Elena Granata ha dedicato un libro ai protagonisti delle rivoluzioni urbane. Si intitola Placemaker ed è pieno di sorprese

Non saranno gli urbanisti a disegnare le città del futuro. In estrema sintesi è questo il pensiero di Elena Granata, docente di Urbanistica al Politecnico di Milano e autrice del libro Placemaker (Einaudi, 2021). Per immaginare come vivremo ci vogliono azioni semplici, poetiche e pragmatiche allo stesso tempo. Quindi chi sono i placemaker oggi? Glielo abbiamo chiesto.

Come nasce il libro? È divulgativo e ispirante: non è un libro tecnico. È un racconto.

All’architettura e all’urbanistica in particolare è mancata negli ultimi anni una dimensione narrativa. Le città evolvono, si investono risorse progettuali e finanziarie, ma il rischio è di restare, in ambito accademico e professionale, in una dimensione autoreferenziale e chiusa. Mi è sembrato che ci fosse bisogno di storie ispiranti, per far comprendere ai cittadini che a volte il cambiamento può partire dall’iniziativa individuale.

Da un’intuizione che si trasforma in un’azione concreta, non necessariamente costosa ma che risponde a bisogni reali. Una storia ben raccontata ha una presa diretta sulle emozioni delle persone, è una chiamata a cui è difficile non rispondere, ha un valore emulativo.

 

Quindi chi sono i placemaker, gli inventori di luoghi, secondo lei?

Il libro si apre con il lavoro di Daan Roosegaarde (su di lui leggi anche qui). È autore di una serie di progetti sul confine fra scienza, architettura e poesia. In particolare cito la sua proposta di spegnere le luci di un villaggio in Olanda per poter vedere meglio il cielo notturno. Roosegaarde non suggerisce di tenere le strade al buio, ma di usare lampioni che si accendono quando ce n’è bisogno. L’ispirazione gli è venuta osservando le lucciole, che decorano il buio e non si limitano a illuminarlo. Placemaker si dipana fra molti esempi di questo tipo: interventi semplici e ispirati, bottom up, che partono dall’osservazione e trasformano l’ispirazione in progetto. È un processo di empowerment: occorre comprendere che il cambiamento è possibile, a portata di mano.

 

Qual è allora il lavoro degli urbanisti?

Un mio studente del primo anno, pensando di fare una battuta arguta, mi ha confidato che secondo lui l’architetto si deve divertire lavorando. È un commento in realtà profondo: divertire significa divergere, spostare lo sguardo. Io nutro il mio lavoro e il mio pensiero con discipline molto lontane dall’architettura. Le neuroscienze, la teoria del Nudge (la spinta gentile), la botanica, la pedagogia.

La disciplina con cui mi trovo più a mio agio è il design, considerato il fratello minore dell’architettura. Progettare l’immateriale, il valore umano, è fondamentale oggi. Gli urbanisti oggi hanno bisogno di qualsiasi cosa, ma non dell’urbanistica accademica, che li tiene lontani dalla possibilità di intervenire con progetti davvero sensibili e necessari.

La possibilità di cambiare sembra il fulcro di Placemaker

Dopo che Placemaker è stato pubblicato ho ricevuto messaggi da molte parti di Italia. Un prete di Norcia, città ancora a rischio sismico e infrastrutturale, mi ha scritto che il mio libro è pericoloso, perché fa pensare. Ma a lui è venuta l’idea di costruire un campanile orizzontale, non potendo averne uno verticale. E lo sta facendo insieme ai suoi concittadini. Pensare non tanto a come cambiare, ma semplicemente alla possibilità di cambiare, è il punto di partenza.

Placemaker cita anche esempi italiani…

Certo, anche se il nostro paese fatica a prendere in considerazione possibilità alternative. Ma gli esempi ci sono. Pensi al sindaco di Viganella, che ha progettato uno specchio in grado di riflettere i raggi del sole sulla piazza del suo paese altrimenti in ombra. Un progetto che porta speranza con una dose di ironia e pragmatismo. Passare dalla visione al progetto è possibile, a Caserta come a New York. Un esempio eclatante lo ha portato la pandemia: le città si sono riappropriate di grandi porzioni di spazio pubblico, che si affollano di persone e di incontri. È la dimostrazione che quando costretta anche l’Italia è in grado di attuare cambiamenti significativi in breve tempo.

Perché ha scritto Placemaker?

Per portare uno sguardo fatto di leggerezza e possibilità sul tema delle città. Mi interessa molto parlare alle persone, mostrare che attraverso la consapevolezza e il pragmatismo si può agire in una direzione costruttiva anche senza essere degli esperti. E per sottolineare che gli urbanisti hanno la grande responsabilità di ispirare comportamenti e dire cose nuove, diverse.