L'architetto Joseph di Pasquale racconta il suo concetto di spazio, inteso come nuovo ambito di prossimità. Uno spazio domestico che esce dall'abitazione, una nuova scenografia che si impone in rinnovati contesti urbani

Joseph di Pasquale ci apre le porte dello studio milanese in un pomeriggio di gennaio, per una conversazione tra architettura e cinema, urbanistica e pianificazione, funzione del design, creazione e sviluppo di nuovi spazi di prossimità. E' ormai un anno che abbiamo la certezza che il mondo non sarà più lo stesso. Quello che la pandemia ha messo in luce è che gli spazi pubblici e privati saranno messi sempre pù in discussione. E questa opportunità è stata accolta dal mondo della progettazione come occasione per creare nuove connessioni e nuovi spazi sociali.

Joseph di Pasquale ha conseguito il dottorato di ricerca a distanza di tempo dalla Laurea in Architettura: qual è stata la spinta per riprendere a fare ricerca in ambito accademico, oltre che professionale? La passione per il cinema ti ha portato a essere protagonista davanti e dietro la camera cinematografica: è un cinema funzionale al progetto di architettura?

Partiamo dal dottorato. Cinque anni fa, dopo un intenso periodo di attività professionale tra Italia e Cina, mi sono reso conto che avevo bisogno di fermarmi. Questa modalità “intercontinentale” mi aveva provocato un profondo senso di spaesamento da globalizzazione. Ho chiuso tutti gli studi in Cina, mantenendo solo rappresentanze, e dopo aver terminato alcuni cantieri ho scelto di fare un reset iscrivendomi alla Scuola di Dottorato del Politecnico di Milano. E mi sono posto questa domanda: “Per chi lavora l'architetto oggi?” Avevo la necessità di ripensare lo spazio. Nel caso del mercato cinese il rendering è una formidabile arma di progettazione perchè permette al privato di ottenere le concessioni per l'utilizzo del suolo a fini speculativi e commerciali. In Cina, a Guanghzou, ho realizzato il Cerchio di Giada, landmark building pensato come edificio nativo cinese con la pretesa di non cadere nello stereotipo del grattacielo occidentale. La sua forma architettonica completamente chiusa e definita, iconica, si avvicina al modo orientale di percepire la realtà. Un logo urbano che funziona come riferimento nel panorama della città esattamente come vengono usati gli ideogrammi. Per rispondere all'altra domanda, architettura e cinema hanno molti punti in comune perchè architetto e regista sono creatori e sviluppatori di sceneggiature. Io penso la mia professione come sceneggiatura di spazi. Il tessuto della città non ha bisogno di un abito ma di una sceneggiatura: occorre capire quali storie si svolgono in “questo o in quello spazio”. Da regista sul set e da progettista, credo esista un linguaggio comune. Le persone entrano ed escono di scena, si muovono in una determinata maniera, creano spazi. Con il progetto Chorus Life, a Bergamo, mi sono occupato dell'interfaccia digitale dello spazio. Partecipando a un piccolo open talk tra professionisti ci siamo chiesti cosa sia lo spazio pubblico e come non si possa più pensarlo senza connessione allo spazio “immateriale”.

La commistione non è più tra spazio pubblico e privato, ma tra spazio pubblico e digitale.

C'è una definizione di spazio pubblico di Hannah Arendt: “Lo spazio pubblico è il luogo dell'azione politica”, che mi ha fatto riflettere sul significato dell'azione politica contemporanea che va re-interpretata come azione del privato cittadino che agisce nello spazio digitale creando conseguenze per sé e per la collettività. Lo spazio pubblico oggi non ha più questa peculiarità di responsabilità per il singolo, ma può recuperare, grazie alla rete, nuove qualità urbane. Il vero spazio dove le mie azioni hanno un'efficacia per me e per gli altri è lo spazio digitale. La rete quindi inizia ad acquisire valore sopratutto per il tipo di azione che il singolo compie.


Qual è il ruolo dell'architettura nella gesitone degli spazi aperti?

Vivere all'aperto ha fatto scoprire a molte persone l'ambito di prossimità, quello spazio che esce dall'abitazione e diventa “abitazione esso stesso”. Con Chorus Life stiamo affrontando questo tema, che riguarda l'estensione del perimetro domestico. La famiglia allargata della pre-rivoluzione industriale sta diventando nuovamente attuale. La co-abitazione (co-working e co-living) si sta allargando non solo alla famiglia ma alle vicinanze sociali di prossimità. Colleghi che condividono appartamenti, famiglie con diverse configurazioni. L'ambito domestico si estende fuori dall'abitazione e il luogo di lavoro “esce” dalla dotazione minima di spazi e servizi della casa, ampliandosi verso l'esterno, consentendo di ridurre gli spostamenti, uscendo dal modello “malato” di città funzionalista suddivisa per funzione, età e reddito. Non possiamo più pensare a una città nella quale le persone passano la maggior parte del tempo per spostarsi da un punto A a un punto B. Questo modello era già in crisi e la pandemia l'ha semplicemente accelerato, decretandone la fine. Chorus Life è un format di rigenerazione urbana proposto nel masterplan per la riconversione del comparto ex Ote a Bergamo. Un intervento a bassa densità edilizia ma con un’alta densità relazionale, il cui valore è nella capacità di generare scambio sociale e intergenerazionale. Arena multifunzionale, negozi, servizi, SPA centro medico sportivo, palestra panoramica sono le funzioni principali del complesso a cui si aggiungono 100 alloggi che promuovono una nuova idea di casa, una proposta di servizi abitativi in abbonamento che comprendono anche energia, manutenzione, contenuti di intrattenimento e alimentari, e l’accesso a tutti i servizi presenti nel complesso.

Di fatto il tuo approccio progettuale nega il formalismo della progettazione razionale e zonizzata della città. Tutto questo apparato teorico, dove si concretizza nello specifico?

Chorus Life è un vero e proprio un Campus Abitativo di Prossimità. Dal punto di vista teorico è la definizione che meglio lo descrive. Un perimetro definito in modo preciso, all'interno del quale ci sono abitazioni progettate con una serie di funzioni integrate. Lo spazio abitativo non è né in vendita né in affitto, ma in modalità abbonamento per estendere i servizi di cui si può usufruire (palestra, SPA, mobilità). La sperimentazione sui nuovi comportamenti ci ha spinti oltre: con una app generiamo un processo di promozione virtuosa. Grazie a un accordo fatto con l'Istituto Mario Negri, abbiamo lavorato in questa direzione, cercando di integrare salute, dieta e consumo di energia pro-capite. All'interno del complesso c'è un edificio legato al well being che si occupa di vita attiva, nutrizione, socialità. Tutto è organizzato come un gioco con l'obiettivo di organizzare e migliorare i comportamenti delle persone che aderiranno al protocollo, per verificare la promessa di migliorare la qualità della vita a Chorus Life. E questo riguarderà anche il comportamento virtuoso nel consumo energetico da parte degli abitanti.


La progettazione si sta dividendo in due ambiti. Da un lato, il desiderio ambizioso di zonizzare lo spazio domestico stabilendo spazi e funzioni precise, dall'altro quello di lasciare libero lo spazio permettendo all'inquilino di scegliere i suoi spazi. In questa dialettica, dove si pone la sua filosofia progettuale?

Credo che gli spazi di lavoro, vita e vacanza siano sempre più mescolati. Una mixitè accelerata dalla pandemia: sicuramente vivere in un ambito di prossimità potrà permettere di scegliere di non spostarsi per andare in ufficio, con una evoluzione degli appartamenti sempre più tecnologica. Il nuovo carattere tipologico consisterà nell'avere microcosmi sempre più attrezzati e funzionali da allargare anche a persone che appartengono a nuclei diversi e spazi pubblici sempre più connessi con la rete. Microcosmi attrezzati tecnologicamente contribuiranno a creare l'evoluzione dell'appartamento e del condominio del XXI secolo. Il co-living cavalca il futuro che stiamo vivendo.