A Terni, in Umbria, il sottotetto di un palazzo del Cinquecento ritrova le sue origini di open space ante litteram e una radicale contemporaneità nei materiali e negli arredi senza concessioni a banali pastiche

Palazzo Manassei, un palazzo di proprietà privata nel centro di Terni, in Umbria, ha ritrovato, con l’intervento nel suo sottotetto di 450 metri quadrati eseguito dall’architetto romano Carlo Berarducci, la sua anima rinascimentale. Un’anima che torna a risplendere nel restituire allo spazio le sue origini storiche, non nello stile ma nella struttura, quella dell’antica piccionaia del palazzo. Rinascimentale anche l’attitudine del committente, che ha esaudito il sogno di ogni architetto, lasciando carta bianca su tutto il progetto, arredi inclusi.

La piccionaia, open space ante litteram, è stata quindi recuperata nelle sue mura strutturali originarie, dando luogo a un appartamento fondato sul gioco di prospettive, quinte (come quelle del banco cucina, scorrevoli, a griglia in lamiera di ferro ottonato di De Castelli) e piani cinematografici di assoluta contemporaneità, senza compromessi né concessioni a mix tra moderno e antico, in un delicato quanto riuscito equilibrio fra radicalità di concetto e morbidezza di intervento, attraverso i materiali e un apparato tecnologico avanzato, pervasivo ma non invasivo, nascosto alla vista.


Carlo Berarducci
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Carlo Berarducci Architecture è uno studio di architettura internazionale con sede a Roma che opera in tutto il mondo. Per Carlo Berarducci l'architettura è una disciplina intuitiva che contiene una componente artistica in cui converge un bagaglio essenzialmente visivo. Per lo studio, non esiste differenza nell'approccio tra la grande scala dell'architettura, il design urbano, l'oggetto di design, perché l'architettura è fondamentalmente organizzazione dello spazio e degli elementi che lo definiscono. Progettare spazi interni non è diverso rispetto a progettare edifici in un'area urbana o un edificio in un contesto paesaggistico. Anche la piccola scala dell'oggetto industriale non può essere distinta dall'architettura, il progetto di una chaise longue o di un tavolo parte dagli stessi processi, con la stessa visione trasferita su piccola scala.

Riscaldamento e raffrescamento radiante a pavimento insieme a un impianto di deumidificazione dell’aria assicurano un comfort ambientale ottimale; un sistema di aspirazione della polvere nascosto nella muratura permette la pulizia quotidiana, mentre proiettori e schermi scendono attraverso asole invisibili nel soffitto, con un controllo integrato della luce e degli impianti che permette di comandare le funzioni della casa anche a distanza attraverso lo smartphone.

Difficile pensare che un appartamento così estremo nella sua modernità sia l’espressione del recupero delle sue origini cinquecentesche, eppure così è stato. Con quale ottica si è tornati alle origini?

L’intervento è consistito nell’eliminare per ritrovare la struttura originaria: il sottotetto aveva subito una decina di anni prima un restauro che evocava decori antichi, con tramezzature, false, perché in origine le piccionaie dei sottotetti erano lasciate aperte, completamente vuote, come open space, con le finestre ovali aperte da cui entravano i piccioni.

Un committente che decide di rivoluzionare il proprio gusto a 360 gradi. Come è successo?

Quando il committente ha visto casa mia a Roma mi ha chiesto di cambiargli completamente la sua, dandomi carta bianca. Le poche cose di cui aveva bisogno erano un piccolo appartamento indipendente per i figli, completo di cucina.

Un open space su diversi livelli però, che quindi si presta a una scansione dei vani.

I due livelli erano anch’essi strutturali: dall’ingresso si accede a una prima zona dove si trovano la camera da letto, l’area camino e l’appartamento del figlio; poi c’è un mezzo livello sfalsato che è quello del sottotetto vero e proprio, con il salotto, la cucina e la terrazza. Quello che abbiamo fatto - e che è stato determinante - è aver aperto completamente l’intero livello del sottotetto superiore, sgombrandolo da tutti i tramezzi e le superfetazioni, per portarlo a un unico open space. Sopraelevando questo spazio di mezzo metro, abbiamo portato gli oblò all’altezza degli occhi, perché le finestre ovali erano troppo alte e non consentivano di vedere fuori. Tutto ciò ha liberato la fonte di luce e di vista esterna principale, quella della terrazza, dapprima pertinente a una camera chiusa.

La casa, benché svuotata strutturalmente, non lo è negli arredi. Se cioè la struttura, ritrovando le sue origini, resta minimale con l’obiettivo di aprire lo spazio, d’altro canto l’intervento sui materiali naturali e sui mobili è orientato a riempire questo spazio."

Che impatto ha avuto sullo stile di vita del proprietario questa rivoluzione verso il contemporaneo?

La cosa più bella che mi è stata detta è che prima della ristrutturazione il proprietario non stava mai nell’appartamento, e neppure i figli. Ora invece si trova i figli che vanno e vengono continuamente, portano gli amici, e lui e la sua compagna non uscirebbero mai, perché non ne sentono il bisogno.

Questa radicalità senza concessioni all’epoca del palazzo, negli arredi e nei materiali, fa parte della sua cifra stilistica o è funzionale in particolare a questo intervento?

È un mio approccio, perché credo che sia più rispettoso della storia e del luogo, anziché costruire il falso. La risposta radicale nasce per eliminare con un intervento contemporaneo tutto ciò che non apparteneva alla struttura originaria. Ma, pur nel contemporaneo, abbiamo utilizzato materiali naturali, quindi materiali che avrebbero potuto essere usati anche nel ’500: intonaco di cemento con un effetto anche terroso, poroso, naturale, come poteva essere anche quello originario; pietra grigia naturale spazzolata con un effetto un po’ antichizzato, che la fa sembrare consumata. La pietra impiegata non è del luogo, quella locale è infatti il travertino, mentre il proprietario voleva una casa dai toni scuri). Non è uno spazio caratterizzato da materiali artificiali freddi, ma caldi: il ferro stesso è lasciato al naturale ed è cerato, il legno è molto nodoso, un rovere termotrattato, spazzolato, quindi con la vena a vista, e cerato.

La casa è ricca di mobili di design, internazionale e italiano, dagli anni ’50 a oggi, ma spicca in veste di primadonna il suo Tavolo Italia, con la forma della Penisola. Un’affermazione forte, un vis-à-vis audace con l’internazionalismo modernista del resto della casa. Come è giunto a collocare un oggetto così controcorrente e connotato rispetto al resto?

Non è stato collocato, è stato concepito per la casa. L’idea nasce infatti dal dover pensare a un tavolo per una sala da pranzo a forma di trapezio, perché qualunque tavolo simmetrico rettangolare non avrebbe funzionato, c’era bisogno di una forma liquida. Successivamente si è colto il riferimento alle mappe geografiche e ai mappamondi rinascimentali, e a Italia Rovesciata di Luciano Fabro del 1969.

Quale regione si trova a capotavola?

Nessuna. O meglio, il capotavola è plurimo. Un’Italia rossa.

Come va interpretata?

Il rosso è una mia passione che viene fuori spesso, soprattutto quando progetto pezzi di design. Il ‘rosso corsa’ è il colore della velocità, delle corse d’auto, è il rosso Ferrari. Sovrasta il tavolo, sospeso a mezz’aria, il suo chandelier. Un termine che evoca antiche dimore. Anche il Manassei three arms chandelier nasce per la casa, dall’esigenza di riempire lo spazio a doppia altezza con una forma libera e fluttuante, come un mobile di Calder.

La piccionaia, open space ante litteram, è stata quindi recuperata nelle sue mura strutturali originarie, dando luogo a un appartamento fondato sul gioco di prospettive, quinte e piani cinematografici di assoluta contemporaneità,"

Se l’intervento architettonico ha restituito la struttura pura dell’open space, gli arredi non ne fanno un’abitazione minimalista, tutt’altro. Qual è la ragione di questo ‘en plein’?

È vero, la casa, benché svuotata strutturalmente, non lo è negli arredi. Se cioè la struttura, ritrovando le sue origini, resta minimale con l’obiettivo di aprire lo spazio, d’altro canto l’intervento sui materiali naturali e sui mobili è orientato a riempire questo spazio. Non c’è quindi un’esaltazione minimalista dell’ambiente vuoto, ma la ricerca di calore e comfort. Anche per gli arredi la scelta è radicale: design italiano e internazionale, senza alcun mix tra antico e moderno, che pure è il vanto di tanti arredatori. Mi è stata data anche qui carta bianca, e quindi ho creato una mia collezione ideale dei pezzi della storia del design. Vorrei possederli tutti: hanno fatto storia, fino ad oggi.

In questa collezione ideale, quali sono i suoi pezzi preferiti?

Quelli degli anni ’50, come le poltrone di Charles e Ray Eames (la ES106 Billy Wilder del 1968 prodotta da Herman Miller, ndr) o quelle di Warren Platner (la Easy Chair del 1962 di Knoll, ndr). Poi naturalmente ho pensato di sistemare i pezzi vicini secondo analogie anche formali, e comunque secondo ‘simpatie’.

Il suo prossimo progetto sarà per lo stesso committente, una villa in mezzo alla natura vicino Sangemini, sempre in provincia di Terni. Anche qui l’approccio sarà quello di Palazzo Manassei?

Si parte anche qui dall’esistente, in questo caso dall’orografia del paesaggio. Andare a cercare affacci, luce e spazio, sì, in definitiva l’approccio è lo stesso.

Progetto di Carlo Berarducci Architecture - Foto di Fernando Guerra / courtesy Carlo Berarducci Architecture