All'età di 83 anni si è spenta Nanda Vigo, personalità di spicco del mondo progettuale e artistico dagli anni Sessanta a oggi

La pagina del sito web di Nanda Vigo (1936) si apre offrendo una costellazione geometrica di un cielo inondato da una luce pulsante e colorata, un cielo profondo proiettato verso l’infinito e tenuto insieme, o meglio strutturato, da linee connettive che disegnano una trama progettuale complessa. Proseguendo, l’icona scelta per la continuità grafica delle pagine è il profilo della mitica astronave Enterprise, protagonista della saga di film e telefilm Star Treck, la cui sigla recitava prima di ogni avventura il famoso slogan-programma: “verso l’infinito…e oltre”.

Questo era lo spirito di Nanda Vigo scomparsa a Milano, sua città natale. Artista, designer e architetto, Nanda Vigo ha tracciato un percorso di architettura e design teso verso l’espressione artistica dove il tema della luce appare protagonista nell’ambito di una sperimentazione che non ha mai rinunciato a radicali prese di posizione, riuscendo a dare ad ogni progetto una convinta dimensione poetica.

Nanda amava la fantascienza, con lei ho visto film che raccontavano di mondi possibili, distopie, e mi piaceva ascoltare i suoi commenti sulle realtà parallele e osservare la sua passione della luce come materia espressiva di cui era maestra nell’impiego.

Dieci anni fa, per un ‘ritratto’ a lei dedicato sulle pagine di questa rivista (Interni gennaio-febbraio 2010), Nanda mi raccontò dell’inizio di questa attrazione quando all’età di quattro anni, allora sfollata con la famiglia a Como, rimase folgorata dalla luce che fuoriusciva dalle porzioni in vetrocemento della Casa del Fascio di Terragni (1932-36). Questa sorta di flash infantile, ha come inserito nel DNA creativo di Nanda Vigo l’immagine di una luce iridescente, filtrata e progettata, che come una madeleine proustiana è via via riemersa nella sua vita progettuale come attivatore di azioni concrete.

Si tratta di una serie di processi di combinazione creativa tesi avalorizzare l’illusione dello spazio e la sua deformazione dove la luce – come quella generata nei suoi impulsi diurni e notturni dall’architettura di Terragni – diventa sostanza immateriale protagonista dello spazio e dei rapporti tra esso e gli oggetti contenuti. Superando il concetto caro alle avanguardie artistiche di integrazione tra le arti, Nanda Vigo ha in realtà unito in una sintesi operativa e di attento controllo compositivo la dimensione artistica con quella architettonica; “se trovavo nell’arte la mancanza di un aspetto costruttivo, allo stesso tempo vedevo quanto l’architettura mancasse di artisticità” (Nanda Vigo). Così l’idea e la pratica di una ricerca dello ‘spazio totale’ non poteva che avvenire in una consapevole, ‘naturale’ e voluta azione di sinergia tra sensibilità artistica e razionalità architettonica dove, per ciò che concerne il disegno degli interni, alla semplice organizzazione delle funzioni si sostituisce un’idea di trasformazione globale in cui entrano in gioco spazio, oggetti e arredi, luce e persone, e soprattutto arte.

È proprio la priorità della dimensione artistica quella che porterà alla definizione negli anni ’60 dei celebri ‘ambienti cronotopici’. Si tratta di uno sforzo concreto di portare l’arte alla scala dell’ambiente fisico costruito dove la luce diventa un ‘solido’. Gli allestimenti con vetri stampati e specchi presentati alla Galleria Apollinaire di Milano o il labirinto spiazzante della Sala Ideal Standard (1965) diventano dichiarazioni costruite del ‘manifesto della cronotopia’ (1964): “concetto filosofico – cronotopia o postulato cinquedimensionale introducente all’adimensione”. Pensiero declinato poi in varie scale che da quella dello spazio interno composto da layer sovrapposti di lastre di vetro stampato retroilluminate, o di sistemi di pannelli vetrati continui impiegati come ‘pelle interna’, si riduce all’oggetto macro e micro, in una sorta di ricercata adimensionalità che trova poi nella pratica dell’azzeramento spazio-temporale degli anni Settanta le basi ri-fondative di nuove possibilità espressive e progettuali. Era il grado Zero di purificazione figurativa – così come indicavano le pratiche del Gruppo Zero (il movimento di arte d’avanguardia fondato a Düsserdolf nel 1957) cui Nanda Vigo aderì per affinità di ricerca.

L’arte è stata per Nanda Vigo amore (Piero Manzoni), vita (l’amicizia con Lucio Fontana ed Enrico Castellani per esempio) e materia per costruire – l’ambiente totale’ della casa Meneguzzo a Malo (1966-69) costruita sul progetto messo a disposizione da Gio Ponti sulle pagine di Domus, dove le opere d’arte assumono il valore di elementi chiamati a costruire lo spazio. Una sensibilità che si ritrova nella sua attività di designer di cui ricordiamo, tra i tanti lavori, la lampada da terra Golden Gate per Arredo Luce (1971); prima lampada domestica ad alto ‘valore ambientale’ che impiegava un led (recuperato dalla Nasa a Cape Canaveral) posto nell’interruttore rosso emergente, come un ‘segnale iniziatico’ da attivare, dalla base cilindrica di acciaio.

La grande mostra dello scorso luglio a Palazzo Reale, “Nanda Vigo. Lights Project”, ci ha restituito solo parte del denso percorso progettuale, creativo e poetico, di Nanda Vigo, “un po’ gipsy, ma anche bellissima”, come la descriveva Gio Ponti sul The Daily Telegraph nel 1972.

Nanda Vigo, che aspettavamo quest’anno all’evento Interni Creative Connection con una nuova installazione, è stata un’instancabile protagonista del progetto italiano e della sua carriera artistica – in “Nanda Vigo Fragments of reflections”, Brescia, 1979  affermava: “Non l’ho mai confessato prima, ma la mia carriera artistica l’ho cominciata facendo l’attrice, e comunque mi interessava solo per poter avere il mio nome scritto con il neon sulle locandine luminose, magari come Marilyn Monroe”.