato. Quello che era stato proposto come elusione della fissità e delle regolarità classica ora viene fissato e dissolto in un’accettazione senza riserve: un simulacro privo di effetti. Si può affermare che oggi la radicalità e la trasgressione legate al percorso del modernismo hanno trovato un luogo ed un posto, compresa il display catastrofico e caotico della mostra di Szeemann? Il remake veneziano è l’ultimo atto sublimante di una radicalità che è ormai obsoleta? “La messa in discussione, e la conseguente azione trasgressiva, esistono perché si pone un punto di partenza e di possibile alternativa rispetto ad una condizione preesistente. L’aspetto utopico di tale fare, che implicava un mondo linguistico altro, opposto o quanto meno diverso dal precedente, va ancorato alla situazione storica del momento, il biennio 1968-1969, quando ci si accorge che l’arte si è tramutata in una atto puramente decorativo. Seppure le ricerche sviluppatesi dal 1945 al 1964, dall Espressionismo astratto alla Pop art, avessero tentato di prendere in considerazione la dimensione solitaria e disperata dell’artista, la sua angoscia esistenziale e l’esperienza drammatica del vivere, travolto dalla tragedia della seconda guerra mondiale, come il dissolvimento del valore morale e rappresentativo dell’arte ormai scalzata e fagocitata dall’immaginario mediatico, dalla pubblicità al cartoons, tali proposizioni non erano riuscite a scalzare il valore decorativo dell’artefatto. Si ponevano come duplicati di un immaginario individuale e industriale, senza indebolire e screditare minimamente la pratica del fare, del mostrare, del comunicare e del consumare l’arte. Le attitudini prodotte e mostrate a Berna sottintendevano una scena espositiva che, occupando non solo i musei, ma le strade e gli spazi pubblici, riflettesse un’azione politica in cui tutti fossero coinvolti, artisti e spettatori, e di cui tutti dovevano prendere consapevolezza. È stata questa la vera illusione che rivela ancora il desiderio di una rivoluzione illuminista intrecciata al sogno di proseguire il discorso radicale delle avanguardie del modernismo. Certamente il remake di tale evento rischia, nella sua ripetizione, di esaltare un momento ideale ma al tempo stesso serve a far percepire, mediante l’avvicinamento al suo stato ‘originale’, la realtà di un mito che non è affidabile solo alla documentazione fotografica, ma all’esperienza di un entusiasmo e di un fervore artistico che chiedeva coinvolgimento. La resurrezione di When Attitudes Become Form mette in circolazione lo spettro di una radicalità che oggi non ha più effetto, perché l’arte non è più un’arma politica rispetto alle lotte reali. Affidandosi allo sguardo dell’oggi, tali proposte appaiono forse facili e irreali ma bisogna sottolineare che questa ipotetica sconfitta ha portato ad una nuova dimensione dell’immaginario artistico. Ad un’analisi retrospettiva, si può dire che la sua effettualità sul mondo sia stata infinitesimale, ma rimane in ogni caso un’influenza sul dissolvimento delle strutture tradizionali del sistema dell’arte. Se tutto questo oggi si è trasformato in business, per cui l’arte ha perso qualsiasi identità sociale per diventare merce simbolica ed economica, significa che il tentativo di scollamento dal compromesso consumistico è fallito. L’arte si è posta a rimorchio del mercato ed è arrivata al punto estremo di inefficacia nel suo rapporto critico e poetico con la società e la cultura. Di fatto, a contare nella costruzione di When Attitudes Become Form sono stati anche gli aggiustamenti spaziali che ogni artista ha attuato per convivere con gli altri. È un muoversi interattivo, piuttosto che la creazione di uno spazio privato ed indipendente. Non si poneva infatti alcuna ‘proprietà’ ambientale, ma la semplice territorialità dell’opera stessa. Era il lavoro a cercarsi linkage con gli altri, così da stabilire un rapporto empatico e condiviso. Simile legame ha un carattere comunitario, ampiamente documentato dalle fotografie in cui diversi artisti lavorano in contemporanea, nella stessa stanza, quasi fossero una ‘comune’, ed è tipico del momento storico, basato su una pratica di socialità che è politica quanto creativa. È qualcosa di simile ad un incontro casuale che produce al tempo stesso una confusione e una fusione. La mostra di Berna è stata quasi una formazione di proposizioni che, come in un incavo terrestre, hanno trovato il loro sviluppo scendendo dai soffitti o arrampicandosi alle pareti o trovando una dimensione gravitazionale a pavimento. Il senso vero della mostra di Szeemann è stato quello di mettere insieme un divenire indeterminato dell’arte così che si percepisse un continuo transito tra le opere, in modo che non fosse possibile isolare le caratteristiche individuali, ma l’energia d’insieme. È un momento interattivo e un mettersi ‘in rete’ che evidenzia il passaggio da uno all’altro, in piena attualità: la simultaneità e la coesistenza del presente artistico, che è anche sottolineata dal messa in mostra di gesti e di azioni corporali, dalla stesura di margarina di Joseph Beuys alla distesa di piombo fuso di Richard Serra all’accensione dei giunchi di Gilberto Zorio e alla rimozione fotografica di Ger van Elk. Per non parlare dell’arte come processo ed operazione in situ che cerca di superare il senso del prodotto confezionato e fabbricato a favore dell’operazione linguistica relativa ad una specifica collocazione e situazione, che non è all’interno dell’istituzione ma si immerge nel contrasto urbano, da Michael Heizer a Daniel Buren. Nasce una mostra che funziona come un vortice capace di travolgere lo spettatore, per metterlo in relazione diretta con il processo creativo. È un modo di sottoporre il pubblico a una forza vertiginosa che ne alteri la visione, così da perdersi in essa”. Prima di arrivare ad una soluzione che integrasse la ricostruzione di una vicenda radicale in un contesto attuale, completamente dominato da altri valori non solo linguistici, ma economici come si è proceduto per acquisire tutti i dati scientifici su cui lavorare ad una mappatura completa e precisa di quanto era avvenuto a Berna? “La ricerca si è sviluppata su diversi livelli, che includevano le fonti primarie dall’archivio di Szeemann, ora presso il Getty Institute di Los Angeles, e le testimonianze dirette degli artisti o i documenti reperibili nelle loro fondazioni, quanto le tracce fotografiche e scritte nella biblioteca della Kusthalle di Berna. Attraverso la raccolta dei diversi dati, che spesso hanno portato a conferme, quanto a sorprese, è iniziata la possibile mappatura delle opere in ogni singola stanza. A questo risultato ha contribuito enormemente la collaborazione con il Getty Institute, diretto da Thomas Gaehtgens, che attraverso l’attento studio condotto da Glenn Philips con il suo team su documenti, lettere e fotografie relative a Sezeemann e a When Attitudes Become Form ha permesso l’identificazione delle opere sia in mostra che non. Accanto a questa preziosa indagine sulle fonti curatoriali si è affiancata la ricerca nell’archivio della Kunsthalle, dove si sono trovati riscontri ed informazioni utili per ampliare la visione totale dell’evento, incluse le recensioni e le polemiche sollevate. Infine un ultimo arricchimento è venuto dagli artisti e dalle loro fondazioni che hanno fornito precisazioni sulle opere esposte e non. In generale la ricostruzione ha potuto contare su oltre un migliaio di fotografie, provenienti dagli archivi di Claudio Abate, Leonardo Bezzola, Balthasar Burkhard, Siegfried Kühn, Dölf Preisig, Harry Shunk e Albert Winkler, una raccolta quasi completa, e per la maggior parte inedita, di tutto quanto è stato registrato attraverso le immagini fotografiche. Queste sono state sottoposte ad un’accorta analisi e sono diventate fonti di scoperte e di novità, che hanno spesso arricchito la conoscenza anche degli stessi protagonisti, ampliandone i ricordi e le visioni. Sono venute alla luce opere e installazioni, mai menzionate né registrate sia nel catalogo di Berna sia nelle successive ricerche fatte da studiosi internazionali”. Una volta tracciata la mappa di tutte le opere in mostra e non, come si è proceduto per averle? Quali problemi hanno comportato i prestiti, una volta scoperto che l’opera è andata distrutta o dispersa ? Quale metodo espositivo è stato adottato per evidenziare le assenze? “Essendo una mostra che ha rappresentato un momento di rottura rispetto alla staticità e alla fissità del lavoro d’arte, immettendo un fattore performativo, per cui a volte l’opera mutava nel corso del tempo arrivando a distruggersi, è apparso immediatamente chiaro che a Venezia la possibilità di una ricostruzione totale e originale sarebbe stata impossibile. Tuttavia si è proceduto cercando di avvicinarci al massimo risultato con la consapevolezza che il revisiting avrebbe dovuto basarsi su due realtà: la prima consistente nel reperimento delle opere originali già acquisite da raccolte private e pubbliche, ad esempio i rintracciabili lavori di Carl Andre, Claes Oldenburg, Bruce Nauman, Eva Hesse, Giovanni Anselmo, Hanne Darboven, Reiner Ruthenbeck, Marinus Boezem e Richard Tuttle, che insieme ai rifacimenti – la seconda realtà – da attuarsi invece con la collaborazione degli artisti o delle loro fondazioni che nel loro insieme avrebbero permesso la ricostruzione dell’impatto visivo nelle singole stanze, con la relazione tra volumi e materie. Il primo compito è stato assolto nella maniera tradizionale con richieste a musei e collezionisti, mentre la seconda ha richiesto un ritorno alla fonte, in questo caso l’autore stesso o il suo archivio per chiedere se era possibile una riproposta, sorta di copia espositiva o replica del lavoro: quest’ultimo caso ha sollevato diverse problematiche che hanno coinvolto gli artisti quanto i musei e i collezionisti. Tuttavia alcuni artisti non riconoscono oggi il valore di certi lavori del 1969 o li ritengono ancorati nel loro passato e non più esponibili. Se addirittura non li rinnegano come errori di gioventù o idee che non condividono più. È cambiata così tanto l’arte dal 1969? E quale approccio ha seguito in questi casi ? Nel ricostruire questa mostra ha più peso il documento storico o il rispetto del volere soggettivo dell’artista oggi a quaranta anni di distanza? “La traslazione da un momento all’altro significa un trasporto nel tempo, è una resurrezione di cariche espressive ed emotive che sono passate. Siccome non avvengono attraverso la memoria ma mediante il remake si riproducono concretamente e diventano azioni presenti, quindi una carica che era trascorsa viene riproposta come attuale. Per alcuni è difficile riproporre impulsi e motivazioni già provate, per altri non c’è alcunché di nuovo né di differente, perché il fattore attivo dell’opera è tuttora in corso ed è ancora effettiva. In un caso la rievocazione riflette acquisizioni già elaborate, ma troppo sperimentali o giovanili, per altri è già una definizione di un percorso che è testimonianza di una dichiarazione linguistica anticipatrice ma già matura. Certamente la rielaborazione odierna non corrisponde più ad un’attitudine che tendeva ad oltrepassare il linguaggio tradizionale, ma rischia di essere un ritorno al passato. Tuttavia per capire il presente bisogna far riferimento alle trasformazioni già attuate, anche se appaiono o sono errori. Dopo il 1969 l’arte si è lentamente adeguata alla società dei consumi e dell’informazione di massa, per cui la primarietà delle materie e dei gesti ha lasciato campo alla processualità industriale e mercantile. Lentamente l’operazione artistica si è tramutata in un prodotto prefabbricato ed apparente: una costruzione speculare e narrativa del reale. Si è attuata una moltiplicazione dell’esistente che ha appiattito le forme e il discorso visivi radicali e trasgressivi. Si è creato uno spettacolo dell’arte per riproporne una dimensione decorativa ed esibizionista, mentre l’arte scaturita dal 1968 aspirava ad essere de-realizzante ed iconoclasta. Di fatto l’aspirazione di When Attitudes Become Form è stata quella di abolire il rituale tradizionale del mostrare un’opera a favore di un’esperienza del suo processo di costruzione e di transito dinnanzi allo sguardo dell’osservatore. Qual è il ruolo del curatore in una ripetizione, quasi identica come ambienti e opere, di una mostra in origine curata da un altro? Esiste una sorta di ‘copyright’ nel concepire la curatela di una mostra ? Se sì quanto la mostra intesa come progetto autoriale s’avvicina ad un’opera d’arte? Nel rifare la mostra come WABF è necessario assumere lo stesso ruolo del curatore, che incontrò artisti e protagonisti oppure la rivisitazione si può fare in modo automatico, puramente tecnico, ripetendo azioni e decisioni? “Se si assume When Attitudes Become Form come un oggetto d’uso storico e linguistico, confezionato nel 1969, innalzando l’insieme a unità compatta e definita, la prima operazione curatoriale è quella di restaurarne la totalità, mettendo insieme i frammenti (i singoli lavori d’arte) dislocati e dispersi. È un processo che inizialmente è indifferente alle parti che compongono il tutto. L’intento non è suscitare nuove associazioni o assegnare nuove collocazioni, ma praticare una ricostruzione senza ridisegnarla né modificarla, usando solo gli smembramenti. È un fissarsi su una struttura rigida, ordinata e armonica in cui le relazioni tra le componenti formava un sistema chiuso. Pertanto, il ritrovamento dei residui ha quale fine di ricomporre e mettere insieme il ‘testo’ narrativo steso da Szeemann in collaborazione con gli artisti stessi, immesso tra le ‘pagine’ architettoniche, bianche, della Kunsthalle di Berna. La raccolta di queste parti, spesso effimere e disperse, insieme ai residui che sono entrati nei musei e nelle collezioni, è tesa a ricreare un puzzle o una costellazione identificabile come una totalità, all’epoca pensata quale un nuovo sistema di fare, di mostrare e di pensare l’arte. Tale processo è coinciso, quindi, con un vero e proprio restauro di un prodotto dell’attività creativa. Innanzitutto si è dovuto riconoscere il valore dell’intera operazione, come è stato ammesso da tutti gli studiosi d’arte contemporanea, poi si è identificata la sua materia cioè la sua consistenza fisica, seguita dal riconoscimento estetico e storico che ha contribuito alla necessità di trasmetterla nel futuro, quale fatto fondante di una vicenda primaria. Tale molteplice consistenza è data dall’intreccio tra architettura, opere, relazioni e tutte queste componenti sono state studiate attraverso un metodo scientifico, prima in relazione al tempo ed al luogo in cui è stata realizzata, a Berna, e poi in rapporto al presente storico e alla sua nuova collocazione a Venezia. È fondamentale indagare l’unità dell’esposizione, sia da un punto di vista qualitativo che quantitativo cercando di avvicinarci al suo intero. Il passaggio successivo è stato di verificare fino a che punto fosse possibile la ricostruzione di tale unità. Ciò è avvenuto mettendo insieme tutte le informazioni possibili sui singoli tasselli del mosaico espositivo, capendo anche dove ci sarebbero le lacune e i vuoti che potevano riguardare il materiale che componeva la mostra. Che tipo di intervento sarebbe stato necessario per colmarle? Si sarebbero ripristinate con un inserimento di simulazioni contemporanee, oppure si sarebbe lasciato un vuoto, cercando di segnalare un’assenza? O ancora in maniera più radicale sarebbe stato necessario costruire immagini in vitro, molto vicine ad un ‘falso’, quasi sempre fallimentare? Quale sarebbe stata la legittimità di un tale intervento sostitutivo o informativo? Si sarebbe lavorato caso per caso o sulle singole accumulazioni, stanza per stanza? Come risolvere tutte queste problematiche che avrebbero riguardato la visione del curatore, passata e presente, con la consapevolezza che il ruolo del curatore che non è solo quello di assemblatore di nuovi insiemi, ma anche di un ricostruttore di contesti, ambientali e culturali, dove ricostruire da buon conservatore della storia le tracce passate? A tali problematiche sollevate dal remake o dal revisiting di When Attitudes Become Form si è tentato di rispondere creando a Venezia un dialogo tra il curatore-restauratorericostruttore delle cose d’arte e l’architetto Rem Koolhaas e l’artista Thomas Demand, al fine di creare una prospettiva multipla e plurilinguistica capace di affrontare le diverse risposte architettoniche e visuali. Insieme si sono cercate e trovate soluzioni sul raccordo temporale e spaziale tra l’evento del 1969 e la decisione di un suo remake e di un suo reenacting. È sorto qui il problema della cornice che ospitava nel 1969 la mostra, totalmente diversa da quella veneziana nel 2013: la necessità di definire un trapasso tra lo spazio fisico in cui era immersa nella Kunsthalle e nella Schulwarte a Berna e quello del palazzo settecentesco di Ca’ Corner della Regina a Venezia. Due spazialità diverse che avrebbero dovuto interagire con l’oggetto When Attitudes Become Form. Quale possibile raccordo o disaccordo si deve trovare tra le due temporalità e le due spazialità? Inventarne un terzo che riguarda il godimento attuale dell’intera opera, così che risulti facile da percepire ad un pubblico attuale, oppure lavorare su uno strappo ambientale e temporale? La differenza è sostanziale e riguarda il rapporto con l’osservatore, il pubblico. Siccome qualsiasi architettura ha un valore spaziale diverso, rimuovere quella di Berna per utilizzare quella di Venezia sarebbe stata un’operazione di estrinsecazione diversa dalla formulazione storica. Annullare invece la presenza storico-muraria di Venezia a favore di una sequenza di stanze white cube avrebbe significato immettere l’insieme curato da Szeemann in un limbo, senza ancoraggi o referenze visive ed esperienziali alla situazione presente. Si è optato per una spazialità che non risolvesse il discorso a favore di una o dell’altra architettura, forzando la frattura temporale e spaziale. Il risultato è stato di creare un continuum dove il problema architettonico altera ed è alterato dall’innesto tra Kunsthalle, Schulwarte e Ca’ Corner della Regina. Non si è tentato di realizzare alcun falso criterio di continuità o di integrazione stilistica, ma si è lavorato per contrasto, immettendo in modo eclatante gli spazi moderni di Berna dentro il contenitore storico di Venezia. E, a ben vedere, entrambe le situazioni di fatto fanno parte della trasmissione dell’opera When Attitudes Become Form. Una volta trovata la cornice corretta per evidenziare la complessità di una ricostruzione, s’è passati al recupero e alla ricostruzione, quando necessario, delle figure – cioè le opere – che componevano il ‘racconto’ per immagini di Szeemann. Il lavoro del curatore a Venezia è stato dunque quello di negare la propria soggettività di assemblatore di mostre per ricostruire e restaurare un testo di un altro curatore. Questa spersonalizzazione è un tentativo di far sì che relazione oggettiva e soggettiva con la cosa esposta non siano più considerati antinomici. Il compito finale è stato quello di evocare un sorprendente prodotto d’epoca, d’identificarsi con esso, senza assumerlo come romantica e nostalgica rovina dell’altrui e proprio tempo passato. Una volta ricostruito come significante privilegiato di una serie di significati instabili e aleatori, entrare in rapporto diacronico con esso per suscitare una sensibilità attuale. E siccome questo oggetto del 1969, ricostruito e restaurato, necessitava nel 2013 di un nuovo rapporto con l’attualità, lo si è inserito in una zona di sospensione, un territorio estraneo alla sua storia e alla sua cronologia – Ca’ Corner della Regina – con l’idea di rilanciare la geografia e la storia del suo immaginario. Di fatto, inserirlo come un corpo irritante in un dentro che potesse provocare una secrezione di difesa: la sua nuova perla”. Ora che When Attitudes Become Form si è aperta a Venezia, in Cà Corner della Regina, cosa è cambiato nel suo percorso di storico e di curatore? “Rivisitare dal vero un evento che avevo vissuto in diretta a Berna e ricostruirlo, mi ha confermato la potenza del momento storico sia sul piano del linguaggio artistico che del procedere del curatore. Essendo una rivisitazione condotta in occasione della Biennale di Venezia 2013, quindi da collocarsi in un contesto non neutro, ma definito da altre proposte curatoriali – quella di Massimiliano Gioni, con il suo Palazzo Enciclopedico, e quelle delle decine e decine di curatori che sono intervenuti nelle mostre collaterali – ho capito che il pericolo dell’arte contemporanea e del suo modo di comunicare sta nel ridursi a un’immagine sottile e senza peso, capace di scorrere fluidamente, senza ancoraggio sulla parete bianca, la quale può essere metafora di un museo, di una galleria e di una fiera. Si è perso il contatto e, diciamo, il dialogo con il contesto, e l’arte si è ridotta ad un prodotto senza peso e energia, fondamentalmente un decoro temporaneo di un possibile cubo bianco, simbolico di qualsiasi contesto abitativo ospitante. Sento quindi sempre più l’esigenza di ancorare l’arte a un luogo o un territorio, invitandola a mettere le radici, senza dimenticare la storia. Ad esempio la cancellazione dell’architettura cinquecentesca dell’Arsenale, condotta attraverso la costruzione di percorsi dalle bianche pareti in legno o in cartongesso, è indice di un’astrazione ambientale, legata alla messa in un limbo dell’arte. When Attitudes Become Form era invece un tutto che il mercato ha parimenti spezzato, ma si capisce la sua forza ricomponendolo. I frammenti non formano una statua o un vaso, sono rovine, e qui sta il rischio del presente contemporaneo di trasformarsi in rovina. All’epoca l’istanza di fare arte non era tesa ad una pratica edonistica né didattica né economica, per cui le cose potevano andare distrutte o disperse, essere inutili e non funzionali. A contare era la prova di un’energia mentale e fisica, comportamentale ed emotiva che portava alla costruzione di ‘figure’ immaginarie senza alcun fine se non il piacere di esprimersi. L’aspirazione all’idea e della sua soddisfazione cercava di avere effetto sul reale, non solo in cambio della sopravvivenza, ma dell’azione sul pubblico, che allora si definiva ‘politica’: rifiuto del diletto e del decoro a favore di un produrre energetico che sollecitasse domande”.
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di Germano Celant - [gallery ids="9601,9602,9603,9604,9605,9606,9607,9608"]Qual è stato l’impianto teorico e stiocro che ha sostenuto la rivisitazione e la ricostruzione ,”così com’era”, della mostra curata da Harald Szeemann nel 1969 alla Kunsthalle di Berna? “È sempre la lettura della storia dell’arte a sostenere un progetto. Se si pensa alla logica che ha sostenuto la comunicazione artistica nel corso dei secoli passati si può verificare che – in generale – fino all’Ottocento gli interventi degli artisti erano eseguiti in relazione o in situazione, vale a dire rispondevano a una commissione o a un contesto che veniva loro suggerito od offerto. Quindi le opere erano messe in relazione o erano situate in un territorio ambientale o informativo che era scelto dialetticamente tra committente e artista stesso. Per un lungo periodo l’arte, che non aspira a circolare liberamente come prodotto di scambio e di consumo, si nutre di osmosi con il contesto, dalla caverna al palazzo, dalle pareti al soffitto, e forma un unicum indivisibile. Tale dialogo si spezza quando nell’Ottocento, una volta scomparso il mecenatismo dei nobili, le opere si devono adeguare ad un mercato borghese che si nutre di artefatti disponibili alla circolazione, nel 1863 si creano i Salons. Sono queste le nuove ambientazioni degli artisti ‘non integrati’, vale a dire dei ‘refusés’ e degli ‘indipendenti’ in cui sono raccolti non più integrati, ma appesi ai muri i lavori artistici da mettere in vendita. Tale salto contestuale che sradica l’intervento dall’inserimento murario crea un altro tipo di relazione e di situazione, quella tra le opere stesse e il loro allestimento. È un passaggio che non è mai stato studiato completamente, perché mancano le tracce della logica con cui gli stessi artisti entravano in relazione tra di loro, ponendo i quadri sopra velluti o sculture su piedestalli, e le poche fotografie dell’epoca non permettono una tale ricostruzione. Tuttavia l’input dell’artista sul modo di vedere la sua opera doveva essere importante e controllato, non affidato al caso o ad altri, come mercanti. E se lo era, anche questo elemento può essere soggetto di studio. Tuttavia a partire dal Novecento, le esposizioni sono sempre più controllate dagli artisti stessi, che le adottano per lanciare i loro movimenti linguistici, da Der Blaue Reiter a Monaco nel 1911 a Les Peintres Futuristes Italiens a Parigi nel 1912. Sono momenti di installazione a cui gli artisti partecipano arrivando a creare insiemi dirompenti e sorprendenti, come The First International Dada Fair, a Berlino nel 1920 e Esposition Internationale du Surréalisme a Parigi nel 1938. Si potrebbe affermare che tali insieme diventano un dispositivo dove l’apparente confusione diventa una fusione visuale che argomenta la poetica del gruppo. Il fatto di organizzare le cose o gli oggetti, le fotografie o i materiali secondo un accadere, che sembra fuori di ogni aspettativa, suscita interrogativi e domande. È la stessa cosa successa con When Attitudes Become Form, dove le opere si devono considerare in funzione dell’insieme. Qui ogni entità singola sembra scomparire a favore di un intreccio tra le parti, qualcosa che lo spettatore deve sbrogliare da sé. La concettualità nasce prima delle opere, perché il discorso deriva dal dispositivo curatoriale. Qui sta l’importanza di Szeemann che abbandona la mostra a ‘composizioni’ curiose e caotiche, dense e aperte. Se si assume la mostra come un tutto, in maniera barocca, si capisce come la mostra sia riuscita nel 1969 ad allontanarsi dal display classico e museale, vigente allora nel mondo dell’arte moderna e contemporanea. Lavorando sulle attitudini e sui loro risultati improvvisati ed effimeri, ottiene infatti effetti poetici, inventati e scoperti in situ. In tal modo il piacere del concetto si traduce in conoscenza del piacere. Non si pone alcun criterio di convenienza solo di legame, che deriva da una reciproca familiarità tra gli artisti e il loro fare. Ricostruire questo campo di energia, con le sue varietà espressive, ha significato rivisitare un dispositivo che se anticamente era architettonico, come una cappella o una chiesa, qui era basato sulla varietà e sulla variabilità di una sintonia che non era concreta e muraria, ma basata su un’integrità esperienziale condivisa. Un intreccio di momenti lirici e drammatici che hanno prodotto un tutto dall’acutezza mirabile che commuove ancora oggi. E su tale ipotesi di insieme meravigliante che si è costruito il progetto, facendolo coincidere con un’assolutezza scientifica, capace di ricreare questo tempio effimero del fare arte nel 1969. Di fatto si è cercato di continuare lo studio degli ‘interventi’ globali degli artisti in un contesto che non è più la chiesa o il palazzo, ma la mostra che è diventata il luogo del nuovo splendore contemporaneo”. Si può dire che When Attitudes Become Form rappresenti l’ultimo anelito dello sconvolgimento e della trasgressione modernista, per cui cristallizzarlo in una situazione fuori del suo contesto storico, politico e culturale non rischia di dissolvere la radicalità dell’originale? Se al tempo le immagini di tale operazione hanno avuto un effetto sulla realtà e sull’articolarsi del linguaggio dell’arte, oggi non rischiano di trasformarsi in feticizzazione nostalgica di un’illusione, quindi di una debolezza? “È evidente che la mostra organizzata da Szeemann nel 1969 è stata un’apertura verso un’immaginazione libera quanto politicamente inutile: un buon proposito di un fare rappresentativo che si connetteva alle avanguardie del modernismo. Si può assumere quale gesto morale e critico verso le proposte tradizionali del fare arte, che respingeva la realtà solo per rappresentarla e sottoporla ad un processo mimetico. Le ricerche mostrate a Berna, come in Op Losse Schroeven, realizzata in contemporanea allo Stedelijk Museum di Amsterdam, che presero il nome di Land art, Process art, Arte povera, Conceptual art, erano un ulteriore tentativo di rivalutare la dimensione pragmatica del vedere e del sentire. Vale a dire un cambio di segno espresso nell’attenzione alle tecniche e ai materiali, per esaltare una concezione poetica rispetto a una contemplativa, in cui l’essere umano è spinto a immergersi e non semplicemente guardare. Basta osservare la documentazione che riguarda l’arrivo in scena del pubblico, per capire come tale arte tendesse a un coinvolgimento fisico e corporale. Naturalmente, tale porsi è stato visto, allora, come un eccesso di negatività e di trasgressione rispetto all’istituzione. Qualcosa di ingovernabile e senza regole, che spingeva verso una demitizzazione della sacralità della pittura e della scultura: un rifiuto delle forme classiche per un’esaltazione della dimensione informe – all’epoca definita anche anti-form – della marginalità artistica. Con il suo interesse per il carattere insignificante e concreto delle materie e delle cose l’esposizione del 1969 solennizzò il carattere fortuito e caotico dell’arte, la sua permeabilità a tutti i possibili linguaggi e a tutte le possibili materie, dal piombo all’acqua, dal fuoco alla cera, dalla margarina al tubo fluorescente, dal cuoio al feltro, dai vetri rotti al ghiaccio, dalla cenere al cotone, così come a tutti gli strumenti utili, non privilegiati, dalla pala al caterpillar, dal giornale al cartellone, dalla lettura al camminare… Da cui la de-sacralizzazione di una cultura visiva che si era identificata solo con il dipingere e lo scolpire come con la dislocazione o lo spiazzamento linguistici dell’oggetto trovato. È una celebrazione del significato dell’insignificante, della realtà che si pone in sintonia proprio con il carattere effimero e temporaneo di un esistere sociale e culturale: un doppio senza valore da contrapporre a una catastrofe dei valori passati. E la sanzione prima della presenza di fare rovinoso e frammentario, dissolto e fluido, contrario ad ogni uni-dimensionalità dell’arte”. Di fatto, il reenacting di WABF rischia di tramutare l’effetto di trasgressione in una proposta rassicurante. All’epoca, l’esibizione di scarti industriali e di materie performative e mutanti che bruciavano o si scioglievano per dare corpo ad altre entità tendevano a mettere in discussione la staticità quanto la sacralità dell’artefatto, quanto del luogo espositivo, la Kunsthalle Bern, tanto da sollevare le reazioni dei conservatori che costrinsero Szeemann a dimettersi. Oggi questo non può succedere, anzi questo strappo curatoriale ed artistico viene sacralizzato. Quello che era stato proposto come elusione della fissità e delle regolarità classica ora viene fissato e dissolto in un’accettazione senza riserve: un simulacro privo di effetti. Si può affermare che oggi la radicalità e la trasgressione legate al percorso del modernismo hanno trovato un luogo ed un posto, compresa il display catastrofico e caotico della mostra di Szeemann? Il remake veneziano è l’ultimo atto sublimante di una radicalità che è ormai obsoleta? “La messa in discussione, e la conseguente azione trasgressiva, esistono perché si pone un punto di partenza e di possibile alternativa rispetto ad una condizione preesistente. L’aspetto utopico di tale fare, che implicava un mondo linguistico altro, opposto o quanto meno diverso dal precedente, va ancorato alla situazione storica del momento, il biennio 1968-1969, quando ci si accorge che l’arte si è tramutata in una atto puramente decorativo. Seppure le ricerche sviluppatesi dal 1945 al 1964, dall Espressionismo astratto alla Pop art, avessero tentato di prendere in considerazione la dimensione solitaria e disperata dell’artista, la sua angoscia esistenziale e l’esperienza drammatica del vivere, travolto dalla tragedia della seconda guerra mondiale, come il dissolvimento del valore morale e rappresentativo dell’arte ormai scalzata e fagocitata dall’immaginario mediatico, dalla pubblicità al cartoons, tali proposizioni non erano riuscite a scalzare il valore decorativo dell’artefatto. Si ponevano come duplicati di un immaginario individuale e industriale, senza indebolire e screditare minimamente la pratica del fare, del mostrare, del comunicare e del consumare l’arte. Le attitudini prodotte e mostrate a Berna sottintendevano una scena espositiva che, occupando non solo i musei, ma le strade e gli spazi pubblici, riflettesse un’azione politica in cui tutti fossero coinvolti, artisti e spettatori, e di cui tutti dovevano prendere consapevolezza. È stata questa la vera illusione che rivela ancora il desiderio di una rivoluzione illuminista intrecciata al sogno di proseguire il discorso radicale delle avanguardie del modernismo. Certamente il remake di tale evento rischia, nella sua ripetizione, di esaltare un momento ideale ma al tempo stesso serve a far percepire, mediante l’avvicinamento al suo stato ‘originale’, la realtà di un mito che non è affidabile solo alla documentazione fotografica, ma all’esperienza di un entusiasmo e di un fervore artistico che chiedeva coinvolgimento. La resurrezione di When Attitudes Become Form mette in circolazione lo spettro di una radicalità che oggi non ha più effetto, perché l’arte non è più un’arma politica rispetto alle lotte reali. Affidandosi allo sguardo dell’oggi, tali proposte appaiono forse facili e irreali ma bisogna sottolineare che questa ipotetica sconfitta ha portato ad una nuova dimensione dell’immaginario artistico. Ad un’analisi retrospettiva, si può dire che la sua effettualità sul mondo sia stata infinitesimale, ma rimane in ogni caso un’influenza sul dissolvimento delle strutture tradizionali del sistema dell’arte. Se tutto questo oggi si è trasformato in business, per cui l’arte ha perso qualsiasi identità sociale per diventare merce simbolica ed economica, significa che il tentativo di scollamento dal compromesso consumistico è fallito. L’arte si è posta a rimorchio del mercato ed è arrivata al punto estremo di inefficacia nel suo rapporto critico e poetico con la società e la cultura. Di fatto, a contare nella costruzione di When Attitudes Become Form sono stati anche gli aggiustamenti spaziali che ogni artista ha attuato per convivere con gli altri. È un muoversi interattivo, piuttosto che la creazione di uno spazio privato ed indipendente. Non si poneva infatti alcuna ‘proprietà’ ambientale, ma la semplice territorialità dell’opera stessa. Era il lavoro a cercarsi linkage con gli altri, così da stabilire un rapporto empatico e condiviso. Simile legame ha un carattere comunitario, ampiamente documentato dalle fotografie in cui diversi artisti lavorano in contemporanea, nella stessa stanza, quasi fossero una ‘comune’, ed è tipico del momento storico, basato su una pratica di socialità che è politica quanto creativa. È qualcosa di simile ad un incontro casuale che produce al tempo stesso una confusione e una fusione. La mostra di Berna è stata quasi una formazione di proposizioni che, come in un incavo terrestre, hanno trovato il loro sviluppo scendendo dai soffitti o arrampicandosi alle pareti o trovando una dimensione gravitazionale a pavimento. Il senso vero della mostra di Szeemann è stato quello di mettere insieme un divenire indeterminato dell’arte così che si percepisse un continuo transito tra le opere, in modo che non fosse possibile isolare le caratteristiche individuali, ma l’energia d’insieme. È un momento interattivo e un mettersi ‘in rete’ che evidenzia il passaggio da uno all’altro, in piena attualità: la simultaneità e la coesistenza del presente artistico, che è anche sottolineata dal messa in mostra di gesti e di azioni corporali, dalla stesura di margarina di Joseph Beuys alla distesa di piombo fuso di Richard Serra all’accensione dei giunchi di Gilberto Zorio e alla rimozione fotografica di Ger van Elk. Per non parlare dell’arte come processo ed operazione in situ che cerca di superare il senso del prodotto confezionato e fabbricato a favore dell’operazione linguistica relativa ad una specifica collocazione e situazione, che non è all’interno dell’istituzione ma si immerge nel contrasto urbano, da Michael Heizer a Daniel Buren. Nasce una mostra che funziona come un vortice capace di travolgere lo spettatore, per metterlo in relazione diretta con il processo creativo. È un modo di sottoporre il pubblico a una forza vertiginosa che ne alteri la visione, così da perdersi in essa”. Prima di arrivare ad una soluzione che integrasse la ricostruzione di una vicenda radicale in un contesto attuale, completamente dominato da altri valori non solo linguistici, ma economici come si è proceduto per acquisire tutti i dati scientifici su cui lavorare ad una mappatura completa e precisa di quanto era avvenuto a Berna? “La ricerca si è sviluppata su diversi livelli, che includevano le fonti primarie dall’archivio di Szeemann, ora presso il Getty Institute di Los Angeles, e le testimonianze dirette degli artisti o i documenti reperibili nelle loro fondazioni, quanto le tracce fotografiche e scritte nella biblioteca della Kusthalle di Berna. Attraverso la raccolta dei diversi dati, che spesso hanno portato a conferme, quanto a sorprese, è iniziata la possibile mappatura delle opere in ogni singola stanza. A questo risultato ha contribuito enormemente la collaborazione con il Getty Institute, diretto da Thomas Gaehtgens, che attraverso l’attento studio condotto da Glenn Philips con il suo team su documenti, lettere e fotografie relative a Sezeemann e a When Attitudes Become Form ha permesso l’identificazione delle opere sia in mostra che non. Accanto a questa preziosa indagine sulle fonti curatoriali si è affiancata la ricerca nell’archivio della Kunsthalle, dove si sono trovati riscontri ed informazioni utili per ampliare la visione totale dell’evento, incluse le recensioni e le polemiche sollevate. Infine un ultimo arricchimento è venuto dagli artisti e dalle loro fondazioni che hanno fornito precisazioni sulle opere esposte e non. In generale la ricostruzione ha potuto contare su oltre un migliaio di fotografie, provenienti dagli archivi di Claudio Abate, Leonardo Bezzola, Balthasar Burkhard, Siegfried Kühn, Dölf Preisig, Harry Shunk e Albert Winkler, una raccolta quasi completa, e per la maggior parte inedita, di tutto quanto è stato registrato attraverso le immagini fotografiche. Queste sono state sottoposte ad un’accorta analisi e sono diventate fonti di scoperte e di novità, che hanno spesso arricchito la conoscenza anche degli stessi protagonisti, ampliandone i ricordi e le visioni. Sono venute alla luce opere e installazioni, mai menzionate né registrate sia nel catalogo di Berna sia nelle successive ricerche fatte da studiosi internazionali”. Una volta tracciata la mappa di tutte le opere in mostra e non, come si è proceduto per averle? Quali problemi hanno comportato i prestiti, una volta scoperto che l’opera è andata distrutta o dispersa ? Quale metodo espositivo è stato adottato per evidenziare le assenze? “Essendo una mostra che ha rappresentato un momento di rottura rispetto alla staticità e alla fissità del lavoro d’arte, immettendo un fattore performativo, per cui a volte l’opera mutava nel corso del tempo arrivando a distruggersi, è apparso immediatamente chiaro che a Venezia la possibilità di una ricostruzione totale e originale sarebbe stata impossibile. Tuttavia si è proceduto cercando di avvicinarci al massimo risultato con la consapevolezza che il revisiting avrebbe dovuto basarsi su due realtà: la prima consistente nel reperimento delle opere originali già acquisite da raccolte private e pubbliche, ad esempio i rintracciabili lavori di Carl Andre, Claes Oldenburg, Bruce Nauman, Eva Hesse, Giovanni Anselmo, Hanne Darboven, Reiner Ruthenbeck, Marinus Boezem e Richard Tuttle, che insieme ai rifacimenti – la seconda realtà – da attuarsi invece con la collaborazione degli artisti o delle loro fondazioni che nel loro insieme avrebbero permesso la ricostruzione dell’impatto visivo nelle singole stanze, con la relazione tra volumi e materie. Il primo compito è stato assolto nella maniera tradizionale con richieste a musei e collezionisti, mentre la seconda ha richiesto un ritorno alla fonte, in questo caso l’autore stesso o il suo archivio per chiedere se era possibile una riproposta, sorta di copia espositiva o replica del lavoro: quest’ultimo caso ha sollevato diverse problematiche che hanno coinvolto gli artisti quanto i musei e i collezionisti. Tuttavia alcuni artisti non riconoscono oggi il valore di certi lavori del 1969 o li ritengono ancorati nel loro passato e non più esponibili. Se addirittura non li rinnegano come errori di gioventù o idee che non condividono più. È cambiata così tanto l’arte dal 1969? E quale approccio ha seguito in questi casi ? Nel ricostruire questa mostra ha più peso il documento storico o il rispetto del volere soggettivo dell’artista oggi a quaranta anni di distanza? “La traslazione da un momento all’altro significa un trasporto nel tempo, è una resurrezione di cariche espressive ed emotive che sono passate. Siccome non avvengono attraverso la memoria ma mediante il remake si riproducono concretamente e diventano azioni presenti, quindi una carica che era trascorsa viene riproposta come attuale. Per alcuni è difficile riproporre impulsi e motivazioni già provate, per altri non c’è alcunché di nuovo né di differente, perché il fattore attivo dell’opera è tuttora in corso ed è ancora effettiva. In un caso la rievocazione riflette acquisizioni già elaborate, ma troppo sperimentali o giovanili, per altri è già una definizione di un percorso che è testimonianza di una dichiarazione linguistica anticipatrice ma già matura. Certamente la rielaborazione odierna non corrisponde più ad un’attitudine che tendeva ad oltrepassare il linguaggio tradizionale, ma rischia di essere un ritorno al passato. Tuttavia per capire il presente bisogna far riferimento alle trasformazioni già attuate, anche se appaiono o sono errori. Dopo il 1969 l’arte si è lentamente adeguata alla società dei consumi e dell’informazione di massa, per cui la primarietà delle materie e dei gesti ha lasciato campo alla processualità industriale e mercantile. Lentamente l’operazione artistica si è tramutata in un prodotto prefabbricato ed apparente: una costruzione speculare e narrativa del reale. Si è attuata una moltiplicazione dell’esistente che ha appiattito le forme e il discorso visivi radicali e trasgressivi. Si è creato uno spettacolo dell’arte per riproporne una dimensione decorativa ed esibizionista, mentre l’arte scaturita dal 1968 aspirava ad essere de-realizzante ed iconoclasta. Di fatto l’aspirazione di When Attitudes Become Form è stata quella di abolire il rituale tradizionale del mostrare un’opera a favore di un’esperienza del suo processo di costruzione e di transito dinnanzi allo sguardo dell’osservatore. Qual è il ruolo del curatore in una ripetizione, quasi identica come ambienti e opere, di una mostra in origine curata da un altro? Esiste una sorta di ‘copyright’ nel concepire la curatela di una mostra ? Se sì quanto la mostra intesa come progetto autoriale s’avvicina ad un’opera d’arte? Nel rifare la mostra come WABF è necessario assumere lo stesso ruolo del curatore, che incontrò artisti e protagonisti oppure la rivisitazione si può fare in modo automatico, puramente tecnico, ripetendo azioni e decisioni? “Se si assume When Attitudes Become Form come un oggetto d’uso storico e linguistico, confezionato nel 1969, innalzando l’insieme a unità compatta e definita, la prima operazione curatoriale è quella di restaurarne la totalità, mettendo insieme i frammenti (i singoli lavori d’arte) dislocati e dispersi. È un processo che inizialmente è indifferente alle parti che compongono il tutto. L’intento non è suscitare nuove associazioni o assegnare nuove collocazioni, ma praticare una ricostruzione senza ridisegnarla né modificarla, usando solo gli smembramenti. È un fissarsi su una struttura rigida, ordinata e armonica in cui le relazioni tra le componenti formava un sistema chiuso. Pertanto, il ritrovamento dei residui ha quale fine di ricomporre e mettere insieme il ‘testo’ narrativo steso da Szeemann in collaborazione con gli artisti stessi, immesso tra le ‘pagine’ architettoniche, bianche, della Kunsthalle di Berna. La raccolta di queste parti, spesso effimere e disperse, insieme ai residui che sono entrati nei musei e nelle collezioni, è tesa a ricreare un puzzle o una costellazione identificabile come una totalità, all’epoca pensata quale un nuovo sistema di fare, di mostrare e di pensare l’arte. Tale processo è coinciso, quindi, con un vero e proprio restauro di un prodotto dell’attività creativa. Innanzitutto si è dovuto riconoscere il valore dell’intera operazione, come è stato ammesso da tutti gli studiosi d’arte contemporanea, poi si è identificata la sua materia cioè la sua consistenza fisica, seguita dal riconoscimento estetico e storico che ha contribuito alla necessità di trasmetterla nel futuro, quale fatto fondante di una vicenda primaria. Tale molteplice consistenza è data dall’intreccio tra architettura, opere, relazioni e tutte queste componenti sono state studiate attraverso un metodo scientifico, prima in relazione al tempo ed al luogo in cui è stata realizzata, a Berna, e poi in rapporto al presente storico e alla sua nuova collocazione a Venezia. È fondamentale indagare l’unità dell’esposizione, sia da un punto di vista qualitativo che quantitativo cercando di avvicinarci al suo intero. Il passaggio successivo è stato di verificare fino a che punto fosse possibile la ricostruzione di tale unità. Ciò è avvenuto mettendo insieme tutte le informazioni possibili sui singoli tasselli del mosaico espositivo, capendo anche dove ci sarebbero le lacune e i vuoti che potevano riguardare il materiale che componeva la mostra. Che tipo di intervento sarebbe stato necessario per colmarle? Si sarebbero ripristinate con un inserimento di simulazioni contemporanee, oppure si sarebbe lasciato un vuoto, cercando di segnalare un’assenza? O ancora in maniera più radicale sarebbe stato necessario costruire immagini in vitro, molto vicine ad un ‘falso’, quasi sempre fallimentare? Quale sarebbe stata la legittimità di un tale intervento sostitutivo o informativo? Si sarebbe lavorato caso per caso o sulle singole accumulazioni, stanza per stanza? Come risolvere tutte queste problematiche che avrebbero riguardato la visione del curatore, passata e presente, con la consapevolezza che il ruolo del curatore che non è solo quello di assemblatore di nuovi insiemi, ma anche di un ricostruttore di contesti, ambientali e culturali, dove ricostruire da buon conservatore della storia le tracce passate? A tali problematiche sollevate dal remake o dal revisiting di When Attitudes Become Form si è tentato di rispondere creando a Venezia un dialogo tra il curatore-restauratorericostruttore delle cose d’arte e l’architetto Rem Koolhaas e l’artista Thomas Demand, al fine di creare una prospettiva multipla e plurilinguistica capace di affrontare le diverse risposte architettoniche e visuali. Insieme si sono cercate e trovate soluzioni sul raccordo temporale e spaziale tra l’evento del 1969 e la decisione di un suo remake e di un suo reenacting. È sorto qui il problema della cornice che ospitava nel 1969 la mostra, totalmente diversa da quella veneziana nel 2013: la necessità di definire un trapasso tra lo spazio fisico in cui era immersa nella Kunsthalle e nella Schulwarte a Berna e quello del palazzo settecentesco di Ca’ Corner della Regina a Venezia. Due spazialità diverse che avrebbero dovuto interagire con l’oggetto When Attitudes Become Form. Quale possibile raccordo o disaccordo si deve trovare tra le due temporalità e le due spazialità? Inventarne un terzo che riguarda il godimento attuale dell’intera opera, così che risulti facile da percepire ad un pubblico attuale, oppure lavorare su uno strappo ambientale e temporale? La differenza è sostanziale e riguarda il rapporto con l’osservatore, il pubblico. Siccome qualsiasi architettura ha un valore spaziale diverso, rimuovere quella di Berna per utilizzare quella di Venezia sarebbe stata un’operazione di estrinsecazione diversa dalla formulazione storica. Annullare invece la presenza storico-muraria di Venezia a favore di una sequenza di stanze white cube avrebbe significato immettere l’insieme curato da Szeemann in un limbo, senza ancoraggi o referenze visive ed esperienziali alla situazione presente. Si è optato per una spazialità che non risolvesse il discorso a favore di una o dell’altra architettura, forzando la frattura temporale e spaziale. Il risultato è stato di creare un continuum dove il problema architettonico altera ed è alterato dall’innesto tra Kunsthalle, Schulwarte e Ca’ Corner della Regina. Non si è tentato di realizzare alcun falso criterio di continuità o di integrazione stilistica, ma si è lavorato per contrasto, immettendo in modo eclatante gli spazi moderni di Berna dentro il contenitore storico di Venezia. E, a ben vedere, entrambe le situazioni di fatto fanno parte della trasmissione dell’opera When Attitudes Become Form. Una volta trovata la cornice corretta per evidenziare la complessità di una ricostruzione, s’è passati al recupero e alla ricostruzione, quando necessario, delle figure – cioè le opere – che componevano il ‘racconto’ per immagini di Szeemann. Il lavoro del curatore a Venezia è stato dunque quello di negare la propria soggettività di assemblatore di mostre per ricostruire e restaurare un testo di un altro curatore. Questa spersonalizzazione è un tentativo di far sì che relazione oggettiva e soggettiva con la cosa esposta non siano più considerati antinomici. Il compito finale è stato quello di evocare un sorprendente prodotto d’epoca, d’identificarsi con esso, senza assumerlo come romantica e nostalgica rovina dell’altrui e proprio tempo passato. Una volta ricostruito come significante privilegiato di una serie di significati instabili e aleatori, entrare in rapporto diacronico con esso per suscitare una sensibilità attuale. E siccome questo oggetto del 1969, ricostruito e restaurato, necessitava nel 2013 di un nuovo rapporto con l’attualità, lo si è inserito in una zona di sospensione, un territorio estraneo alla sua storia e alla sua cronologia – Ca’ Corner della Regina – con l’idea di rilanciare la geografia e la storia del suo immaginario. Di fatto, inserirlo come un corpo irritante in un dentro che potesse provocare una secrezione di difesa: la sua nuova perla”. Ora che When Attitudes Become Form si è aperta a Venezia, in Cà Corner della Regina, cosa è cambiato nel suo percorso di storico e di curatore? “Rivisitare dal vero un evento che avevo vissuto in diretta a Berna e ricostruirlo, mi ha confermato la potenza del momento storico sia sul piano del linguaggio artistico che del procedere del curatore. Essendo una rivisitazione condotta in occasione della Biennale di Venezia 2013, quindi da collocarsi in un contesto non neutro, ma definito da altre proposte curatoriali – quella di Massimiliano Gioni, con il suo Palazzo Enciclopedico, e quelle delle decine e decine di curatori che sono intervenuti nelle mostre collaterali – ho capito che il pericolo dell’arte contemporanea e del suo modo di comunicare sta nel ridursi a un’immagine sottile e senza peso, capace di scorrere fluidamente, senza ancoraggio sulla parete bianca, la quale può essere metafora di un museo, di una galleria e di una fiera. Si è perso il contatto e, diciamo, il dialogo con il contesto, e l’arte si è ridotta ad un prodotto senza peso e energia, fondamentalmente un decoro temporaneo di un possibile cubo bianco, simbolico di qualsiasi contesto abitativo ospitante. Sento quindi sempre più l’esigenza di ancorare l’arte a un luogo o un territorio, invitandola a mettere le radici, senza dimenticare la storia. Ad esempio la cancellazione dell’architettura cinquecentesca dell’Arsenale, condotta attraverso la costruzione di percorsi dalle bianche pareti in legno o in cartongesso, è indice di un’astrazione ambientale, legata alla messa in un limbo dell’arte. When Attitudes Become Form era invece un tutto che il mercato ha parimenti spezzato, ma si capisce la sua forza ricomponendolo. I frammenti non formano una statua o un vaso, sono rovine, e qui sta il rischio del presente contemporaneo di trasformarsi in rovina. All’epoca l’istanza di fare arte non era tesa ad una pratica edonistica né didattica né economica, per cui le cose potevano andare distrutte o disperse, essere inutili e non funzionali. A contare era la prova di un’energia mentale e fisica, comportamentale ed emotiva che portava alla costruzione di ‘figure’ immaginarie senza alcun fine se non il piacere di esprimersi. L’aspirazione all’idea e della sua soddisfazione cercava di avere effetto sul reale, non solo in cambio della sopravvivenza, ma dell’azione sul pubblico, che allora si definiva ‘politica’: rifiuto del diletto e del decoro a favore di un produrre energetico che sollecitasse domande”.
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di Germano Celant - [gallery ids="9601,9602,9603,9604,9605,9606,9607,9608"]Qual è stato l’impianto teorico e stiocro che ha sostenuto la rivisitazione e la ricostruzione ,”così com’era”, della mostra curata da Harald Szeemann nel 1969 alla Kunsthalle di Berna? “È sempre la lettura della storia dell’arte a sostenere un progetto. Se si pensa alla logica che ha sostenuto la comunicazione artistica nel corso dei secoli passati si può verificare che – in generale – fino all’Ottocento gli interventi degli artisti erano eseguiti in relazione o in situazione, vale a dire rispondevano a una commissione o a un contesto che veniva loro suggerito od offerto. Quindi le opere erano messe in relazione o erano situate in un territorio ambientale o informativo che era scelto dialetticamente tra committente e artista stesso. Per un lungo periodo l’arte, che non aspira a circolare liberamente come prodotto di scambio e di consumo, si nutre di osmosi con il contesto, dalla caverna al palazzo, dalle pareti al soffitto, e forma un unicum indivisibile. Tale dialogo si spezza quando nell’Ottocento, una volta scomparso il mecenatismo dei nobili, le opere si devono adeguare ad un mercato borghese che si nutre di artefatti disponibili alla circolazione, nel 1863 si creano i Salons. Sono queste le nuove ambientazioni degli artisti ‘non integrati’, vale a dire dei ‘refusés’ e degli ‘indipendenti’ in cui sono raccolti non più integrati, ma appesi ai muri i lavori artistici da mettere in vendita. Tale salto contestuale che sradica l’intervento dall’inserimento murario crea un altro tipo di relazione e di situazione, quella tra le opere stesse e il loro allestimento. È un passaggio che non è mai stato studiato completamente, perché mancano le tracce della logica con cui gli stessi artisti entravano in relazione tra di loro, ponendo i quadri sopra velluti o sculture su piedestalli, e le poche fotografie dell’epoca non permettono una tale ricostruzione. Tuttavia l’input dell’artista sul modo di vedere la sua opera doveva essere importante e controllato, non affidato al caso o ad altri, come mercanti. E se lo era, anche questo elemento può essere soggetto di studio. Tuttavia a partire dal Novecento, le esposizioni sono sempre più controllate dagli artisti stessi, che le adottano per lanciare i loro movimenti linguistici, da Der Blaue Reiter a Monaco nel 1911 a Les Peintres Futuristes Italiens a Parigi nel 1912. Sono momenti di installazione a cui gli artisti partecipano arrivando a creare insiemi dirompenti e sorprendenti, come The First International Dada Fair, a Berlino nel 1920 e Esposition Internationale du Surréalisme a Parigi nel 1938. Si potrebbe affermare che tali insieme diventano un dispositivo dove l’apparente confusione diventa una fusione visuale che argomenta la poetica del gruppo. Il fatto di organizzare le cose o gli oggetti, le fotografie o i materiali secondo un accadere, che sembra fuori di ogni aspettativa, suscita interrogativi e domande. È la stessa cosa successa con When Attitudes Become Form, dove le opere si devono considerare in funzione dell’insieme. Qui ogni entità singola sembra scomparire a favore di un intreccio tra le parti, qualcosa che lo spettatore deve sbrogliare da sé. La concettualità nasce prima delle opere, perché il discorso deriva dal dispositivo curatoriale. Qui sta l’importanza di Szeemann che abbandona la mostra a ‘composizioni’ curiose e caotiche, dense e aperte. Se si assume la mostra come un tutto, in maniera barocca, si capisce come la mostra sia riuscita nel 1969 ad allontanarsi dal display classico e museale, vigente allora nel mondo dell’arte moderna e contemporanea. Lavorando sulle attitudini e sui loro risultati improvvisati ed effimeri, ottiene infatti effetti poetici, inventati e scoperti in situ. In tal modo il piacere del concetto si traduce in conoscenza del piacere. Non si pone alcun criterio di convenienza solo di legame, che deriva da una reciproca familiarità tra gli artisti e il loro fare. Ricostruire questo campo di energia, con le sue varietà espressive, ha significato rivisitare un dispositivo che se anticamente era architettonico, come una cappella o una chiesa, qui era basato sulla varietà e sulla variabilità di una sintonia che non era concreta e muraria, ma basata su un’integrità esperienziale condivisa. Un intreccio di momenti lirici e drammatici che hanno prodotto un tutto dall’acutezza mirabile che commuove ancora oggi. E su tale ipotesi di insieme meravigliante che si è costruito il progetto, facendolo coincidere con un’assolutezza scientifica, capace di ricreare questo tempio effimero del fare arte nel 1969. Di fatto si è cercato di continuare lo studio degli ‘interventi’ globali degli artisti in un contesto che non è più la chiesa o il palazzo, ma la mostra che è diventata il luogo del nuovo splendore contemporaneo”. Si può dire che When Attitudes Become Form rappresenti l’ultimo anelito dello sconvolgimento e della trasgressione modernista, per cui cristallizzarlo in una situazione fuori del suo contesto storico, politico e culturale non rischia di dissolvere la radicalità dell’originale? Se al tempo le immagini di tale operazione hanno avuto un effetto sulla realtà e sull’articolarsi del linguaggio dell’arte, oggi non rischiano di trasformarsi in feticizzazione nostalgica di un’illusione, quindi di una debolezza? “È evidente che la mostra organizzata da Szeemann nel 1969 è stata un’apertura verso un’immaginazione libera quanto politicamente inutile: un buon proposito di un fare rappresentativo che si connetteva alle avanguardie del modernismo. Si può assumere quale gesto morale e critico verso le proposte tradizionali del fare arte, che respingeva la realtà solo per rappresentarla e sottoporla ad un processo mimetico. Le ricerche mostrate a Berna, come in Op Losse Schroeven, realizzata in contemporanea allo Stedelijk Museum di Amsterdam, che presero il nome di Land art, Process art, Arte povera, Conceptual art, erano un ulteriore tentativo di rivalutare la dimensione pragmatica del vedere e del sentire. Vale a dire un cambio di segno espresso nell’attenzione alle tecniche e ai materiali, per esaltare una concezione poetica rispetto a una contemplativa, in cui l’essere umano è spinto a immergersi e non semplicemente guardare. Basta osservare la documentazione che riguarda l’arrivo in scena del pubblico, per capire come tale arte tendesse a un coinvolgimento fisico e corporale. Naturalmente, tale porsi è stato visto, allora, come un eccesso di negatività e di trasgressione rispetto all’istituzione. Qualcosa di ingovernabile e senza regole, che spingeva verso una demitizzazione della sacralità della pittura e della scultura: un rifiuto delle forme classiche per un’esaltazione della dimensione informe – all’epoca definita anche anti-form – della marginalità artistica. Con il suo interesse per il carattere insignificante e concreto delle materie e delle cose l’esposizione del 1969 solennizzò il carattere fortuito e caotico dell’arte, la sua permeabilità a tutti i possibili linguaggi e a tutte le possibili materie, dal piombo all’acqua, dal fuoco alla cera, dalla margarina al tubo fluorescente, dal cuoio al feltro, dai vetri rotti al ghiaccio, dalla cenere al cotone, così come a tutti gli strumenti utili, non privilegiati, dalla pala al caterpillar, dal giornale al cartellone, dalla lettura al camminare… Da cui la de-sacralizzazione di una cultura visiva che si era identificata solo con il dipingere e lo scolpire come con la dislocazione o lo spiazzamento linguistici dell’oggetto trovato. È una celebrazione del significato dell’insignificante, della realtà che si pone in sintonia proprio con il carattere effimero e temporaneo di un esistere sociale e culturale: un doppio senza valore da contrapporre a una catastrofe dei valori passati. E la sanzione prima della presenza di fare rovinoso e frammentario, dissolto e fluido, contrario ad ogni uni-dimensionalità dell’arte”. Di fatto, il reenacting di WABF rischia di tramutare l’effetto di trasgressione in una proposta rassicurante. All’epoca, l’esibizione di scarti industriali e di materie performative e mutanti che bruciavano o si scioglievano per dare corpo ad altre entità tendevano a mettere in discussione la staticità quanto la sacralità dell’artefatto, quanto del luogo espositivo, la Kunsthalle Bern, tanto da sollevare le reazioni dei conservatori che costrinsero Szeemann a dimettersi. Oggi questo non può succedere, anzi questo strappo curatoriale ed artistico viene sacralizzato. Quello che era stato proposto come elusione della fissità e delle regolarità classica ora viene fissato e dissolto in un’accettazione senza riserve: un simulacro privo di effetti. Si può affermare che oggi la radicalità e la trasgressione legate al percorso del modernismo hanno trovato un luogo ed un posto, compresa il display catastrofico e caotico della mostra di Szeemann? Il remake veneziano è l’ultimo atto sublimante di una radicalità che è ormai obsoleta? “La messa in discussione, e la conseguente azione trasgressiva, esistono perché si pone un punto di partenza e di possibile alternativa rispetto ad una condizione preesistente. L’aspetto utopico di tale fare, che implicava un mondo linguistico altro, opposto o quanto meno diverso dal precedente, va ancorato alla situazione storica del momento, il biennio 1968-1969, quando ci si accorge che l’arte si è tramutata in una atto puramente decorativo. Seppure le ricerche sviluppatesi dal 1945 al 1964, dall Espressionismo astratto alla Pop art, avessero tentato di prendere in considerazione la dimensione solitaria e disperata dell’artista, la sua angoscia esistenziale e l’esperienza drammatica del vivere, travolto dalla tragedia della seconda guerra mondiale, come il dissolvimento del valore morale e rappresentativo dell’arte ormai scalzata e fagocitata dall’immaginario mediatico, dalla pubblicità al cartoons, tali proposizioni non erano riuscite a scalzare il valore decorativo dell’artefatto. Si ponevano come duplicati di un immaginario individuale e industriale, senza indebolire e screditare minimamente la pratica del fare, del mostrare, del comunicare e del consumare l’arte. Le attitudini prodotte e mostrate a Berna sottintendevano una scena espositiva che, occupando non solo i musei, ma le strade e gli spazi pubblici, riflettesse un’azione politica in cui tutti fossero coinvolti, artisti e spettatori, e di cui tutti dovevano prendere consapevolezza. È stata questa la vera illusione che rivela ancora il desiderio di una rivoluzione illuminista intrecciata al sogno di proseguire il discorso radicale delle avanguardie del modernismo. Certamente il remake di tale evento rischia, nella sua ripetizione, di esaltare un momento ideale ma al tempo stesso serve a far percepire, mediante l’avvicinamento al suo stato ‘originale’, la realtà di un mito che non è affidabile solo alla documentazione fotografica, ma all’esperienza di un entusiasmo e di un fervore artistico che chiedeva coinvolgimento. La resurrezione di When Attitudes Become Form mette in circolazione lo spettro di una radicalità che oggi non ha più effetto, perché l’arte non è più un’arma politica rispetto alle lotte reali. Affidandosi allo sguardo dell’oggi, tali proposte appaiono forse facili e irreali ma bisogna sottolineare che questa ipotetica sconfitta ha portato ad una nuova dimensione dell’immaginario artistico. Ad un’analisi retrospettiva, si può dire che la sua effettualità sul mondo sia stata infinitesimale, ma rimane in ogni caso un’influenza sul dissolvimento delle strutture tradizionali del sistema dell’arte. Se tutto questo oggi si è trasformato in business, per cui l’arte ha perso qualsiasi identità sociale per diventare merce simbolica ed economica, significa che il tentativo di scollamento dal compromesso consumistico è fallito. L’arte si è posta a rimorchio del mercato ed è arrivata al punto estremo di inefficacia nel suo rapporto critico e poetico con la società e la cultura. Di fatto, a contare nella costruzione di When Attitudes Become Form sono stati anche gli aggiustamenti spaziali che ogni artista ha attuato per convivere con gli altri. È un muoversi interattivo, piuttosto che la creazione di uno spazio privato ed indipendente. Non si poneva infatti alcuna ‘proprietà’ ambientale, ma la semplice territorialità dell’opera stessa. Era il lavoro a cercarsi linkage con gli altri, così da stabilire un rapporto empatico e condiviso. Simile legame ha un carattere comunitario, ampiamente documentato dalle fotografie in cui diversi artisti lavorano in contemporanea, nella stessa stanza, quasi fossero una ‘comune’, ed è tipico del momento storico, basato su una pratica di socialità che è politica quanto creativa. È qualcosa di simile ad un incontro casuale che produce al tempo stesso una confusione e una fusione. La mostra di Berna è stata quasi una formazione di proposizioni che, come in un incavo terrestre, hanno trovato il loro sviluppo scendendo dai soffitti o arrampicandosi alle pareti o trovando una dimensione gravitazionale a pavimento. Il senso vero della mostra di Szeemann è stato quello di mettere insieme un divenire indeterminato dell’arte così che si percepisse un continuo transito tra le opere, in modo che non fosse possibile isolare le caratteristiche individuali, ma l’energia d’insieme. È un momento interattivo e un mettersi ‘in rete’ che evidenzia il passaggio da uno all’altro, in piena attualità: la simultaneità e la coesistenza del presente artistico, che è anche sottolineata dal messa in mostra di gesti e di azioni corporali, dalla stesura di margarina di Joseph Beuys alla distesa di piombo fuso di Richard Serra all’accensione dei giunchi di Gilberto Zorio e alla rimozione fotografica di Ger van Elk. Per non parlare dell’arte come processo ed operazione in situ che cerca di superare il senso del prodotto confezionato e fabbricato a favore dell’operazione linguistica relativa ad una specifica collocazione e situazione, che non è all’interno dell’istituzione ma si immerge nel contrasto urbano, da Michael Heizer a Daniel Buren. Nasce una mostra che funziona come un vortice capace di travolgere lo spettatore, per metterlo in relazione diretta con il processo creativo. È un modo di sottoporre il pubblico a una forza vertiginosa che ne alteri la visione, così da perdersi in essa”. Prima di arrivare ad una soluzione che integrasse la ricostruzione di una vicenda radicale in un contesto attuale, completamente dominato da altri valori non solo linguistici, ma economici come si è proceduto per acquisire tutti i dati scientifici su cui lavorare ad una mappatura completa e precisa di quanto era avvenuto a Berna? “La ricerca si è sviluppata su diversi livelli, che includevano le fonti primarie dall’archivio di Szeemann, ora presso il Getty Institute di Los Angeles, e le testimonianze dirette degli artisti o i documenti reperibili nelle loro fondazioni, quanto le tracce fotografiche e scritte nella biblioteca della Kusthalle di Berna. Attraverso la raccolta dei diversi dati, che spesso hanno portato a conferme, quanto a sorprese, è iniziata la possibile mappatura delle opere in ogni singola stanza. A questo risultato ha contribuito enormemente la collaborazione con il Getty Institute, diretto da Thomas Gaehtgens, che attraverso l’attento studio condotto da Glenn Philips con il suo team su documenti, lettere e fotografie relative a Sezeemann e a When Attitudes Become Form ha permesso l’identificazione delle opere sia in mostra che non. Accanto a questa preziosa indagine sulle fonti curatoriali si è affiancata la ricerca nell’archivio della Kunsthalle, dove si sono trovati riscontri ed informazioni utili per ampliare la visione totale dell’evento, incluse le recensioni e le polemiche sollevate. Infine un ultimo arricchimento è venuto dagli artisti e dalle loro fondazioni che hanno fornito precisazioni sulle opere esposte e non. In generale la ricostruzione ha potuto contare su oltre un migliaio di fotografie, provenienti dagli archivi di Claudio Abate, Leonardo Bezzola, Balthasar Burkhard, Siegfried Kühn, Dölf Preisig, Harry Shunk e Albert Winkler, una raccolta quasi completa, e per la maggior parte inedita, di tutto quanto è stato registrato attraverso le immagini fotografiche. Queste sono state sottoposte ad un’accorta analisi e sono diventate fonti di scoperte e di novità, che hanno spesso arricchito la conoscenza anche degli stessi protagonisti, ampliandone i ricordi e le visioni. Sono venute alla luce opere e installazioni, mai menzionate né registrate sia nel catalogo di Berna sia nelle successive ricerche fatte da studiosi internazionali”. Una volta tracciata la mappa di tutte le opere in mostra e non, come si è proceduto per averle? Quali problemi hanno comportato i prestiti, una volta scoperto che l’opera è andata distrutta o dispersa ? Quale metodo espositivo è stato adottato per evidenziare le assenze? “Essendo una mostra che ha rappresentato un momento di rottura rispetto alla staticità e alla fissità del lavoro d’arte, immettendo un fattore performativo, per cui a volte l’opera mutava nel corso del tempo arrivando a distruggersi, è apparso immediatamente chiaro che a Venezia la possibilità di una ricostruzione totale e originale sarebbe stata impossibile. Tuttavia si è proceduto cercando di avvicinarci al massimo risultato con la consapevolezza che il revisiting avrebbe dovuto basarsi su due realtà: la prima consistente nel reperimento delle opere originali già acquisite da raccolte private e pubbliche, ad esempio i rintracciabili lavori di Carl Andre, Claes Oldenburg, Bruce Nauman, Eva Hesse, Giovanni Anselmo, Hanne Darboven, Reiner Ruthenbeck, Marinus Boezem e Richard Tuttle, che insieme ai rifacimenti – la seconda realtà – da attuarsi invece con la collaborazione degli artisti o delle loro fondazioni che nel loro insieme avrebbero permesso la ricostruzione dell’impatto visivo nelle singole stanze, con la relazione tra volumi e materie. Il primo compito è stato assolto nella maniera tradizionale con richieste a musei e collezionisti, mentre la seconda ha richiesto un ritorno alla fonte, in questo caso l’autore stesso o il suo archivio per chiedere se era possibile una riproposta, sorta di copia espositiva o replica del lavoro: quest’ultimo caso ha sollevato diverse problematiche che hanno coinvolto gli artisti quanto i musei e i collezionisti. Tuttavia alcuni artisti non riconoscono oggi il valore di certi lavori del 1969 o li ritengono ancorati nel loro passato e non più esponibili. Se addirittura non li rinnegano come errori di gioventù o idee che non condividono più. È cambiata così tanto l’arte dal 1969? E quale approccio ha seguito in questi casi ? Nel ricostruire questa mostra ha più peso il documento storico o il rispetto del volere soggettivo dell’artista oggi a quaranta anni di distanza? “La traslazione da un momento all’altro significa un trasporto nel tempo, è una resurrezione di cariche espressive ed emotive che sono passate. Siccome non avvengono attraverso la memoria ma mediante il remake si riproducono concretamente e diventano azioni presenti, quindi una carica che era trascorsa viene riproposta come attuale. Per alcuni è difficile riproporre impulsi e motivazioni già provate, per altri non c’è alcunché di nuovo né di differente, perché il fattore attivo dell’opera è tuttora in corso ed è ancora effettiva. In un caso la rievocazione riflette acquisizioni già elaborate, ma troppo sperimentali o giovanili, per altri è già una definizione di un percorso che è testimonianza di una dichiarazione linguistica anticipatrice ma già matura. Certamente la rielaborazione odierna non corrisponde più ad un’attitudine che tendeva ad oltrepassare il linguaggio tradizionale, ma rischia di essere un ritorno al passato. Tuttavia per capire il presente bisogna far riferimento alle trasformazioni già attuate, anche se appaiono o sono errori. Dopo il 1969 l’arte si è lentamente adeguata alla società dei consumi e dell’informazione di massa, per cui la primarietà delle materie e dei gesti ha lasciato campo alla processualità industriale e mercantile. Lentamente l’operazione artistica si è tramutata in un prodotto prefabbricato ed apparente: una costruzione speculare e narrativa del reale. Si è attuata una moltiplicazione dell’esistente che ha appiattito le forme e il discorso visivi radicali e trasgressivi. Si è creato uno spettacolo dell’arte per riproporne una dimensione decorativa ed esibizionista, mentre l’arte scaturita dal 1968 aspirava ad essere de-realizzante ed iconoclasta. Di fatto l’aspirazione di When Attitudes Become Form è stata quella di abolire il rituale tradizionale del mostrare un’opera a favore di un’esperienza del suo processo di costruzione e di transito dinnanzi allo sguardo dell’osservatore. Qual è il ruolo del curatore in una ripetizione, quasi identica come ambienti e opere, di una mostra in origine curata da un altro? Esiste una sorta di ‘copyright’ nel concepire la curatela di una mostra ? Se sì quanto la mostra intesa come progetto autoriale s’avvicina ad un’opera d’arte? Nel rifare la mostra come WABF è necessario assumere lo stesso ruolo del curatore, che incontrò artisti e protagonisti oppure la rivisitazione si può fare in modo automatico, puramente tecnico, ripetendo azioni e decisioni? “Se si assume When Attitudes Become Form come un oggetto d’uso storico e linguistico, confezionato nel 1969, innalzando l’insieme a unità compatta e definita, la prima operazione curatoriale è quella di restaurarne la totalità, mettendo insieme i frammenti (i singoli lavori d’arte) dislocati e dispersi. È un processo che inizialmente è indifferente alle parti che compongono il tutto. L’intento non è suscitare nuove associazioni o assegnare nuove collocazioni, ma praticare una ricostruzione senza ridisegnarla né modificarla, usando solo gli smembramenti. È un fissarsi su una struttura rigida, ordinata e armonica in cui le relazioni tra le componenti formava un sistema chiuso. Pertanto, il ritrovamento dei residui ha quale fine di ricomporre e mettere insieme il ‘testo’ narrativo steso da Szeemann in collaborazione con gli artisti stessi, immesso tra le ‘pagine’ architettoniche, bianche, della Kunsthalle di Berna. La raccolta di queste parti, spesso effimere e disperse, insieme ai residui che sono entrati nei musei e nelle collezioni, è tesa a ricreare un puzzle o una costellazione identificabile come una totalità, all’epoca pensata quale un nuovo sistema di fare, di mostrare e di pensare l’arte. Tale processo è coinciso, quindi, con un vero e proprio restauro di un prodotto dell’attività creativa. Innanzitutto si è dovuto riconoscere il valore dell’intera operazione, come è stato ammesso da tutti gli studiosi d’arte contemporanea, poi si è identificata la sua materia cioè la sua consistenza fisica, seguita dal riconoscimento estetico e storico che ha contribuito alla necessità di trasmetterla nel futuro, quale fatto fondante di una vicenda primaria. Tale molteplice consistenza è data dall’intreccio tra architettura, opere, relazioni e tutte queste componenti sono state studiate attraverso un metodo scientifico, prima in relazione al tempo ed al luogo in cui è stata realizzata, a Berna, e poi in rapporto al presente storico e alla sua nuova collocazione a Venezia. È fondamentale indagare l’unità dell’esposizione, sia da un punto di vista qualitativo che quantitativo cercando di avvicinarci al suo intero. Il passaggio successivo è stato di verificare fino a che punto fosse possibile la ricostruzione di tale unità. Ciò è avvenuto mettendo insieme tutte le informazioni possibili sui singoli tasselli del mosaico espositivo, capendo anche dove ci sarebbero le lacune e i vuoti che potevano riguardare il materiale che componeva la mostra. Che tipo di intervento sarebbe stato necessario per colmarle? Si sarebbero ripristinate con un inserimento di simulazioni contemporanee, oppure si sarebbe lasciato un vuoto, cercando di segnalare un’assenza? O ancora in maniera più radicale sarebbe stato necessario costruire immagini in vitro, molto vicine ad un ‘falso’, quasi sempre fallimentare? Quale sarebbe stata la legittimità di un tale intervento sostitutivo o informativo? Si sarebbe lavorato caso per caso o sulle singole accumulazioni, stanza per stanza? Come risolvere tutte queste problematiche che avrebbero riguardato la visione del curatore, passata e presente, con la consapevolezza che il ruolo del curatore che non è solo quello di assemblatore di nuovi insiemi, ma anche di un ricostruttore di contesti, ambientali e culturali, dove ricostruire da buon conservatore della storia le tracce passate? A tali problematiche sollevate dal remake o dal revisiting di When Attitudes Become Form si è tentato di rispondere creando a Venezia un dialogo tra il curatore-restauratorericostruttore delle cose d’arte e l’architetto Rem Koolhaas e l’artista Thomas Demand, al fine di creare una prospettiva multipla e plurilinguistica capace di affrontare le diverse risposte architettoniche e visuali. Insieme si sono cercate e trovate soluzioni sul raccordo temporale e spaziale tra l’evento del 1969 e la decisione di un suo remake e di un suo reenacting. È sorto qui il problema della cornice che ospitava nel 1969 la mostra, totalmente diversa da quella veneziana nel 2013: la necessità di definire un trapasso tra lo spazio fisico in cui era immersa nella Kunsthalle e nella Schulwarte a Berna e quello del palazzo settecentesco di Ca’ Corner della Regina a Venezia. Due spazialità diverse che avrebbero dovuto interagire con l’oggetto When Attitudes Become Form. Quale possibile raccordo o disaccordo si deve trovare tra le due temporalità e le due spazialità? Inventarne un terzo che riguarda il godimento attuale dell’intera opera, così che risulti facile da percepire ad un pubblico attuale, oppure lavorare su uno strappo ambientale e temporale? La differenza è sostanziale e riguarda il rapporto con l’osservatore, il pubblico. Siccome qualsiasi architettura ha un valore spaziale diverso, rimuovere quella di Berna per utilizzare quella di Venezia sarebbe stata un’operazione di estrinsecazione diversa dalla formulazione storica. Annullare invece la presenza storico-muraria di Venezia a favore di una sequenza di stanze white cube avrebbe significato immettere l’insieme curato da Szeemann in un limbo, senza ancoraggi o referenze visive ed esperienziali alla situazione presente. Si è optato per una spazialità che non risolvesse il discorso a favore di una o dell’altra architettura, forzando la frattura temporale e spaziale. Il risultato è stato di creare un continuum dove il problema architettonico altera ed è alterato dall’innesto tra Kunsthalle, Schulwarte e Ca’ Corner della Regina. Non si è tentato di realizzare alcun falso criterio di continuità o di integrazione stilistica, ma si è lavorato per contrasto, immettendo in modo eclatante gli spazi moderni di Berna dentro il contenitore storico di Venezia. E, a ben vedere, entrambe le situazioni di fatto fanno parte della trasmissione dell’opera When Attitudes Become Form. Una volta trovata la cornice corretta per evidenziare la complessità di una ricostruzione, s’è passati al recupero e alla ricostruzione, quando necessario, delle figure – cioè le opere – che componevano il ‘racconto’ per immagini di Szeemann. Il lavoro del curatore a Venezia è stato dunque quello di negare la propria soggettività di assemblatore di mostre per ricostruire e restaurare un testo di un altro curatore. Questa spersonalizzazione è un tentativo di far sì che relazione oggettiva e soggettiva con la cosa esposta non siano più considerati antinomici. Il compito finale è stato quello di evocare un sorprendente prodotto d’epoca, d’identificarsi con esso, senza assumerlo come romantica e nostalgica rovina dell’altrui e proprio tempo passato. Una volta ricostruito come significante privilegiato di una serie di significati instabili e aleatori, entrare in rapporto diacronico con esso per suscitare una sensibilità attuale. E siccome questo oggetto del 1969, ricostruito e restaurato, necessitava nel 2013 di un nuovo rapporto con l’attualità, lo si è inserito in una zona di sospensione, un territorio estraneo alla sua storia e alla sua cronologia – Ca’ Corner della Regina – con l’idea di rilanciare la geografia e la storia del suo immaginario. Di fatto, inserirlo come un corpo irritante in un dentro che potesse provocare una secrezione di difesa: la sua nuova perla”. Ora che When Attitudes Become Form si è aperta a Venezia, in Cà Corner della Regina, cosa è cambiato nel suo percorso di storico e di curatore? “Rivisitare dal vero un evento che avevo vissuto in diretta a Berna e ricostruirlo, mi ha confermato la potenza del momento storico sia sul piano del linguaggio artistico che del procedere del curatore. Essendo una rivisitazione condotta in occasione della Biennale di Venezia 2013, quindi da collocarsi in un contesto non neutro, ma definito da altre proposte curatoriali – quella di Massimiliano Gioni, con il suo Palazzo Enciclopedico, e quelle delle decine e decine di curatori che sono intervenuti nelle mostre collaterali – ho capito che il pericolo dell’arte contemporanea e del suo modo di comunicare sta nel ridursi a un’immagine sottile e senza peso, capace di scorrere fluidamente, senza ancoraggio sulla parete bianca, la quale può essere metafora di un museo, di una galleria e di una fiera. Si è perso il contatto e, diciamo, il dialogo con il contesto, e l’arte si è ridotta ad un prodotto senza peso e energia, fondamentalmente un decoro temporaneo di un possibile cubo bianco, simbolico di qualsiasi contesto abitativo ospitante. Sento quindi sempre più l’esigenza di ancorare l’arte a un luogo o un territorio, invitandola a mettere le radici, senza dimenticare la storia. Ad esempio la cancellazione dell’architettura cinquecentesca dell’Arsenale, condotta attraverso la costruzione di percorsi dalle bianche pareti in legno o in cartongesso, è indice di un’astrazione ambientale, legata alla messa in un limbo dell’arte. When Attitudes Become Form era invece un tutto che il mercato ha parimenti spezzato, ma si capisce la sua forza ricomponendolo. I frammenti non formano una statua o un vaso, sono rovine, e qui sta il rischio del presente contemporaneo di trasformarsi in rovina. All’epoca l’istanza di fare arte non era tesa ad una pratica edonistica né didattica né economica, per cui le cose potevano andare distrutte o disperse, essere inutili e non funzionali. A contare era la prova di un’energia mentale e fisica, comportamentale ed emotiva che portava alla costruzione di ‘figure’ immaginarie senza alcun fine se non il piacere di esprimersi. L’aspirazione all’idea e della sua soddisfazione cercava di avere effetto sul reale, non solo in cambio della sopravvivenza, ma dell’azione sul pubblico, che allora si definiva ‘politica’: rifiuto del diletto e del decoro a favore di un produrre energetico che sollecitasse domande”.
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di Germano Celant - [gallery ids="9601,9602,9603,9604,9605,9606,9607,9608"]Qual è stato l’impianto teorico e stiocro che ha sostenuto la rivisitazione e la ricostruzione ,”così com’era”, della mostra curata da Harald Szeemann nel 1969 alla Kunsthalle di Berna? “È sempre la lettura della storia dell’arte a sostenere un progetto. Se si pensa alla logica che ha sostenuto la comunicazione artistica nel corso dei secoli passati si può verificare che – in generale – fino all’Ottocento gli interventi degli artisti erano eseguiti in relazione o in situazione, vale a dire rispondevano a una commissione o a un contesto che veniva loro suggerito od offerto. Quindi le opere erano messe in relazione o erano situate in un territorio ambientale o informativo che era scelto dialetticamente tra committente e artista stesso. Per un lungo periodo l’arte, che non aspira a circolare liberamente come prodotto di scambio e di consumo, si nutre di osmosi con il contesto, dalla caverna al palazzo, dalle pareti al soffitto, e forma un unicum indivisibile. Tale dialogo si spezza quando nell’Ottocento, una volta scomparso il mecenatismo dei nobili, le opere si devono adeguare ad un mercato borghese che si nutre di artefatti disponibili alla circolazione, nel 1863 si creano i Salons. Sono queste le nuove ambientazioni degli artisti ‘non integrati’, vale a dire dei ‘refusés’ e degli ‘indipendenti’ in cui sono raccolti non più integrati, ma appesi ai muri i lavori artistici da mettere in vendita. Tale salto contestuale che sradica l’intervento dall’inserimento murario crea un altro tipo di relazione e di situazione, quella tra le opere stesse e il loro allestimento. È un passaggio che non è mai stato studiato completamente, perché mancano le tracce della logica con cui gli stessi artisti entravano in relazione tra di loro, ponendo i quadri sopra velluti o sculture su piedestalli, e le poche fotografie dell’epoca non permettono una tale ricostruzione. Tuttavia l’input dell’artista sul modo di vedere la sua opera doveva essere importante e controllato, non affidato al caso o ad altri, come mercanti. E se lo era, anche questo elemento può essere soggetto di studio. Tuttavia a partire dal Novecento, le esposizioni sono sempre più controllate dagli artisti stessi, che le adottano per lanciare i loro movimenti linguistici, da Der Blaue Reiter a Monaco nel 1911 a Les Peintres Futuristes Italiens a Parigi nel 1912. Sono momenti di installazione a cui gli artisti partecipano arrivando a creare insiemi dirompenti e sorprendenti, come The First International Dada Fair, a Berlino nel 1920 e Esposition Internationale du Surréalisme a Parigi nel 1938. Si potrebbe affermare che tali insieme diventano un dispositivo dove l’apparente confusione diventa una fusione visuale che argomenta la poetica del gruppo. Il fatto di organizzare le cose o gli oggetti, le fotografie o i materiali secondo un accadere, che sembra fuori di ogni aspettativa, suscita interrogativi e domande. È la stessa cosa successa con When Attitudes Become Form, dove le opere si devono considerare in funzione dell’insieme. Qui ogni entità singola sembra scomparire a favore di un intreccio tra le parti, qualcosa che lo spettatore deve sbrogliare da sé. La concettualità nasce prima delle opere, perché il discorso deriva dal dispositivo curatoriale. Qui sta l’importanza di Szeemann che abbandona la mostra a ‘composizioni’ curiose e caotiche, dense e aperte. Se si assume la mostra come un tutto, in maniera barocca, si capisce come la mostra sia riuscita nel 1969 ad allontanarsi dal display classico e museale, vigente allora nel mondo dell’arte moderna e contemporanea. Lavorando sulle attitudini e sui loro risultati improvvisati ed effimeri, ottiene infatti effetti poetici, inventati e scoperti in situ. In tal modo il piacere del concetto si traduce in conoscenza del piacere. Non si pone alcun criterio di convenienza solo di legame, che deriva da una reciproca familiarità tra gli artisti e il loro fare. Ricostruire questo campo di energia, con le sue varietà espressive, ha significato rivisitare un dispositivo che se anticamente era architettonico, come una cappella o una chiesa, qui era basato sulla varietà e sulla variabilità di una sintonia che non era concreta e muraria, ma basata su un’integrità esperienziale condivisa. Un intreccio di momenti lirici e drammatici che hanno prodotto un tutto dall’acutezza mirabile che commuove ancora oggi. E su tale ipotesi di insieme meravigliante che si è costruito il progetto, facendolo coincidere con un’assolutezza scientifica, capace di ricreare questo tempio effimero del fare arte nel 1969. Di fatto si è cercato di continuare lo studio degli ‘interventi’ globali degli artisti in un contesto che non è più la chiesa o il palazzo, ma la mostra che è diventata il luogo del nuovo splendore contemporaneo”. Si può dire che When Attitudes Become Form rappresenti l’ultimo anelito dello sconvolgimento e della trasgressione modernista, per cui cristallizzarlo in una situazione fuori del suo contesto storico, politico e culturale non rischia di dissolvere la radicalità dell’originale? Se al tempo le immagini di tale operazione hanno avuto un effetto sulla realtà e sull’articolarsi del linguaggio dell’arte, oggi non rischiano di trasformarsi in feticizzazione nostalgica di un’illusione, quindi di una debolezza? “È evidente che la mostra organizzata da Szeemann nel 1969 è stata un’apertura verso un’immaginazione libera quanto politicamente inutile: un buon proposito di un fare rappresentativo che si connetteva alle avanguardie del modernismo. Si può assumere quale gesto morale e critico verso le proposte tradizionali del fare arte, che respingeva la realtà solo per rappresentarla e sottoporla ad un processo mimetico. Le ricerche mostrate a Berna, come in Op Losse Schroeven, realizzata in contemporanea allo Stedelijk Museum di Amsterdam, che presero il nome di Land art, Process art, Arte povera, Conceptual art, erano un ulteriore tentativo di rivalutare la dimensione pragmatica del vedere e del sentire. Vale a dire un cambio di segno espresso nell’attenzione alle tecniche e ai materiali, per esaltare una concezione poetica rispetto a una contemplativa, in cui l’essere umano è spinto a immergersi e non semplicemente guardare. Basta osservare la documentazione che riguarda l’arrivo in scena del pubblico, per capire come tale arte tendesse a un coinvolgimento fisico e corporale. Naturalmente, tale porsi è stato visto, allora, come un eccesso di negatività e di trasgressione rispetto all’istituzione. Qualcosa di ingovernabile e senza regole, che spingeva verso una demitizzazione della sacralità della pittura e della scultura: un rifiuto delle forme classiche per un’esaltazione della dimensione informe – all’epoca definita anche anti-form – della marginalità artistica. Con il suo interesse per il carattere insignificante e concreto delle materie e delle cose l’esposizione del 1969 solennizzò il carattere fortuito e caotico dell’arte, la sua permeabilità a tutti i possibili linguaggi e a tutte le possibili materie, dal piombo all’acqua, dal fuoco alla cera, dalla margarina al tubo fluorescente, dal cuoio al feltro, dai vetri rotti al ghiaccio, dalla cenere al cotone, così come a tutti gli strumenti utili, non privilegiati, dalla pala al caterpillar, dal giornale al cartellone, dalla lettura al camminare… Da cui la de-sacralizzazione di una cultura visiva che si era identificata solo con il dipingere e lo scolpire come con la dislocazione o lo spiazzamento linguistici dell’oggetto trovato. È una celebrazione del significato dell’insignificante, della realtà che si pone in sintonia proprio con il carattere effimero e temporaneo di un esistere sociale e culturale: un doppio senza valore da contrapporre a una catastrofe dei valori passati. E la sanzione prima della presenza di fare rovinoso e frammentario, dissolto e fluido, contrario ad ogni uni-dimensionalità dell’arte”. Di fatto, il reenacting di WABF rischia di tramutare l’effetto di trasgressione in una proposta rassicurante. All’epoca, l’esibizione di scarti industriali e di materie performative e mutanti che bruciavano o si scioglievano per dare corpo ad altre entità tendevano a mettere in discussione la staticità quanto la sacralità dell’artefatto, quanto del luogo espositivo, la Kunsthalle Bern, tanto da sollevare le reazioni dei conservatori che costrinsero Szeemann a dimettersi. Oggi questo non può succedere, anzi questo strappo curatoriale ed artistico viene sacralizzato. Quello che era stato proposto come elusione della fissità e delle regolarità classica ora viene fissato e dissolto in un’accettazione senza riserve: un simulacro privo di effetti. Si può affermare che oggi la radicalità e la trasgressione legate al percorso del modernismo hanno trovato un luogo ed un posto, compresa il display catastrofico e caotico della mostra di Szeemann? Il remake veneziano è l’ultimo atto sublimante di una radicalità che è ormai obsoleta? “La messa in discussione, e la conseguente azione trasgressiva, esistono perché si pone un punto di partenza e di possibile alternativa rispetto ad una condizione preesistente. L’aspetto utopico di tale fare, che implicava un mondo linguistico altro, opposto o quanto meno diverso dal precedente, va ancorato alla situazione storica del momento, il biennio 1968-1969, quando ci si accorge che l’arte si è tramutata in una atto puramente decorativo. Seppure le ricerche sviluppatesi dal 1945 al 1964, dall Espressionismo astratto alla Pop art, avessero tentato di prendere in considerazione la dimensione solitaria e disperata dell’artista, la sua angoscia esistenziale e l’esperienza drammatica del vivere, travolto dalla tragedia della seconda guerra mondiale, come il dissolvimento del valore morale e rappresentativo dell’arte ormai scalzata e fagocitata dall’immaginario mediatico, dalla pubblicità al cartoons, tali proposizioni non erano riuscite a scalzare il valore decorativo dell’artefatto. Si ponevano come duplicati di un immaginario individuale e industriale, senza indebolire e screditare minimamente la pratica del fare, del mostrare, del comunicare e del consumare l’arte. Le attitudini prodotte e mostrate a Berna sottintendevano una scena espositiva che, occupando non solo i musei, ma le strade e gli spazi pubblici, riflettesse un’azione politica in cui tutti fossero coinvolti, artisti e spettatori, e di cui tutti dovevano prendere consapevolezza. È stata questa la vera illusione che rivela ancora il desiderio di una rivoluzione illuminista intrecciata al sogno di proseguire il discorso radicale delle avanguardie del modernismo. Certamente il remake di tale evento rischia, nella sua ripetizione, di esaltare un momento ideale ma al tempo stesso serve a far percepire, mediante l’avvicinamento al suo stato ‘originale’, la realtà di un mito che non è affidabile solo alla documentazione fotografica, ma all’esperienza di un entusiasmo e di un fervore artistico che chiedeva coinvolgimento. La resurrezione di When Attitudes Become Form mette in circolazione lo spettro di una radicalità che oggi non ha più effetto, perché l’arte non è più un’arma politica rispetto alle lotte reali. Affidandosi allo sguardo dell’oggi, tali proposte appaiono forse facili e irreali ma bisogna sottolineare che questa ipotetica sconfitta ha portato ad una nuova dimensione dell’immaginario artistico. Ad un’analisi retrospettiva, si può dire che la sua effettualità sul mondo sia stata infinitesimale, ma rimane in ogni caso un’influenza sul dissolvimento delle strutture tradizionali del sistema dell’arte. Se tutto questo oggi si è trasformato in business, per cui l’arte ha perso qualsiasi identità sociale per diventare merce simbolica ed economica, significa che il tentativo di scollamento dal compromesso consumistico è fallito. L’arte si è posta a rimorchio del mercato ed è arrivata al punto estremo di inefficacia nel suo rapporto critico e poetico con la società e la cultura. Di fatto, a contare nella costruzione di When Attitudes Become Form sono stati anche gli aggiustamenti spaziali che ogni artista ha attuato per convivere con gli altri. È un muoversi interattivo, piuttosto che la creazione di uno spazio privato ed indipendente. Non si poneva infatti alcuna ‘proprietà’ ambientale, ma la semplice territorialità dell’opera stessa. Era il lavoro a cercarsi linkage con gli altri, così da stabilire un rapporto empatico e condiviso. Simile legame ha un carattere comunitario, ampiamente documentato dalle fotografie in cui diversi artisti lavorano in contemporanea, nella stessa stanza, quasi fossero una ‘comune’, ed è tipico del momento storico, basato su una pratica di socialità che è politica quanto creativa. È qualcosa di simile ad un incontro casuale che produce al tempo stesso una confusione e una fusione. La mostra di Berna è stata quasi una formazione di proposizioni che, come in un incavo terrestre, hanno trovato il loro sviluppo scendendo dai soffitti o arrampicandosi alle pareti o trovando una dimensione gravitazionale a pavimento. Il senso vero della mostra di Szeemann è stato quello di mettere insieme un divenire indeterminato dell’arte così che si percepisse un continuo transito tra le opere, in modo che non fosse possibile isolare le caratteristiche individuali, ma l’energia d’insieme. È un momento interattivo e un mettersi ‘in rete’ che evidenzia il passaggio da uno all’altro, in piena attualità: la simultaneità e la coesistenza del presente artistico, che è anche sottolineata dal messa in mostra di gesti e di azioni corporali, dalla stesura di margarina di Joseph Beuys alla distesa di piombo fuso di Richard Serra all’accensione dei giunchi di Gilberto Zorio e alla rimozione fotografica di Ger van Elk. Per non parlare dell’arte come processo ed operazione in situ che cerca di superare il senso del prodotto confezionato e fabbricato a favore dell’operazione linguistica relativa ad una specifica collocazione e situazione, che non è all’interno dell’istituzione ma si immerge nel contrasto urbano, da Michael Heizer a Daniel Buren. Nasce una mostra che funziona come un vortice capace di travolgere lo spettatore, per metterlo in relazione diretta con il processo creativo. È un modo di sottoporre il pubblico a una forza vertiginosa che ne alteri la visione, così da perdersi in essa”. Prima di arrivare ad una soluzione che integrasse la ricostruzione di una vicenda radicale in un contesto attuale, completamente dominato da altri valori non solo linguistici, ma economici come si è proceduto per acquisire tutti i dati scientifici su cui lavorare ad una mappatura completa e precisa di quanto era avvenuto a Berna? “La ricerca si è sviluppata su diversi livelli, che includevano le fonti primarie dall’archivio di Szeemann, ora presso il Getty Institute di Los Angeles, e le testimonianze dirette degli artisti o i documenti reperibili nelle loro fondazioni, quanto le tracce fotografiche e scritte nella biblioteca della Kusthalle di Berna. Attraverso la raccolta dei diversi dati, che spesso hanno portato a conferme, quanto a sorprese, è iniziata la possibile mappatura delle opere in ogni singola stanza. A questo risultato ha contribuito enormemente la collaborazione con il Getty Institute, diretto da Thomas Gaehtgens, che attraverso l’attento studio condotto da Glenn Philips con il suo team su documenti, lettere e fotografie relative a Sezeemann e a When Attitudes Become Form ha permesso l’identificazione delle opere sia in mostra che non. Accanto a questa preziosa indagine sulle fonti curatoriali si è affiancata la ricerca nell’archivio della Kunsthalle, dove si sono trovati riscontri ed informazioni utili per ampliare la visione totale dell’evento, incluse le recensioni e le polemiche sollevate. Infine un ultimo arricchimento è venuto dagli artisti e dalle loro fondazioni che hanno fornito precisazioni sulle opere esposte e non. In generale la ricostruzione ha potuto contare su oltre un migliaio di fotografie, provenienti dagli archivi di Claudio Abate, Leonardo Bezzola, Balthasar Burkhard, Siegfried Kühn, Dölf Preisig, Harry Shunk e Albert Winkler, una raccolta quasi completa, e per la maggior parte inedita, di tutto quanto è stato registrato attraverso le immagini fotografiche. Queste sono state sottoposte ad un’accorta analisi e sono diventate fonti di scoperte e di novità, che hanno spesso arricchito la conoscenza anche degli stessi protagonisti, ampliandone i ricordi e le visioni. Sono venute alla luce opere e installazioni, mai menzionate né registrate sia nel catalogo di Berna sia nelle successive ricerche fatte da studiosi internazionali”. Una volta tracciata la mappa di tutte le opere in mostra e non, come si è proceduto per averle? Quali problemi hanno comportato i prestiti, una volta scoperto che l’opera è andata distrutta o dispersa ? Quale metodo espositivo è stato adottato per evidenziare le assenze? “Essendo una mostra che ha rappresentato un momento di rottura rispetto alla staticità e alla fissità del lavoro d’arte, immettendo un fattore performativo, per cui a volte l’opera mutava nel corso del tempo arrivando a distruggersi, è apparso immediatamente chiaro che a Venezia la possibilità di una ricostruzione totale e originale sarebbe stata impossibile. Tuttavia si è proceduto cercando di avvicinarci al massimo risultato con la consapevolezza che il revisiting avrebbe dovuto basarsi su due realtà: la prima consistente nel reperimento delle opere originali già acquisite da raccolte private e pubbliche, ad esempio i rintracciabili lavori di Carl Andre, Claes Oldenburg, Bruce Nauman, Eva Hesse, Giovanni Anselmo, Hanne Darboven, Reiner Ruthenbeck, Marinus Boezem e Richard Tuttle, che insieme ai rifacimenti – la seconda realtà – da attuarsi invece con la collaborazione degli artisti o delle loro fondazioni che nel loro insieme avrebbero permesso la ricostruzione dell’impatto visivo nelle singole stanze, con la relazione tra volumi e materie. Il primo compito è stato assolto nella maniera tradizionale con richieste a musei e collezionisti, mentre la seconda ha richiesto un ritorno alla fonte, in questo caso l’autore stesso o il suo archivio per chiedere se era possibile una riproposta, sorta di copia espositiva o replica del lavoro: quest’ultimo caso ha sollevato diverse problematiche che hanno coinvolto gli artisti quanto i musei e i collezionisti. Tuttavia alcuni artisti non riconoscono oggi il valore di certi lavori del 1969 o li ritengono ancorati nel loro passato e non più esponibili. Se addirittura non li rinnegano come errori di gioventù o idee che non condividono più. È cambiata così tanto l’arte dal 1969? E quale approccio ha seguito in questi casi ? Nel ricostruire questa mostra ha più peso il documento storico o il rispetto del volere soggettivo dell’artista oggi a quaranta anni di distanza? “La traslazione da un momento all’altro significa un trasporto nel tempo, è una resurrezione di cariche espressive ed emotive che sono passate. Siccome non avvengono attraverso la memoria ma mediante il remake si riproducono concretamente e diventano azioni presenti, quindi una carica che era trascorsa viene riproposta come attuale. Per alcuni è difficile riproporre impulsi e motivazioni già provate, per altri non c’è alcunché di nuovo né di differente, perché il fattore attivo dell’opera è tuttora in corso ed è ancora effettiva. In un caso la rievocazione riflette acquisizioni già elaborate, ma troppo sperimentali o giovanili, per altri è già una definizione di un percorso che è testimonianza di una dichiarazione linguistica anticipatrice ma già matura. Certamente la rielaborazione odierna non corrisponde più ad un’attitudine che tendeva ad oltrepassare il linguaggio tradizionale, ma rischia di essere un ritorno al passato. Tuttavia per capire il presente bisogna far riferimento alle trasformazioni già attuate, anche se appaiono o sono errori. Dopo il 1969 l’arte si è lentamente adeguata alla società dei consumi e dell’informazione di massa, per cui la primarietà delle materie e dei gesti ha lasciato campo alla processualità industriale e mercantile. Lentamente l’operazione artistica si è tramutata in un prodotto prefabbricato ed apparente: una costruzione speculare e narrativa del reale. Si è attuata una moltiplicazione dell’esistente che ha appiattito le forme e il discorso visivi radicali e trasgressivi. Si è creato uno spettacolo dell’arte per riproporne una dimensione decorativa ed esibizionista, mentre l’arte scaturita dal 1968 aspirava ad essere de-realizzante ed iconoclasta. Di fatto l’aspirazione di When Attitudes Become Form è stata quella di abolire il rituale tradizionale del mostrare un’opera a favore di un’esperienza del suo processo di costruzione e di transito dinnanzi allo sguardo dell’osservatore. Qual è il ruolo del curatore in una ripetizione, quasi identica come ambienti e opere, di una mostra in origine curata da un altro? Esiste una sorta di ‘copyright’ nel concepire la curatela di una mostra ? Se sì quanto la mostra intesa come progetto autoriale s’avvicina ad un’opera d’arte? Nel rifare la mostra come WABF è necessario assumere lo stesso ruolo del curatore, che incontrò artisti e protagonisti oppure la rivisitazione si può fare in modo automatico, puramente tecnico, ripetendo azioni e decisioni? “Se si assume When Attitudes Become Form come un oggetto d’uso storico e linguistico, confezionato nel 1969, innalzando l’insieme a unità compatta e definita, la prima operazione curatoriale è quella di restaurarne la totalità, mettendo insieme i frammenti (i singoli lavori d’arte) dislocati e dispersi. È un processo che inizialmente è indifferente alle parti che compongono il tutto. L’intento non è suscitare nuove associazioni o assegnare nuove collocazioni, ma praticare una ricostruzione senza ridisegnarla né modificarla, usando solo gli smembramenti. È un fissarsi su una struttura rigida, ordinata e armonica in cui le relazioni tra le componenti formava un sistema chiuso. Pertanto, il ritrovamento dei residui ha quale fine di ricomporre e mettere insieme il ‘testo’ narrativo steso da Szeemann in collaborazione con gli artisti stessi, immesso tra le ‘pagine’ architettoniche, bianche, della Kunsthalle di Berna. La raccolta di queste parti, spesso effimere e disperse, insieme ai residui che sono entrati nei musei e nelle collezioni, è tesa a ricreare un puzzle o una costellazione identificabile come una totalità, all’epoca pensata quale un nuovo sistema di fare, di mostrare e di pensare l’arte. Tale processo è coinciso, quindi, con un vero e proprio restauro di un prodotto dell’attività creativa. Innanzitutto si è dovuto riconoscere il valore dell’intera operazione, come è stato ammesso da tutti gli studiosi d’arte contemporanea, poi si è identificata la sua materia cioè la sua consistenza fisica, seguita dal riconoscimento estetico e storico che ha contribuito alla necessità di trasmetterla nel futuro, quale fatto fondante di una vicenda primaria. Tale molteplice consistenza è data dall’intreccio tra architettura, opere, relazioni e tutte queste componenti sono state studiate attraverso un metodo scientifico, prima in relazione al tempo ed al luogo in cui è stata realizzata, a Berna, e poi in rapporto al presente storico e alla sua nuova collocazione a Venezia. È fondamentale indagare l’unità dell’esposizione, sia da un punto di vista qualitativo che quantitativo cercando di avvicinarci al suo intero. Il passaggio successivo è stato di verificare fino a che punto fosse possibile la ricostruzione di tale unità. Ciò è avvenuto mettendo insieme tutte le informazioni possibili sui singoli tasselli del mosaico espositivo, capendo anche dove ci sarebbero le lacune e i vuoti che potevano riguardare il materiale che componeva la mostra. Che tipo di intervento sarebbe stato necessario per colmarle? Si sarebbero ripristinate con un inserimento di simulazioni contemporanee, oppure si sarebbe lasciato un vuoto, cercando di segnalare un’assenza? O ancora in maniera più radicale sarebbe stato necessario costruire immagini in vitro, molto vicine ad un ‘falso’, quasi sempre fallimentare? Quale sarebbe stata la legittimità di un tale intervento sostitutivo o informativo? Si sarebbe lavorato caso per caso o sulle singole accumulazioni, stanza per stanza? Come risolvere tutte queste problematiche che avrebbero riguardato la visione del curatore, passata e presente, con la consapevolezza che il ruolo del curatore che non è solo quello di assemblatore di nuovi insiemi, ma anche di un ricostruttore di contesti, ambientali e culturali, dove ricostruire da buon conservatore della storia le tracce passate? A tali problematiche sollevate dal remake o dal revisiting di When Attitudes Become Form si è tentato di rispondere creando a Venezia un dialogo tra il curatore-restauratorericostruttore delle cose d’arte e l’architetto Rem Koolhaas e l’artista Thomas Demand, al fine di creare una prospettiva multipla e plurilinguistica capace di affrontare le diverse risposte architettoniche e visuali. Insieme si sono cercate e trovate soluzioni sul raccordo temporale e spaziale tra l’evento del 1969 e la decisione di un suo remake e di un suo reenacting. È sorto qui il problema della cornice che ospitava nel 1969 la mostra, totalmente diversa da quella veneziana nel 2013: la necessità di definire un trapasso tra lo spazio fisico in cui era immersa nella Kunsthalle e nella Schulwarte a Berna e quello del palazzo settecentesco di Ca’ Corner della Regina a Venezia. Due spazialità diverse che avrebbero dovuto interagire con l’oggetto When Attitudes Become Form. Quale possibile raccordo o disaccordo si deve trovare tra le due temporalità e le due spazialità? Inventarne un terzo che riguarda il godimento attuale dell’intera opera, così che risulti facile da percepire ad un pubblico attuale, oppure lavorare su uno strappo ambientale e temporale? La differenza è sostanziale e riguarda il rapporto con l’osservatore, il pubblico. Siccome qualsiasi architettura ha un valore spaziale diverso, rimuovere quella di Berna per utilizzare quella di Venezia sarebbe stata un’operazione di estrinsecazione diversa dalla formulazione storica. Annullare invece la presenza storico-muraria di Venezia a favore di una sequenza di stanze white cube avrebbe significato immettere l’insieme curato da Szeemann in un limbo, senza ancoraggi o referenze visive ed esperienziali alla situazione presente. Si è optato per una spazialità che non risolvesse il discorso a favore di una o dell’altra architettura, forzando la frattura temporale e spaziale. Il risultato è stato di creare un continuum dove il problema architettonico altera ed è alterato dall’innesto tra Kunsthalle, Schulwarte e Ca’ Corner della Regina. Non si è tentato di realizzare alcun falso criterio di continuità o di integrazione stilistica, ma si è lavorato per contrasto, immettendo in modo eclatante gli spazi moderni di Berna dentro il contenitore storico di Venezia. E, a ben vedere, entrambe le situazioni di fatto fanno parte della trasmissione dell’opera When Attitudes Become Form. Una volta trovata la cornice corretta per evidenziare la complessità di una ricostruzione, s’è passati al recupero e alla ricostruzione, quando necessario, delle figure – cioè le opere – che componevano il ‘racconto’ per immagini di Szeemann. Il lavoro del curatore a Venezia è stato dunque quello di negare la propria soggettività di assemblatore di mostre per ricostruire e restaurare un testo di un altro curatore. Questa spersonalizzazione è un tentativo di far sì che relazione oggettiva e soggettiva con la cosa esposta non siano più considerati antinomici. Il compito finale è stato quello di evocare un sorprendente prodotto d’epoca, d’identificarsi con esso, senza assumerlo come romantica e nostalgica rovina dell’altrui e proprio tempo passato. Una volta ricostruito come significante privilegiato di una serie di significati instabili e aleatori, entrare in rapporto diacronico con esso per suscitare una sensibilità attuale. E siccome questo oggetto del 1969, ricostruito e restaurato, necessitava nel 2013 di un nuovo rapporto con l’attualità, lo si è inserito in una zona di sospensione, un territorio estraneo alla sua storia e alla sua cronologia – Ca’ Corner della Regina – con l’idea di rilanciare la geografia e la storia del suo immaginario. Di fatto, inserirlo come un corpo irritante in un dentro che potesse provocare una secrezione di difesa: la sua nuova perla”. Ora che When Attitudes Become Form si è aperta a Venezia, in Cà Corner della Regina, cosa è cambiato nel suo percorso di storico e di curatore? “Rivisitare dal vero un evento che avevo vissuto in diretta a Berna e ricostruirlo, mi ha confermato la potenza del momento storico sia sul piano del linguaggio artistico che del procedere del curatore. Essendo una rivisitazione condotta in occasione della Biennale di Venezia 2013, quindi da collocarsi in un contesto non neutro, ma definito da altre proposte curatoriali – quella di Massimiliano Gioni, con il suo Palazzo Enciclopedico, e quelle delle decine e decine di curatori che sono intervenuti nelle mostre collaterali – ho capito che il pericolo dell’arte contemporanea e del suo modo di comunicare sta nel ridursi a un’immagine sottile e senza peso, capace di scorrere fluidamente, senza ancoraggio sulla parete bianca, la quale può essere metafora di un museo, di una galleria e di una fiera. Si è perso il contatto e, diciamo, il dialogo con il contesto, e l’arte si è ridotta ad un prodotto senza peso e energia, fondamentalmente un decoro temporaneo di un possibile cubo bianco, simbolico di qualsiasi contesto abitativo ospitante. Sento quindi sempre più l’esigenza di ancorare l’arte a un luogo o un territorio, invitandola a mettere le radici, senza dimenticare la storia. Ad esempio la cancellazione dell’architettura cinquecentesca dell’Arsenale, condotta attraverso la costruzione di percorsi dalle bianche pareti in legno o in cartongesso, è indice di un’astrazione ambientale, legata alla messa in un limbo dell’arte. When Attitudes Become Form era invece un tutto che il mercato ha parimenti spezzato, ma si capisce la sua forza ricomponendolo. I frammenti non formano una statua o un vaso, sono rovine, e qui sta il rischio del presente contemporaneo di trasformarsi in rovina. All’epoca l’istanza di fare arte non era tesa ad una pratica edonistica né didattica né economica, per cui le cose potevano andare distrutte o disperse, essere inutili e non funzionali. A contare era la prova di un’energia mentale e fisica, comportamentale ed emotiva che portava alla costruzione di ‘figure’ immaginarie senza alcun fine se non il piacere di esprimersi. L’aspirazione all’idea e della sua soddisfazione cercava di avere effetto sul reale, non solo in cambio della sopravvivenza, ma dell’azione sul pubblico, che allora si definiva ‘politica’: rifiuto del diletto e del decoro a favore di un produrre energetico che sollecitasse domande”.
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di Germano Celant - [gallery ids="9601,9602,9603,9604,9605,9606,9607,9608"]Qual è stato l’impianto teorico e stiocro che ha sostenuto la rivisitazione e la ricostruzione ,”così com’era”, della mostra curata da Harald Szeemann nel 1969 alla Kunsthalle di Berna? “È sempre la lettura della storia dell’arte a sostenere un progetto. Se si pensa alla logica che ha sostenuto la comunicazione artistica nel corso dei secoli passati si può verificare che – in generale – fino all’Ottocento gli interventi degli artisti erano eseguiti in relazione o in situazione, vale a dire rispondevano a una commissione o a un contesto che veniva loro suggerito od offerto. Quindi le opere erano messe in relazione o erano situate in un territorio ambientale o informativo che era scelto dialetticamente tra committente e artista stesso. Per un lungo periodo l’arte, che non aspira a circolare liberamente come prodotto di scambio e di consumo, si nutre di osmosi con il contesto, dalla caverna al palazzo, dalle pareti al soffitto, e forma un unicum indivisibile. Tale dialogo si spezza quando nell’Ottocento, una volta scomparso il mecenatismo dei nobili, le opere si devono adeguare ad un mercato borghese che si nutre di artefatti disponibili alla circolazione, nel 1863 si creano i Salons. Sono queste le nuove ambientazioni degli artisti ‘non integrati’, vale a dire dei ‘refusés’ e degli ‘indipendenti’ in cui sono raccolti non più integrati, ma appesi ai muri i lavori artistici da mettere in vendita. Tale salto contestuale che sradica l’intervento dall’inserimento murario crea un altro tipo di relazione e di situazione, quella tra le opere stesse e il loro allestimento. È un passaggio che non è mai stato studiato completamente, perché mancano le tracce della logica con cui gli stessi artisti entravano in relazione tra di loro, ponendo i quadri sopra velluti o sculture su piedestalli, e le poche fotografie dell’epoca non permettono una tale ricostruzione. Tuttavia l’input dell’artista sul modo di vedere la sua opera doveva essere importante e controllato, non affidato al caso o ad altri, come mercanti. E se lo era, anche questo elemento può essere soggetto di studio. Tuttavia a partire dal Novecento, le esposizioni sono sempre più controllate dagli artisti stessi, che le adottano per lanciare i loro movimenti linguistici, da Der Blaue Reiter a Monaco nel 1911 a Les Peintres Futuristes Italiens a Parigi nel 1912. Sono momenti di installazione a cui gli artisti partecipano arrivando a creare insiemi dirompenti e sorprendenti, come The First International Dada Fair, a Berlino nel 1920 e Esposition Internationale du Surréalisme a Parigi nel 1938. Si potrebbe affermare che tali insieme diventano un dispositivo dove l’apparente confusione diventa una fusione visuale che argomenta la poetica del gruppo. Il fatto di organizzare le cose o gli oggetti, le fotografie o i materiali secondo un accadere, che sembra fuori di ogni aspettativa, suscita interrogativi e domande. È la stessa cosa successa con When Attitudes Become Form, dove le opere si devono considerare in funzione dell’insieme. Qui ogni entità singola sembra scomparire a favore di un intreccio tra le parti, qualcosa che lo spettatore deve sbrogliare da sé. La concettualità nasce prima delle opere, perché il discorso deriva dal dispositivo curatoriale. Qui sta l’importanza di Szeemann che abbandona la mostra a ‘composizioni’ curiose e caotiche, dense e aperte. Se si assume la mostra come un tutto, in maniera barocca, si capisce come la mostra sia riuscita nel 1969 ad allontanarsi dal display classico e museale, vigente allora nel mondo dell’arte moderna e contemporanea. Lavorando sulle attitudini e sui loro risultati improvvisati ed effimeri, ottiene infatti effetti poetici, inventati e scoperti in situ. In tal modo il piacere del concetto si traduce in conoscenza del piacere. Non si pone alcun criterio di convenienza solo di legame, che deriva da una reciproca familiarità tra gli artisti e il loro fare. Ricostruire questo campo di energia, con le sue varietà espressive, ha significato rivisitare un dispositivo che se anticamente era architettonico, come una cappella o una chiesa, qui era basato sulla varietà e sulla variabilità di una sintonia che non era concreta e muraria, ma basata su un’integrità esperienziale condivisa. Un intreccio di momenti lirici e drammatici che hanno prodotto un tutto dall’acutezza mirabile che commuove ancora oggi. E su tale ipotesi di insieme meravigliante che si è costruito il progetto, facendolo coincidere con un’assolutezza scientifica, capace di ricreare questo tempio effimero del fare arte nel 1969. Di fatto si è cercato di continuare lo studio degli ‘interventi’ globali degli artisti in un contesto che non è più la chiesa o il palazzo, ma la mostra che è diventata il luogo del nuovo splendore contemporaneo”. Si può dire che When Attitudes Become Form rappresenti l’ultimo anelito dello sconvolgimento e della trasgressione modernista, per cui cristallizzarlo in una situazione fuori del suo contesto storico, politico e culturale non rischia di dissolvere la radicalità dell’originale? Se al tempo le immagini di tale operazione hanno avuto un effetto sulla realtà e sull’articolarsi del linguaggio dell’arte, oggi non rischiano di trasformarsi in feticizzazione nostalgica di un’illusione, quindi di una debolezza? “È evidente che la mostra organizzata da Szeemann nel 1969 è stata un’apertura verso un’immaginazione libera quanto politicamente inutile: un buon proposito di un fare rappresentativo che si connetteva alle avanguardie del modernismo. Si può assumere quale gesto morale e critico verso le proposte tradizionali del fare arte, che respingeva la realtà solo per rappresentarla e sottoporla ad un processo mimetico. Le ricerche mostrate a Berna, come in Op Losse Schroeven, realizzata in contemporanea allo Stedelijk Museum di Amsterdam, che presero il nome di Land art, Process art, Arte povera, Conceptual art, erano un ulteriore tentativo di rivalutare la dimensione pragmatica del vedere e del sentire. Vale a dire un cambio di segno espresso nell’attenzione alle tecniche e ai materiali, per esaltare una concezione poetica rispetto a una contemplativa, in cui l’essere umano è spinto a immergersi e non semplicemente guardare. Basta osservare la documentazione che riguarda l’arrivo in scena del pubblico, per capire come tale arte tendesse a un coinvolgimento fisico e corporale. Naturalmente, tale porsi è stato visto, allora, come un eccesso di negatività e di trasgressione rispetto all’istituzione. Qualcosa di ingovernabile e senza regole, che spingeva verso una demitizzazione della sacralità della pittura e della scultura: un rifiuto delle forme classiche per un’esaltazione della dimensione informe – all’epoca definita anche anti-form – della marginalità artistica. Con il suo interesse per il carattere insignificante e concreto delle materie e delle cose l’esposizione del 1969 solennizzò il carattere fortuito e caotico dell’arte, la sua permeabilità a tutti i possibili linguaggi e a tutte le possibili materie, dal piombo all’acqua, dal fuoco alla cera, dalla margarina al tubo fluorescente, dal cuoio al feltro, dai vetri rotti al ghiaccio, dalla cenere al cotone, così come a tutti gli strumenti utili, non privilegiati, dalla pala al caterpillar, dal giornale al cartellone, dalla lettura al camminare… Da cui la de-sacralizzazione di una cultura visiva che si era identificata solo con il dipingere e lo scolpire come con la dislocazione o lo spiazzamento linguistici dell’oggetto trovato. È una celebrazione del significato dell’insignificante, della realtà che si pone in sintonia proprio con il carattere effimero e temporaneo di un esistere sociale e culturale: un doppio senza valore da contrapporre a una catastrofe dei valori passati. E la sanzione prima della presenza di fare rovinoso e frammentario, dissolto e fluido, contrario ad ogni uni-dimensionalità dell’arte”. Di fatto, il reenacting di WABF rischia di tramutare l’effetto di trasgressione in una proposta rassicurante. All’epoca, l’esibizione di scarti industriali e di materie performative e mutanti che bruciavano o si scioglievano per dare corpo ad altre entità tendevano a mettere in discussione la staticità quanto la sacralità dell’artefatto, quanto del luogo espositivo, la Kunsthalle Bern, tanto da sollevare le reazioni dei conservatori che costrinsero Szeemann a dimettersi. Oggi questo non può succedere, anzi questo strappo curatoriale ed artistico viene sacralizzato. Quello che era stato proposto come elusione della fissità e delle regolarità classica ora viene fissato e dissolto in un’accettazione senza riserve: un simulacro privo di effetti. Si può affermare che oggi la radicalità e la trasgressione legate al percorso del modernismo hanno trovato un luogo ed un posto, compresa il display catastrofico e caotico della mostra di Szeemann? Il remake veneziano è l’ultimo atto sublimante di una radicalità che è ormai obsoleta? “La messa in discussione, e la conseguente azione trasgressiva, esistono perché si pone un punto di partenza e di possibile alternativa rispetto ad una condizione preesistente. L’aspetto utopico di tale fare, che implicava un mondo linguistico altro, opposto o quanto meno diverso dal precedente, va ancorato alla situazione storica del momento, il biennio 1968-1969, quando ci si accorge che l’arte si è tramutata in una atto puramente decorativo. Seppure le ricerche sviluppatesi dal 1945 al 1964, dall Espressionismo astratto alla Pop art, avessero tentato di prendere in considerazione la dimensione solitaria e disperata dell’artista, la sua angoscia esistenziale e l’esperienza drammatica del vivere, travolto dalla tragedia della seconda guerra mondiale, come il dissolvimento del valore morale e rappresentativo dell’arte ormai scalzata e fagocitata dall’immaginario mediatico, dalla pubblicità al cartoons, tali proposizioni non erano riuscite a scalzare il valore decorativo dell’artefatto. Si ponevano come duplicati di un immaginario individuale e industriale, senza indebolire e screditare minimamente la pratica del fare, del mostrare, del comunicare e del consumare l’arte. Le attitudini prodotte e mostrate a Berna sottintendevano una scena espositiva che, occupando non solo i musei, ma le strade e gli spazi pubblici, riflettesse un’azione politica in cui tutti fossero coinvolti, artisti e spettatori, e di cui tutti dovevano prendere consapevolezza. È stata questa la vera illusione che rivela ancora il desiderio di una rivoluzione illuminista intrecciata al sogno di proseguire il discorso radicale delle avanguardie del modernismo. Certamente il remake di tale evento rischia, nella sua ripetizione, di esaltare un momento ideale ma al tempo stesso serve a far percepire, mediante l’avvicinamento al suo stato ‘originale’, la realtà di un mito che non è affidabile solo alla documentazione fotografica, ma all’esperienza di un entusiasmo e di un fervore artistico che chiedeva coinvolgimento. La resurrezione di When Attitudes Become Form mette in circolazione lo spettro di una radicalità che oggi non ha più effetto, perché l’arte non è più un’arma politica rispetto alle lotte reali. Affidandosi allo sguardo dell’oggi, tali proposte appaiono forse facili e irreali ma bisogna sottolineare che questa ipotetica sconfitta ha portato ad una nuova dimensione dell’immaginario artistico. Ad un’analisi retrospettiva, si può dire che la sua effettualità sul mondo sia stata infinitesimale, ma rimane in ogni caso un’influenza sul dissolvimento delle strutture tradizionali del sistema dell’arte. Se tutto questo oggi si è trasformato in business, per cui l’arte ha perso qualsiasi identità sociale per diventare merce simbolica ed economica, significa che il tentativo di scollamento dal compromesso consumistico è fallito. L’arte si è posta a rimorchio del mercato ed è arrivata al punto estremo di inefficacia nel suo rapporto critico e poetico con la società e la cultura. Di fatto, a contare nella costruzione di When Attitudes Become Form sono stati anche gli aggiustamenti spaziali che ogni artista ha attuato per convivere con gli altri. È un muoversi interattivo, piuttosto che la creazione di uno spazio privato ed indipendente. Non si poneva infatti alcuna ‘proprietà’ ambientale, ma la semplice territorialità dell’opera stessa. Era il lavoro a cercarsi linkage con gli altri, così da stabilire un rapporto empatico e condiviso. Simile legame ha un carattere comunitario, ampiamente documentato dalle fotografie in cui diversi artisti lavorano in contemporanea, nella stessa stanza, quasi fossero una ‘comune’, ed è tipico del momento storico, basato su una pratica di socialità che è politica quanto creativa. È qualcosa di simile ad un incontro casuale che produce al tempo stesso una confusione e una fusione. La mostra di Berna è stata quasi una formazione di proposizioni che, come in un incavo terrestre, hanno trovato il loro sviluppo scendendo dai soffitti o arrampicandosi alle pareti o trovando una dimensione gravitazionale a pavimento. Il senso vero della mostra di Szeemann è stato quello di mettere insieme un divenire indeterminato dell’arte così che si percepisse un continuo transito tra le opere, in modo che non fosse possibile isolare le caratteristiche individuali, ma l’energia d’insieme. È un momento interattivo e un mettersi ‘in rete’ che evidenzia il passaggio da uno all’altro, in piena attualità: la simultaneità e la coesistenza del presente artistico, che è anche sottolineata dal messa in mostra di gesti e di azioni corporali, dalla stesura di margarina di Joseph Beuys alla distesa di piombo fuso di Richard Serra all’accensione dei giunchi di Gilberto Zorio e alla rimozione fotografica di Ger van Elk. Per non parlare dell’arte come processo ed operazione in situ che cerca di superare il senso del prodotto confezionato e fabbricato a favore dell’operazione linguistica relativa ad una specifica collocazione e situazione, che non è all’interno dell’istituzione ma si immerge nel contrasto urbano, da Michael Heizer a Daniel Buren. Nasce una mostra che funziona come un vortice capace di travolgere lo spettatore, per metterlo in relazione diretta con il processo creativo. È un modo di sottoporre il pubblico a una forza vertiginosa che ne alteri la visione, così da perdersi in essa”. Prima di arrivare ad una soluzione che integrasse la ricostruzione di una vicenda radicale in un contesto attuale, completamente dominato da altri valori non solo linguistici, ma economici come si è proceduto per acquisire tutti i dati scientifici su cui lavorare ad una mappatura completa e precisa di quanto era avvenuto a Berna? “La ricerca si è sviluppata su diversi livelli, che includevano le fonti primarie dall’archivio di Szeemann, ora presso il Getty Institute di Los Angeles, e le testimonianze dirette degli artisti o i documenti reperibili nelle loro fondazioni, quanto le tracce fotografiche e scritte nella biblioteca della Kusthalle di Berna. Attraverso la raccolta dei diversi dati, che spesso hanno portato a conferme, quanto a sorprese, è iniziata la possibile mappatura delle opere in ogni singola stanza. A questo risultato ha contribuito enormemente la collaborazione con il Getty Institute, diretto da Thomas Gaehtgens, che attraverso l’attento studio condotto da Glenn Philips con il suo team su documenti, lettere e fotografie relative a Sezeemann e a When Attitudes Become Form ha permesso l’identificazione delle opere sia in mostra che non. Accanto a questa preziosa indagine sulle fonti curatoriali si è affiancata la ricerca nell’archivio della Kunsthalle, dove si sono trovati riscontri ed informazioni utili per ampliare la visione totale dell’evento, incluse le recensioni e le polemiche sollevate. Infine un ultimo arricchimento è venuto dagli artisti e dalle loro fondazioni che hanno fornito precisazioni sulle opere esposte e non. In generale la ricostruzione ha potuto contare su oltre un migliaio di fotografie, provenienti dagli archivi di Claudio Abate, Leonardo Bezzola, Balthasar Burkhard, Siegfried Kühn, Dölf Preisig, Harry Shunk e Albert Winkler, una raccolta quasi completa, e per la maggior parte inedita, di tutto quanto è stato registrato attraverso le immagini fotografiche. Queste sono state sottoposte ad un’accorta analisi e sono diventate fonti di scoperte e di novità, che hanno spesso arricchito la conoscenza anche degli stessi protagonisti, ampliandone i ricordi e le visioni. Sono venute alla luce opere e installazioni, mai menzionate né registrate sia nel catalogo di Berna sia nelle successive ricerche fatte da studiosi internazionali”. Una volta tracciata la mappa di tutte le opere in mostra e non, come si è proceduto per averle? Quali problemi hanno comportato i prestiti, una volta scoperto che l’opera è andata distrutta o dispersa ? Quale metodo espositivo è stato adottato per evidenziare le assenze? “Essendo una mostra che ha rappresentato un momento di rottura rispetto alla staticità e alla fissità del lavoro d’arte, immettendo un fattore performativo, per cui a volte l’opera mutava nel corso del tempo arrivando a distruggersi, è apparso immediatamente chiaro che a Venezia la possibilità di una ricostruzione totale e originale sarebbe stata impossibile. Tuttavia si è proceduto cercando di avvicinarci al massimo risultato con la consapevolezza che il revisiting avrebbe dovuto basarsi su due realtà: la prima consistente nel reperimento delle opere originali già acquisite da raccolte private e pubbliche, ad esempio i rintracciabili lavori di Carl Andre, Claes Oldenburg, Bruce Nauman, Eva Hesse, Giovanni Anselmo, Hanne Darboven, Reiner Ruthenbeck, Marinus Boezem e Richard Tuttle, che insieme ai rifacimenti – la seconda realtà – da attuarsi invece con la collaborazione degli artisti o delle loro fondazioni che nel loro insieme avrebbero permesso la ricostruzione dell’impatto visivo nelle singole stanze, con la relazione tra volumi e materie. Il primo compito è stato assolto nella maniera tradizionale con richieste a musei e collezionisti, mentre la seconda ha richiesto un ritorno alla fonte, in questo caso l’autore stesso o il suo archivio per chiedere se era possibile una riproposta, sorta di copia espositiva o replica del lavoro: quest’ultimo caso ha sollevato diverse problematiche che hanno coinvolto gli artisti quanto i musei e i collezionisti. Tuttavia alcuni artisti non riconoscono oggi il valore di certi lavori del 1969 o li ritengono ancorati nel loro passato e non più esponibili. Se addirittura non li rinnegano come errori di gioventù o idee che non condividono più. È cambiata così tanto l’arte dal 1969? E quale approccio ha seguito in questi casi ? Nel ricostruire questa mostra ha più peso il documento storico o il rispetto del volere soggettivo dell’artista oggi a quaranta anni di distanza? “La traslazione da un momento all’altro significa un trasporto nel tempo, è una resurrezione di cariche espressive ed emotive che sono passate. Siccome non avvengono attraverso la memoria ma mediante il remake si riproducono concretamente e diventano azioni presenti, quindi una carica che era trascorsa viene riproposta come attuale. Per alcuni è difficile riproporre impulsi e motivazioni già provate, per altri non c’è alcunché di nuovo né di differente, perché il fattore attivo dell’opera è tuttora in corso ed è ancora effettiva. In un caso la rievocazione riflette acquisizioni già elaborate, ma troppo sperimentali o giovanili, per altri è già una definizione di un percorso che è testimonianza di una dichiarazione linguistica anticipatrice ma già matura. Certamente la rielaborazione odierna non corrisponde più ad un’attitudine che tendeva ad oltrepassare il linguaggio tradizionale, ma rischia di essere un ritorno al passato. Tuttavia per capire il presente bisogna far riferimento alle trasformazioni già attuate, anche se appaiono o sono errori. Dopo il 1969 l’arte si è lentamente adeguata alla società dei consumi e dell’informazione di massa, per cui la primarietà delle materie e dei gesti ha lasciato campo alla processualità industriale e mercantile. Lentamente l’operazione artistica si è tramutata in un prodotto prefabbricato ed apparente: una costruzione speculare e narrativa del reale. Si è attuata una moltiplicazione dell’esistente che ha appiattito le forme e il discorso visivi radicali e trasgressivi. Si è creato uno spettacolo dell’arte per riproporne una dimensione decorativa ed esibizionista, mentre l’arte scaturita dal 1968 aspirava ad essere de-realizzante ed iconoclasta. Di fatto l’aspirazione di When Attitudes Become Form è stata quella di abolire il rituale tradizionale del mostrare un’opera a favore di un’esperienza del suo processo di costruzione e di transito dinnanzi allo sguardo dell’osservatore. Qual è il ruolo del curatore in una ripetizione, quasi identica come ambienti e opere, di una mostra in origine curata da un altro? Esiste una sorta di ‘copyright’ nel concepire la curatela di una mostra ? Se sì quanto la mostra intesa come progetto autoriale s’avvicina ad un’opera d’arte? Nel rifare la mostra come WABF è necessario assumere lo stesso ruolo del curatore, che incontrò artisti e protagonisti oppure la rivisitazione si può fare in modo automatico, puramente tecnico, ripetendo azioni e decisioni? “Se si assume When Attitudes Become Form come un oggetto d’uso storico e linguistico, confezionato nel 1969, innalzando l’insieme a unità compatta e definita, la prima operazione curatoriale è quella di restaurarne la totalità, mettendo insieme i frammenti (i singoli lavori d’arte) dislocati e dispersi. È un processo che inizialmente è indifferente alle parti che compongono il tutto. L’intento non è suscitare nuove associazioni o assegnare nuove collocazioni, ma praticare una ricostruzione senza ridisegnarla né modificarla, usando solo gli smembramenti. È un fissarsi su una struttura rigida, ordinata e armonica in cui le relazioni tra le componenti formava un sistema chiuso. Pertanto, il ritrovamento dei residui ha quale fine di ricomporre e mettere insieme il ‘testo’ narrativo steso da Szeemann in collaborazione con gli artisti stessi, immesso tra le ‘pagine’ architettoniche, bianche, della Kunsthalle di Berna. La raccolta di queste parti, spesso effimere e disperse, insieme ai residui che sono entrati nei musei e nelle collezioni, è tesa a ricreare un puzzle o una costellazione identificabile come una totalità, all’epoca pensata quale un nuovo sistema di fare, di mostrare e di pensare l’arte. Tale processo è coinciso, quindi, con un vero e proprio restauro di un prodotto dell’attività creativa. Innanzitutto si è dovuto riconoscere il valore dell’intera operazione, come è stato ammesso da tutti gli studiosi d’arte contemporanea, poi si è identificata la sua materia cioè la sua consistenza fisica, seguita dal riconoscimento estetico e storico che ha contribuito alla necessità di trasmetterla nel futuro, quale fatto fondante di una vicenda primaria. Tale molteplice consistenza è data dall’intreccio tra architettura, opere, relazioni e tutte queste componenti sono state studiate attraverso un metodo scientifico, prima in relazione al tempo ed al luogo in cui è stata realizzata, a Berna, e poi in rapporto al presente storico e alla sua nuova collocazione a Venezia. È fondamentale indagare l’unità dell’esposizione, sia da un punto di vista qualitativo che quantitativo cercando di avvicinarci al suo intero. Il passaggio successivo è stato di verificare fino a che punto fosse possibile la ricostruzione di tale unità. Ciò è avvenuto mettendo insieme tutte le informazioni possibili sui singoli tasselli del mosaico espositivo, capendo anche dove ci sarebbero le lacune e i vuoti che potevano riguardare il materiale che componeva la mostra. Che tipo di intervento sarebbe stato necessario per colmarle? Si sarebbero ripristinate con un inserimento di simulazioni contemporanee, oppure si sarebbe lasciato un vuoto, cercando di segnalare un’assenza? O ancora in maniera più radicale sarebbe stato necessario costruire immagini in vitro, molto vicine ad un ‘falso’, quasi sempre fallimentare? Quale sarebbe stata la legittimità di un tale intervento sostitutivo o informativo? Si sarebbe lavorato caso per caso o sulle singole accumulazioni, stanza per stanza? Come risolvere tutte queste problematiche che avrebbero riguardato la visione del curatore, passata e presente, con la consapevolezza che il ruolo del curatore che non è solo quello di assemblatore di nuovi insiemi, ma anche di un ricostruttore di contesti, ambientali e culturali, dove ricostruire da buon conservatore della storia le tracce passate? A tali problematiche sollevate dal remake o dal revisiting di When Attitudes Become Form si è tentato di rispondere creando a Venezia un dialogo tra il curatore-restauratorericostruttore delle cose d’arte e l’architetto Rem Koolhaas e l’artista Thomas Demand, al fine di creare una prospettiva multipla e plurilinguistica capace di affrontare le diverse risposte architettoniche e visuali. Insieme si sono cercate e trovate soluzioni sul raccordo temporale e spaziale tra l’evento del 1969 e la decisione di un suo remake e di un suo reenacting. È sorto qui il problema della cornice che ospitava nel 1969 la mostra, totalmente diversa da quella veneziana nel 2013: la necessità di definire un trapasso tra lo spazio fisico in cui era immersa nella Kunsthalle e nella Schulwarte a Berna e quello del palazzo settecentesco di Ca’ Corner della Regina a Venezia. Due spazialità diverse che avrebbero dovuto interagire con l’oggetto When Attitudes Become Form. Quale possibile raccordo o disaccordo si deve trovare tra le due temporalità e le due spazialità? Inventarne un terzo che riguarda il godimento attuale dell’intera opera, così che risulti facile da percepire ad un pubblico attuale, oppure lavorare su uno strappo ambientale e temporale? La differenza è sostanziale e riguarda il rapporto con l’osservatore, il pubblico. Siccome qualsiasi architettura ha un valore spaziale diverso, rimuovere quella di Berna per utilizzare quella di Venezia sarebbe stata un’operazione di estrinsecazione diversa dalla formulazione storica. Annullare invece la presenza storico-muraria di Venezia a favore di una sequenza di stanze white cube avrebbe significato immettere l’insieme curato da Szeemann in un limbo, senza ancoraggi o referenze visive ed esperienziali alla situazione presente. Si è optato per una spazialità che non risolvesse il discorso a favore di una o dell’altra architettura, forzando la frattura temporale e spaziale. Il risultato è stato di creare un continuum dove il problema architettonico altera ed è alterato dall’innesto tra Kunsthalle, Schulwarte e Ca’ Corner della Regina. Non si è tentato di realizzare alcun falso criterio di continuità o di integrazione stilistica, ma si è lavorato per contrasto, immettendo in modo eclatante gli spazi moderni di Berna dentro il contenitore storico di Venezia. E, a ben vedere, entrambe le situazioni di fatto fanno parte della trasmissione dell’opera When Attitudes Become Form. Una volta trovata la cornice corretta per evidenziare la complessità di una ricostruzione, s’è passati al recupero e alla ricostruzione, quando necessario, delle figure – cioè le opere – che componevano il ‘racconto’ per immagini di Szeemann. Il lavoro del curatore a Venezia è stato dunque quello di negare la propria soggettività di assemblatore di mostre per ricostruire e restaurare un testo di un altro curatore. Questa spersonalizzazione è un tentativo di far sì che relazione oggettiva e soggettiva con la cosa esposta non siano più considerati antinomici. Il compito finale è stato quello di evocare un sorprendente prodotto d’epoca, d’identificarsi con esso, senza assumerlo come romantica e nostalgica rovina dell’altrui e proprio tempo passato. Una volta ricostruito come significante privilegiato di una serie di significati instabili e aleatori, entrare in rapporto diacronico con esso per suscitare una sensibilità attuale. E siccome questo oggetto del 1969, ricostruito e restaurato, necessitava nel 2013 di un nuovo rapporto con l’attualità, lo si è inserito in una zona di sospensione, un territorio estraneo alla sua storia e alla sua cronologia – Ca’ Corner della Regina – con l’idea di rilanciare la geografia e la storia del suo immaginario. Di fatto, inserirlo come un corpo irritante in un dentro che potesse provocare una secrezione di difesa: la sua nuova perla”. Ora che When Attitudes Become Form si è aperta a Venezia, in Cà Corner della Regina, cosa è cambiato nel suo percorso di storico e di curatore? “Rivisitare dal vero un evento che avevo vissuto in diretta a Berna e ricostruirlo, mi ha confermato la potenza del momento storico sia sul piano del linguaggio artistico che del procedere del curatore. Essendo una rivisitazione condotta in occasione della Biennale di Venezia 2013, quindi da collocarsi in un contesto non neutro, ma definito da altre proposte curatoriali – quella di Massimiliano Gioni, con il suo Palazzo Enciclopedico, e quelle delle decine e decine di curatori che sono intervenuti nelle mostre collaterali – ho capito che il pericolo dell’arte contemporanea e del suo modo di comunicare sta nel ridursi a un’immagine sottile e senza peso, capace di scorrere fluidamente, senza ancoraggio sulla parete bianca, la quale può essere metafora di un museo, di una galleria e di una fiera. Si è perso il contatto e, diciamo, il dialogo con il contesto, e l’arte si è ridotta ad un prodotto senza peso e energia, fondamentalmente un decoro temporaneo di un possibile cubo bianco, simbolico di qualsiasi contesto abitativo ospitante. Sento quindi sempre più l’esigenza di ancorare l’arte a un luogo o un territorio, invitandola a mettere le radici, senza dimenticare la storia. Ad esempio la cancellazione dell’architettura cinquecentesca dell’Arsenale, condotta attraverso la costruzione di percorsi dalle bianche pareti in legno o in cartongesso, è indice di un’astrazione ambientale, legata alla messa in un limbo dell’arte. When Attitudes Become Form era invece un tutto che il mercato ha parimenti spezzato, ma si capisce la sua forza ricomponendolo. I frammenti non formano una statua o un vaso, sono rovine, e qui sta il rischio del presente contemporaneo di trasformarsi in rovina. All’epoca l’istanza di fare arte non era tesa ad una pratica edonistica né didattica né economica, per cui le cose potevano andare distrutte o disperse, essere inutili e non funzionali. A contare era la prova di un’energia mentale e fisica, comportamentale ed emotiva che portava alla costruzione di ‘figure’ immaginarie senza alcun fine se non il piacere di esprimersi. L’aspirazione all’idea e della sua soddisfazione cercava di avere effetto sul reale, non solo in cambio della sopravvivenza, ma dell’azione sul pubblico, che allora si definiva ‘politica’: rifiuto del diletto e del decoro a favore di un produrre energetico che sollecitasse domande”.