Sappiamo da tempo che la presenza di progettisti stranieri che operano felicemente per le industrie italiane sta crescendo in maniera esponenziale. In questo numero di Interni ne vengono citati alcuni, ma potremmo dire che tutti i migliori designer stranieri sono presenti sul nostro territorio produttivo. Questa non è una novità assoluta e personalmente considero questo fenomeno ‘positivo’: se i giovani designer italiani trovano difficoltà rispetto alla concorrenza straniera i motivi possono essere due. Il primo consiste nel fatto che essi stanno cominciando a indagare merceologie che non coincidono più con quelle del mercato tradizionale (poltrone e divani) e questo è un fatto sicuramente positivo. Il secondo motivo potrebbe derivare dal fatto che i loro divani e poltrone sono meno attrattivi di quelli offerti dai designer stranieri; non esiste nessun possibile protezionismo rispetto a questa debolezza. I giovani italiani devono svegliarsi e capire che è arrivato il momento di uscire dal labirinto di un mercato troppo saturo e concorrenziale, rischiando nuovi territori. La lezione quindi potrebbe essere positiva… Del resto i designer stranieri devono il loro successo a una strategia analoga; a partire dagli anni ’80 hanno sfidato il predominio italiano a loro rischio e pericolo e il mercato industriale ha dato loro ragione. Del resto la globalizzazione comporta una sfida continua e gli imprenditori che ‘internazionalizzano’ il loro catalogo fanno un’operazione sicuramente legittima e benemerita. L’ ‘internazionalizzazione’ del design nell’epoca dei mercati globalizzati rappresenta una questione importante e delicata; il ritorno dopo quarant’anni a un International Style non è sicuramente accettabile; ma i ‘non luoghi’ (aeroporti, stazioni, ipermercati, metropolitane…) sono già oggi delle ‘cattedrali atonali’ diffuse in tutto il mondo. Luoghi catatonici che abbattono qualsiasi diversità, qualsiasi emozione culturale: efficaci, eleganti, algidi, sostanzialmente interscambiabili tra di loro. L’ipotesi di un ‘mix eclettico’, che produce un frullato di stili locali è almeno ridicola; un ‘sincretismo’ che accetta di inglobare tutte le possibili differenze culturali ammortizzandole in un meticciato generale, è forse la peggiore ipotesi. Il design nell’epoca della globalizzazione potrebbe essere esattamente il contrario di tutto questo: rispetto a quello del XX secolo potrebbe essere meno aniconico, più figurativo e contaminato, meno autoreferenziale, attento ai venti che giungono dall’Oriente (Cina, India, Giappone), e soprattutto capace di confrontarsi con i grandi temi antropologici: la morte, la storia, il sacro, il destino, l’amore. Temi che corrispondono a quella piattaforma umana presente in ogni angolo dell’Impero. Il design si è sempre tenuto lontano da queste tematiche, impegnato a confrontarsi con le politiche per i tempi brevi del marketing, a elaborare scenari domestici eleganti, a usare le tecnologie avanzate; ma se guardiamo la storia del design italiano come di quello occidentale, vediamo che ha attraversato tutto il XX secolo, due guerre mondiali, gli stermini di massa, le grandi dittature, il crollo delle ideologie, la crisi della modernità, senza dimostrare nessun turbamento: sempre ottimista, sempre intelligente, indifferente al mondo. Un tempo per indicare il cinema disimpegnato ed elegante qualcuno inventò il temine (geniale) de “il cinema dei telefoni bianchi”… Mi sembra che questa sorta di ‘intervallo della storia’ nel quale il design occidentale si è posto fino dalla sua nascita, comincia a manifestare qualche crepa. Durante l’ultimo Salone del mobile si sono visti per la prima volta segni sparsi di inquetudine: citerò la mostra Cruciale di Giulio Iacchetti al Museo Diocesano sul tema della croce; la mia mostra a Palazzo Durini Immersion sul tema della croce e dei recinti per gli animali e Nature Morte alla galleria di Clio Calvi e Rudy Volpi sul tema della morte; la grande mostra collettiva in Triennale Bovisa Independent Design Secession con Michele De Lucchi, Michelangelo Pistoletto, Lapo Lani e altri designer. Non si tratta della riscoperta di vocazioni mistiche o religiose; al contrario, di progetti assolutamente laici che cominciano a guardare gli smisurati universi che la ‘modernità bianca’ (come i telefoni) ha sempre ignorato e che appartengono a un mondo che preme attorno a noi, con la sua urgenza di irrompere nei circuiti sacri del progetto. Verdura, ombre, canarini, legni antichi, assi bruciate: mi ricordano i grandi vassoi pieni di pesci, frutta, cacciagione, cani e gatti che alla fine del XVII secolo irruppero sulle tele, a testimoniare nella maniera più vitale che le clausure del Rinascimento erano finite… Secondo me la risposta del design alla sfida della globalizzazione può essere quella di un maggiore realismo, una compromissione e una contaminazione con tutto ciò che la modernità ha escluso. Meno purismo, meno minimalismo, memo eleganza e una nuova ‘drammaturgia’, che si predispone ad affrontare i tempi difficili che ci attendono: l’intervallo è finito e il lieto fine non è più garantito.