foto di sergio pirrone, matteo vercelloni
testo di matteo vercelloni
testo di matteo vercelloni
foto di sergio pirrone, matteo vercelloni
testo di matteo vercelloni -
Come, con la crisi economica si è detto basta agli eccessi finanziari è arrivato il momento di fermare anche gli eccessi degli architetti […] troppo spesso, ultimamente, gli architetti sono stati chiamati come maître patissier a preparare la torta di nozze del padrone di casa, ossia del committente. Che identifica nell’architetto lo specialista che, al meglio, attraverso un edificio può pubblicizzare il suo nome o il suo marchio. Che, di per sé, non è una colpa. Però quando a Michelangelo fu affidato l’incarico per la cupola di San Pietro era sì un’operazione di ‘promozione’ del papato, ma al contempo una renovatio urbis”. Le affermazioni di David Chipperfield, in parte rese esplicite dalla sua Biennale di Architettura, non lasciano spazio al dubbio: è tempo di ritornare a intendere l’architettura come una disciplina complessa che si confronta con la storia e la memoria, con le città e i suoi cittadini e che, come affermava Aldo Rossi è da assumere come “opera d’arte collettiva”. La 13a Biennale di architettura veneziana nella sua molteplice rassegna di punti di vista tende a consegnarci tale messaggio senza mortificare o ridurre le specifiche poetiche e le singole espressioni di ogni architetto che però cercano di offrirsi come occasione di confronto più che come momento di presentazione professionale. Molti sono i temi che si possono rintracciare nella visita alla mostra tra le Corderie e i Giardini, alcuni sottolineano le intenzioni iniziali: partecipazione civile, riuso e sostenibilità, presenza della storia, progetti condivisi, senso e uso della città e dei suoi spazi, valore del paesaggio come risorsa strategica. Non si tratta tuttavia della celebrazione del tramonto della figura dell’archistar, piuttosto di individuare percorsi che leghino il progetto di architettura al suo senso urbano, per estendersi a volte alla scala territoriale come macrostrutture abitate (è il caso del progetto dei ponti architettonici per Stoccolma, pensati da Jean Nouvel e Mia Hägg per unire il centro storico di Gamla Stan all’isola più a sud della città; o all’avveniristico Global Hub AIR+PORT dello studio BIG/ Bjarke Ingels Group, sperimentale sintesi tipologica tra un aeroporto galleggiante e un porto navale previsto tra i ghiacci della Groenlandia a Nuuk). In generale in tutta la mostra si respira aria di complessità e questo può indurre a rendere più difficile e sfuggente il messaggio che non vuole essere di tipo ‘spettacolare’, ma fondativo. La camera scura di Norman Foster, Gateway, che accoglie i visitatori alle spalle dell’ingresso funge in fondo da manifesto introduttivo con la ‘storia’ proiettata sul pavimento nero nella forma di disegni, nomi dei protagonisti della cultura architettonica, messaggi, che si confrontano con lo spazio storico e contemporaneo dei raduni collettivi offerto da un serrato ritmo di immagini proiettate che ci avvolgono in alto, sui quattro lati delle pareti. Ordine e disordine per capire l’uso dell’architettura che a volte appare ‘improprio’, ma allo stesso tempo inarrestabile e spontaneo. Come appunto quello che avviene in uno dei monumenti architettonici contemporanei di Hong Kong: la Bank of China dello stesso Foster (in mostra ai Giardini) il cui piano terreno, pensato come ‘luogo pubblico’ e di passaggio sin dalla sua inaugurazione, si trasforma ogni domenica in una sorta di centro d’incontro della comunità delle colf filippine che, frammentandolo in microspazi con temporanei setti di cartone, attiva una straordinaria e pacifica varietà di attività sociali. In altro modo la riappropriazione di spazi urbani è rappresentata dal caso della Torre David a Caracas rappresentato dall’allestimento a cura di Urban Think Tank (Leone d’Oro quale miglior progetto della Mostra internazionale). Una torre per uffici rimasta incompleta è diventata una favela verticale nel centro urbano, simbolo del fallimento del neoliberismo e del self-empowerment delle classi povere, formando una nuova comunità spontanea, “modello ispiratore che riconosce la forza delle associazioni informali” (dalle motivazioni della Giuria), che ne ha trasformato gli spazi in una nuova casa collettiva con una propria identità. Valori di appartenenza restituiti dal progetto in mostra nella forma del ristorante di fantasia Gran Horizonte (punto d’incontro e di sosta lungo il percorso delle corderie) e dalla serie di fotografie di Iwan Baan che documentano momenti di vita della comunità spontanea. Partecipazione e tensione verso lo sviluppo urbano ‘dal basso’ sono testimoniati anche dalla ricerca di Elke Krasny, Hand –On Urbanism 1850-2012, e dal padiglione degli Stati Uniti d’America con il suo Spontaneous Interventions: Design Actions for the Common Good (menzione speciale della Giuria), dove una selezione di progetti ad opera di architetti, designer, urbanisti e semplici cittadini, configurano un mosaico di idee, proposte e realizzazioni, tese a “espandere la bellezza, il benessere, la funzionalità, la sicurezza e la sostenibilità delle città [dove] sperimentale, informale, alternativo, spontaneo, improvvisato, partecipativo, migliorativo, sono soltanto alcune delle parole che sono usate per descrivere questo movimento che si sta diffondendo sempre più a livello internazionale”. Ma dove forse al meglio si restituisce lo slogan del Commun Ground della Biennale veneziana è nell’Architecture possible here? Home-for-all del padiglione Giapponese (a cura di Toyo Ito, con allestimento di Akihisha Hirata, Sou Fujimoto, Kumiko Inui, Leone d’Oro per la migliore partecipazione nazionale), in cui la collaborazione e il confronto con la popolazione colpita dallo tsunami ha portato alla definizione di un nuovo centro d’incontro con la comunità locale, primo step di un programma in grado di generare la ‘voglia di casa’ in una regione devastata da una catastrofe nazionale. Tra uno sguardo alla storia e la ricerca di un confronto con il passato in termini attuali (l’omaggio alla magia compositiva dell’architetto barocco inglese Nicholas Hawksmoor, la bella mostra Facecity di Fulvio Irace dedicata al paesaggio urbano milanese del secondo dopoguerra, il Pasticcio di Caruso St. John teso a rintracciare una “continuità tra l’architettura contemporanea e quella antecedente al modernismo”, i ‘ritratti’ dei padiglioni della Biennale di Gabriele Basilico nell’allestimento di Diener & Diener, le radici storiche dichiarate da parte della ricerca sulla forma algoritmica di Zaha Hadid) i temi legati alla sostenibilità e al riuso sono emersi in più occasioni. Reduce/Reuse/Recycle – Architecture as Resource è il titolo-programma della Germania dove si dichiara apertamente che ogni costruzione è una risorsa con cui confrontarsi abbandonando la serialità tardo modernista della demolizione-progetto-ricostruzione; “secondo la logica di Reduce/Reuse/Recycle diverse strategie di ristrutturazione si possono classificare in base al rapporto fra vecchio e nuovo, fra l’intensità dell’intervento e il livello di modificazione. Trattando l’architettura edificata come una risorsa sostanziale e formale, si rende disponibile un’ampia gamma di possibilità e di approcci”. All’idea di sviluppo di una nuova consapevolezza rispetto al paesaggio urbano che ci circonda si riferisce anche la Svizzera, mentre la Russia, con i-city a cura di Sergei Tchoban (menzione speciale per l’allestimento e il tema trattato), dedica il suo padiglione, rivestito da pannelli metallici serigrafati da codici QR interattivi con tablet dati ai visitatori all’ingresso, al nuovo paesaggio in divenire del Centro d’innovazione di Skolkovo letto in rapporto alla storia delle città della scienza del Paese. Il verde, superata ogni dimensione semplicemente estetica, diventa fattore simbolico nel bosco di felci del Padiglione Italia di Luca Zevi che, oltre a sottolineare il valore dell’architettura per la produzione, emersa forse in modo inconsapevole dal solco della lezione di Adriano Olivetti, ci ricorda il valore del territorio e la necessità del suo mantenimento e gestione, oggi sempre più in abbandono anche in relazione alla flessione delle coltivazioni agricole (presidio di gestione del paesaggio in senso lato). Mentre ancora il verde (tradotto in piantumazioni di canne comuni) diventa strumento di riqualificazione strutturale nella prima partecipazione dell’Angola. In Beyond Entropy Angola, a cura di Stefano Rabolli Pansera e Paula Nascimento, si affronta il caso delle aree di conurbazione senza urbanità di Luanda, città ad alta densità senza avere però edifici a più livelli. In questa crescita esponenziale dell’occupazione del suolo, nella mancanza totale di infrastrutture basilari, l’idea di piantumare gli spazi interstiziali tra le costruzioni con la canna comune (Arundo Donax) che cresce anche lungo i nostri fiumi, permette di trasformare il ‘verde’ o meglio il paesaggio in strumento di riqualificazione operativo a breve periodo: la canna cresce con grande rapidità (raggiungerà a fine novembre il soffitto dello spazio all’isola di San Giorgio dove è ospitato l’allestimento) e i filamenti finissimi del suo rizoma alla radice filtrano in modo naturale le acque sporche, mentre il fusto rigido assorbe grandi quantità di CO2 rendendolo ideale per la biomassa. Quello proposto è un modello urbanistico sostenibile in grado di diventare esempio-guida per i Paesi sub-sahariani. Non mancano nella mostra allestimenti ‘hot spot’, emergenti dal punto di vista della presenza architettonica e scenica, tra cui la struttura metallica Arum di Zaha Hadid, e l’allestimento Copycat di Cino Zucchi (menzione d’onore) metafora di una sommatoria architettonica e allo stesso tempo luogo di memorie domestiche, di oggetti e immagini in grado di produrre efficaci rimandi di scala, di abitudini e usi. Nei pressi del Giardino delle Vergini si fronteggiano infine le due architetture di Alvaro Siza e di Eduardo Souto de Moura rapportate alla densità dell’ambiente urbano veneziano la prima e al paesaggio dell’intorno, incorniciato dalle sue aperture e rapporti di spazi, il secondo. Una mostra che racconta temi, che delinea possibili percorsi, più che mostrare la magnificenza e la spettacolarità di opere singole. D’altra parte come ci ricorda lo stesso Chipperfield “progettare architetture che siano parte di un panorama quotidiano è sicuramente una bella sfida, molto più rischiosa e affascinante della creazione di un maxigrattacielo”.
foto di sergio pirrone, matteo vercelloni
testo di matteo vercelloni - [gallery ids="7710,7711,7712,7713,7714,7715,7716,7717,7718,7719,7720,7721,7722,7723,7724"]Come, con la crisi economica si è detto basta agli eccessi finanziari è arrivato il momento di fermare anche gli eccessi degli architetti […] troppo spesso, ultimamente, gli architetti sono stati chiamati come maître patissier a preparare la torta di nozze del padrone di casa, ossia del committente. Che identifica nell’architetto lo specialista che, al meglio, attraverso un edificio può pubblicizzare il suo nome o il suo marchio. Che, di per sé, non è una colpa. Però quando a Michelangelo fu affidato l’incarico per la cupola di San Pietro era sì un’operazione di ‘promozione’ del papato, ma al contempo una renovatio urbis”. Le affermazioni di David Chipperfield, in parte rese esplicite dalla sua Biennale di Architettura, non lasciano spazio al dubbio: è tempo di ritornare a intendere l’architettura come una disciplina complessa che si confronta con la storia e la memoria, con le città e i suoi cittadini e che, come affermava Aldo Rossi è da assumere come “opera d’arte collettiva”. La 13a Biennale di architettura veneziana nella sua molteplice rassegna di punti di vista tende a consegnarci tale messaggio senza mortificare o ridurre le specifiche poetiche e le singole espressioni di ogni architetto che però cercano di offrirsi come occasione di confronto più che come momento di presentazione professionale. Molti sono i temi che si possono rintracciare nella visita alla mostra tra le Corderie e i Giardini, alcuni sottolineano le intenzioni iniziali: partecipazione civile, riuso e sostenibilità, presenza della storia, progetti condivisi, senso e uso della città e dei suoi spazi, valore del paesaggio come risorsa strategica. Non si tratta tuttavia della celebrazione del tramonto della figura dell’archistar, piuttosto di individuare percorsi che leghino il progetto di architettura al suo senso urbano, per estendersi a volte alla scala territoriale come macrostrutture abitate (è il caso del progetto dei ponti architettonici per Stoccolma, pensati da Jean Nouvel e Mia Hägg per unire il centro storico di Gamla Stan all’isola più a sud della città; o all’avveniristico Global Hub AIR+PORT dello studio BIG/ Bjarke Ingels Group, sperimentale sintesi tipologica tra un aeroporto galleggiante e un porto navale previsto tra i ghiacci della Groenlandia a Nuuk). In generale in tutta la mostra si respira aria di complessità e questo può indurre a rendere più difficile e sfuggente il messaggio che non vuole essere di tipo ‘spettacolare’, ma fondativo. La camera scura di Norman Foster, Gateway, che accoglie i visitatori alle spalle dell’ingresso funge in fondo da manifesto introduttivo con la ‘storia’ proiettata sul pavimento nero nella forma di disegni, nomi dei protagonisti della cultura architettonica, messaggi, che si confrontano con lo spazio storico e contemporaneo dei raduni collettivi offerto da un serrato ritmo di immagini proiettate che ci avvolgono in alto, sui quattro lati delle pareti. Ordine e disordine per capire l’uso dell’architettura che a volte appare ‘improprio’, ma allo stesso tempo inarrestabile e spontaneo. Come appunto quello che avviene in uno dei monumenti architettonici contemporanei di Hong Kong: la Bank of China dello stesso Foster (in mostra ai Giardini) il cui piano terreno, pensato come ‘luogo pubblico’ e di passaggio sin dalla sua inaugurazione, si trasforma ogni domenica in una sorta di centro d’incontro della comunità delle colf filippine che, frammentandolo in microspazi con temporanei setti di cartone, attiva una straordinaria e pacifica varietà di attività sociali. In altro modo la riappropriazione di spazi urbani è rappresentata dal caso della Torre David a Caracas rappresentato dall’allestimento a cura di Urban Think Tank (Leone d’Oro quale miglior progetto della Mostra internazionale). Una torre per uffici rimasta incompleta è diventata una favela verticale nel centro urbano, simbolo del fallimento del neoliberismo e del self-empowerment delle classi povere, formando una nuova comunità spontanea, “modello ispiratore che riconosce la forza delle associazioni informali” (dalle motivazioni della Giuria), che ne ha trasformato gli spazi in una nuova casa collettiva con una propria identità. Valori di appartenenza restituiti dal progetto in mostra nella forma del ristorante di fantasia Gran Horizonte (punto d’incontro e di sosta lungo il percorso delle corderie) e dalla serie di fotografie di Iwan Baan che documentano momenti di vita della comunità spontanea. Partecipazione e tensione verso lo sviluppo urbano ‘dal basso’ sono testimoniati anche dalla ricerca di Elke Krasny, Hand –On Urbanism 1850-2012, e dal padiglione degli Stati Uniti d’America con il suo Spontaneous Interventions: Design Actions for the Common Good (menzione speciale della Giuria), dove una selezione di progetti ad opera di architetti, designer, urbanisti e semplici cittadini, configurano un mosaico di idee, proposte e realizzazioni, tese a “espandere la bellezza, il benessere, la funzionalità, la sicurezza e la sostenibilità delle città [dove] sperimentale, informale, alternativo, spontaneo, improvvisato, partecipativo, migliorativo, sono soltanto alcune delle parole che sono usate per descrivere questo movimento che si sta diffondendo sempre più a livello internazionale”. Ma dove forse al meglio si restituisce lo slogan del Commun Ground della Biennale veneziana è nell’Architecture possible here? Home-for-all del padiglione Giapponese (a cura di Toyo Ito, con allestimento di Akihisha Hirata, Sou Fujimoto, Kumiko Inui, Leone d’Oro per la migliore partecipazione nazionale), in cui la collaborazione e il confronto con la popolazione colpita dallo tsunami ha portato alla definizione di un nuovo centro d’incontro con la comunità locale, primo step di un programma in grado di generare la ‘voglia di casa’ in una regione devastata da una catastrofe nazionale. Tra uno sguardo alla storia e la ricerca di un confronto con il passato in termini attuali (l’omaggio alla magia compositiva dell’architetto barocco inglese Nicholas Hawksmoor, la bella mostra Facecity di Fulvio Irace dedicata al paesaggio urbano milanese del secondo dopoguerra, il Pasticcio di Caruso St. John teso a rintracciare una “continuità tra l’architettura contemporanea e quella antecedente al modernismo”, i ‘ritratti’ dei padiglioni della Biennale di Gabriele Basilico nell’allestimento di Diener & Diener, le radici storiche dichiarate da parte della ricerca sulla forma algoritmica di Zaha Hadid) i temi legati alla sostenibilità e al riuso sono emersi in più occasioni. Reduce/Reuse/Recycle – Architecture as Resource è il titolo-programma della Germania dove si dichiara apertamente che ogni costruzione è una risorsa con cui confrontarsi abbandonando la serialità tardo modernista della demolizione-progetto-ricostruzione; “secondo la logica di Reduce/Reuse/Recycle diverse strategie di ristrutturazione si possono classificare in base al rapporto fra vecchio e nuovo, fra l’intensità dell’intervento e il livello di modificazione. Trattando l’architettura edificata come una risorsa sostanziale e formale, si rende disponibile un’ampia gamma di possibilità e di approcci”. All’idea di sviluppo di una nuova consapevolezza rispetto al paesaggio urbano che ci circonda si riferisce anche la Svizzera, mentre la Russia, con i-city a cura di Sergei Tchoban (menzione speciale per l’allestimento e il tema trattato), dedica il suo padiglione, rivestito da pannelli metallici serigrafati da codici QR interattivi con tablet dati ai visitatori all’ingresso, al nuovo paesaggio in divenire del Centro d’innovazione di Skolkovo letto in rapporto alla storia delle città della scienza del Paese. Il verde, superata ogni dimensione semplicemente estetica, diventa fattore simbolico nel bosco di felci del Padiglione Italia di Luca Zevi che, oltre a sottolineare il valore dell’architettura per la produzione, emersa forse in modo inconsapevole dal solco della lezione di Adriano Olivetti, ci ricorda il valore del territorio e la necessità del suo mantenimento e gestione, oggi sempre più in abbandono anche in relazione alla flessione delle coltivazioni agricole (presidio di gestione del paesaggio in senso lato). Mentre ancora il verde (tradotto in piantumazioni di canne comuni) diventa strumento di riqualificazione strutturale nella prima partecipazione dell’Angola. In Beyond Entropy Angola, a cura di Stefano Rabolli Pansera e Paula Nascimento, si affronta il caso delle aree di conurbazione senza urbanità di Luanda, città ad alta densità senza avere però edifici a più livelli. In questa crescita esponenziale dell’occupazione del suolo, nella mancanza totale di infrastrutture basilari, l’idea di piantumare gli spazi interstiziali tra le costruzioni con la canna comune (Arundo Donax) che cresce anche lungo i nostri fiumi, permette di trasformare il ‘verde’ o meglio il paesaggio in strumento di riqualificazione operativo a breve periodo: la canna cresce con grande rapidità (raggiungerà a fine novembre il soffitto dello spazio all’isola di San Giorgio dove è ospitato l’allestimento) e i filamenti finissimi del suo rizoma alla radice filtrano in modo naturale le acque sporche, mentre il fusto rigido assorbe grandi quantità di CO2 rendendolo ideale per la biomassa. Quello proposto è un modello urbanistico sostenibile in grado di diventare esempio-guida per i Paesi sub-sahariani. Non mancano nella mostra allestimenti ‘hot spot’, emergenti dal punto di vista della presenza architettonica e scenica, tra cui la struttura metallica Arum di Zaha Hadid, e l’allestimento Copycat di Cino Zucchi (menzione d’onore) metafora di una sommatoria architettonica e allo stesso tempo luogo di memorie domestiche, di oggetti e immagini in grado di produrre efficaci rimandi di scala, di abitudini e usi. Nei pressi del Giardino delle Vergini si fronteggiano infine le due architetture di Alvaro Siza e di Eduardo Souto de Moura rapportate alla densità dell’ambiente urbano veneziano la prima e al paesaggio dell’intorno, incorniciato dalle sue aperture e rapporti di spazi, il secondo. Una mostra che racconta temi, che delinea possibili percorsi, più che mostrare la magnificenza e la spettacolarità di opere singole. D’altra parte come ci ricorda lo stesso Chipperfield “progettare architetture che siano parte di un panorama quotidiano è sicuramente una bella sfida, molto più rischiosa e affascinante della creazione di un maxigrattacielo”.
foto di sergio pirrone, matteo vercelloni
testo di matteo vercelloni - [gallery ids="7710,7711,7712,7713,7714,7715,7716,7717,7718,7719,7720,7721,7722,7723,7724"]Come, con la crisi economica si è detto basta agli eccessi finanziari è arrivato il momento di fermare anche gli eccessi degli architetti […] troppo spesso, ultimamente, gli architetti sono stati chiamati come maître patissier a preparare la torta di nozze del padrone di casa, ossia del committente. Che identifica nell’architetto lo specialista che, al meglio, attraverso un edificio può pubblicizzare il suo nome o il suo marchio. Che, di per sé, non è una colpa. Però quando a Michelangelo fu affidato l’incarico per la cupola di San Pietro era sì un’operazione di ‘promozione’ del papato, ma al contempo una renovatio urbis”. Le affermazioni di David Chipperfield, in parte rese esplicite dalla sua Biennale di Architettura, non lasciano spazio al dubbio: è tempo di ritornare a intendere l’architettura come una disciplina complessa che si confronta con la storia e la memoria, con le città e i suoi cittadini e che, come affermava Aldo Rossi è da assumere come “opera d’arte collettiva”. La 13a Biennale di architettura veneziana nella sua molteplice rassegna di punti di vista tende a consegnarci tale messaggio senza mortificare o ridurre le specifiche poetiche e le singole espressioni di ogni architetto che però cercano di offrirsi come occasione di confronto più che come momento di presentazione professionale. Molti sono i temi che si possono rintracciare nella visita alla mostra tra le Corderie e i Giardini, alcuni sottolineano le intenzioni iniziali: partecipazione civile, riuso e sostenibilità, presenza della storia, progetti condivisi, senso e uso della città e dei suoi spazi, valore del paesaggio come risorsa strategica. Non si tratta tuttavia della celebrazione del tramonto della figura dell’archistar, piuttosto di individuare percorsi che leghino il progetto di architettura al suo senso urbano, per estendersi a volte alla scala territoriale come macrostrutture abitate (è il caso del progetto dei ponti architettonici per Stoccolma, pensati da Jean Nouvel e Mia Hägg per unire il centro storico di Gamla Stan all’isola più a sud della città; o all’avveniristico Global Hub AIR+PORT dello studio BIG/ Bjarke Ingels Group, sperimentale sintesi tipologica tra un aeroporto galleggiante e un porto navale previsto tra i ghiacci della Groenlandia a Nuuk). In generale in tutta la mostra si respira aria di complessità e questo può indurre a rendere più difficile e sfuggente il messaggio che non vuole essere di tipo ‘spettacolare’, ma fondativo. La camera scura di Norman Foster, Gateway, che accoglie i visitatori alle spalle dell’ingresso funge in fondo da manifesto introduttivo con la ‘storia’ proiettata sul pavimento nero nella forma di disegni, nomi dei protagonisti della cultura architettonica, messaggi, che si confrontano con lo spazio storico e contemporaneo dei raduni collettivi offerto da un serrato ritmo di immagini proiettate che ci avvolgono in alto, sui quattro lati delle pareti. Ordine e disordine per capire l’uso dell’architettura che a volte appare ‘improprio’, ma allo stesso tempo inarrestabile e spontaneo. Come appunto quello che avviene in uno dei monumenti architettonici contemporanei di Hong Kong: la Bank of China dello stesso Foster (in mostra ai Giardini) il cui piano terreno, pensato come ‘luogo pubblico’ e di passaggio sin dalla sua inaugurazione, si trasforma ogni domenica in una sorta di centro d’incontro della comunità delle colf filippine che, frammentandolo in microspazi con temporanei setti di cartone, attiva una straordinaria e pacifica varietà di attività sociali. In altro modo la riappropriazione di spazi urbani è rappresentata dal caso della Torre David a Caracas rappresentato dall’allestimento a cura di Urban Think Tank (Leone d’Oro quale miglior progetto della Mostra internazionale). Una torre per uffici rimasta incompleta è diventata una favela verticale nel centro urbano, simbolo del fallimento del neoliberismo e del self-empowerment delle classi povere, formando una nuova comunità spontanea, “modello ispiratore che riconosce la forza delle associazioni informali” (dalle motivazioni della Giuria), che ne ha trasformato gli spazi in una nuova casa collettiva con una propria identità. Valori di appartenenza restituiti dal progetto in mostra nella forma del ristorante di fantasia Gran Horizonte (punto d’incontro e di sosta lungo il percorso delle corderie) e dalla serie di fotografie di Iwan Baan che documentano momenti di vita della comunità spontanea. Partecipazione e tensione verso lo sviluppo urbano ‘dal basso’ sono testimoniati anche dalla ricerca di Elke Krasny, Hand –On Urbanism 1850-2012, e dal padiglione degli Stati Uniti d’America con il suo Spontaneous Interventions: Design Actions for the Common Good (menzione speciale della Giuria), dove una selezione di progetti ad opera di architetti, designer, urbanisti e semplici cittadini, configurano un mosaico di idee, proposte e realizzazioni, tese a “espandere la bellezza, il benessere, la funzionalità, la sicurezza e la sostenibilità delle città [dove] sperimentale, informale, alternativo, spontaneo, improvvisato, partecipativo, migliorativo, sono soltanto alcune delle parole che sono usate per descrivere questo movimento che si sta diffondendo sempre più a livello internazionale”. Ma dove forse al meglio si restituisce lo slogan del Commun Ground della Biennale veneziana è nell’Architecture possible here? Home-for-all del padiglione Giapponese (a cura di Toyo Ito, con allestimento di Akihisha Hirata, Sou Fujimoto, Kumiko Inui, Leone d’Oro per la migliore partecipazione nazionale), in cui la collaborazione e il confronto con la popolazione colpita dallo tsunami ha portato alla definizione di un nuovo centro d’incontro con la comunità locale, primo step di un programma in grado di generare la ‘voglia di casa’ in una regione devastata da una catastrofe nazionale. Tra uno sguardo alla storia e la ricerca di un confronto con il passato in termini attuali (l’omaggio alla magia compositiva dell’architetto barocco inglese Nicholas Hawksmoor, la bella mostra Facecity di Fulvio Irace dedicata al paesaggio urbano milanese del secondo dopoguerra, il Pasticcio di Caruso St. John teso a rintracciare una “continuità tra l’architettura contemporanea e quella antecedente al modernismo”, i ‘ritratti’ dei padiglioni della Biennale di Gabriele Basilico nell’allestimento di Diener & Diener, le radici storiche dichiarate da parte della ricerca sulla forma algoritmica di Zaha Hadid) i temi legati alla sostenibilità e al riuso sono emersi in più occasioni. Reduce/Reuse/Recycle – Architecture as Resource è il titolo-programma della Germania dove si dichiara apertamente che ogni costruzione è una risorsa con cui confrontarsi abbandonando la serialità tardo modernista della demolizione-progetto-ricostruzione; “secondo la logica di Reduce/Reuse/Recycle diverse strategie di ristrutturazione si possono classificare in base al rapporto fra vecchio e nuovo, fra l’intensità dell’intervento e il livello di modificazione. Trattando l’architettura edificata come una risorsa sostanziale e formale, si rende disponibile un’ampia gamma di possibilità e di approcci”. All’idea di sviluppo di una nuova consapevolezza rispetto al paesaggio urbano che ci circonda si riferisce anche la Svizzera, mentre la Russia, con i-city a cura di Sergei Tchoban (menzione speciale per l’allestimento e il tema trattato), dedica il suo padiglione, rivestito da pannelli metallici serigrafati da codici QR interattivi con tablet dati ai visitatori all’ingresso, al nuovo paesaggio in divenire del Centro d’innovazione di Skolkovo letto in rapporto alla storia delle città della scienza del Paese. Il verde, superata ogni dimensione semplicemente estetica, diventa fattore simbolico nel bosco di felci del Padiglione Italia di Luca Zevi che, oltre a sottolineare il valore dell’architettura per la produzione, emersa forse in modo inconsapevole dal solco della lezione di Adriano Olivetti, ci ricorda il valore del territorio e la necessità del suo mantenimento e gestione, oggi sempre più in abbandono anche in relazione alla flessione delle coltivazioni agricole (presidio di gestione del paesaggio in senso lato). Mentre ancora il verde (tradotto in piantumazioni di canne comuni) diventa strumento di riqualificazione strutturale nella prima partecipazione dell’Angola. In Beyond Entropy Angola, a cura di Stefano Rabolli Pansera e Paula Nascimento, si affronta il caso delle aree di conurbazione senza urbanità di Luanda, città ad alta densità senza avere però edifici a più livelli. In questa crescita esponenziale dell’occupazione del suolo, nella mancanza totale di infrastrutture basilari, l’idea di piantumare gli spazi interstiziali tra le costruzioni con la canna comune (Arundo Donax) che cresce anche lungo i nostri fiumi, permette di trasformare il ‘verde’ o meglio il paesaggio in strumento di riqualificazione operativo a breve periodo: la canna cresce con grande rapidità (raggiungerà a fine novembre il soffitto dello spazio all’isola di San Giorgio dove è ospitato l’allestimento) e i filamenti finissimi del suo rizoma alla radice filtrano in modo naturale le acque sporche, mentre il fusto rigido assorbe grandi quantità di CO2 rendendolo ideale per la biomassa. Quello proposto è un modello urbanistico sostenibile in grado di diventare esempio-guida per i Paesi sub-sahariani. Non mancano nella mostra allestimenti ‘hot spot’, emergenti dal punto di vista della presenza architettonica e scenica, tra cui la struttura metallica Arum di Zaha Hadid, e l’allestimento Copycat di Cino Zucchi (menzione d’onore) metafora di una sommatoria architettonica e allo stesso tempo luogo di memorie domestiche, di oggetti e immagini in grado di produrre efficaci rimandi di scala, di abitudini e usi. Nei pressi del Giardino delle Vergini si fronteggiano infine le due architetture di Alvaro Siza e di Eduardo Souto de Moura rapportate alla densità dell’ambiente urbano veneziano la prima e al paesaggio dell’intorno, incorniciato dalle sue aperture e rapporti di spazi, il secondo. Una mostra che racconta temi, che delinea possibili percorsi, più che mostrare la magnificenza e la spettacolarità di opere singole. D’altra parte come ci ricorda lo stesso Chipperfield “progettare architetture che siano parte di un panorama quotidiano è sicuramente una bella sfida, molto più rischiosa e affascinante della creazione di un maxigrattacielo”.
foto di sergio pirrone, matteo vercelloni
testo di matteo vercelloni - [gallery ids="7710,7711,7712,7713,7714,7715,7716,7717,7718,7719,7720,7721,7722,7723,7724"]Come, con la crisi economica si è detto basta agli eccessi finanziari è arrivato il momento di fermare anche gli eccessi degli architetti […] troppo spesso, ultimamente, gli architetti sono stati chiamati come maître patissier a preparare la torta di nozze del padrone di casa, ossia del committente. Che identifica nell’architetto lo specialista che, al meglio, attraverso un edificio può pubblicizzare il suo nome o il suo marchio. Che, di per sé, non è una colpa. Però quando a Michelangelo fu affidato l’incarico per la cupola di San Pietro era sì un’operazione di ‘promozione’ del papato, ma al contempo una renovatio urbis”. Le affermazioni di David Chipperfield, in parte rese esplicite dalla sua Biennale di Architettura, non lasciano spazio al dubbio: è tempo di ritornare a intendere l’architettura come una disciplina complessa che si confronta con la storia e la memoria, con le città e i suoi cittadini e che, come affermava Aldo Rossi è da assumere come “opera d’arte collettiva”. La 13a Biennale di architettura veneziana nella sua molteplice rassegna di punti di vista tende a consegnarci tale messaggio senza mortificare o ridurre le specifiche poetiche e le singole espressioni di ogni architetto che però cercano di offrirsi come occasione di confronto più che come momento di presentazione professionale. Molti sono i temi che si possono rintracciare nella visita alla mostra tra le Corderie e i Giardini, alcuni sottolineano le intenzioni iniziali: partecipazione civile, riuso e sostenibilità, presenza della storia, progetti condivisi, senso e uso della città e dei suoi spazi, valore del paesaggio come risorsa strategica. Non si tratta tuttavia della celebrazione del tramonto della figura dell’archistar, piuttosto di individuare percorsi che leghino il progetto di architettura al suo senso urbano, per estendersi a volte alla scala territoriale come macrostrutture abitate (è il caso del progetto dei ponti architettonici per Stoccolma, pensati da Jean Nouvel e Mia Hägg per unire il centro storico di Gamla Stan all’isola più a sud della città; o all’avveniristico Global Hub AIR+PORT dello studio BIG/ Bjarke Ingels Group, sperimentale sintesi tipologica tra un aeroporto galleggiante e un porto navale previsto tra i ghiacci della Groenlandia a Nuuk). In generale in tutta la mostra si respira aria di complessità e questo può indurre a rendere più difficile e sfuggente il messaggio che non vuole essere di tipo ‘spettacolare’, ma fondativo. La camera scura di Norman Foster, Gateway, che accoglie i visitatori alle spalle dell’ingresso funge in fondo da manifesto introduttivo con la ‘storia’ proiettata sul pavimento nero nella forma di disegni, nomi dei protagonisti della cultura architettonica, messaggi, che si confrontano con lo spazio storico e contemporaneo dei raduni collettivi offerto da un serrato ritmo di immagini proiettate che ci avvolgono in alto, sui quattro lati delle pareti. Ordine e disordine per capire l’uso dell’architettura che a volte appare ‘improprio’, ma allo stesso tempo inarrestabile e spontaneo. Come appunto quello che avviene in uno dei monumenti architettonici contemporanei di Hong Kong: la Bank of China dello stesso Foster (in mostra ai Giardini) il cui piano terreno, pensato come ‘luogo pubblico’ e di passaggio sin dalla sua inaugurazione, si trasforma ogni domenica in una sorta di centro d’incontro della comunità delle colf filippine che, frammentandolo in microspazi con temporanei setti di cartone, attiva una straordinaria e pacifica varietà di attività sociali. In altro modo la riappropriazione di spazi urbani è rappresentata dal caso della Torre David a Caracas rappresentato dall’allestimento a cura di Urban Think Tank (Leone d’Oro quale miglior progetto della Mostra internazionale). Una torre per uffici rimasta incompleta è diventata una favela verticale nel centro urbano, simbolo del fallimento del neoliberismo e del self-empowerment delle classi povere, formando una nuova comunità spontanea, “modello ispiratore che riconosce la forza delle associazioni informali” (dalle motivazioni della Giuria), che ne ha trasformato gli spazi in una nuova casa collettiva con una propria identità. Valori di appartenenza restituiti dal progetto in mostra nella forma del ristorante di fantasia Gran Horizonte (punto d’incontro e di sosta lungo il percorso delle corderie) e dalla serie di fotografie di Iwan Baan che documentano momenti di vita della comunità spontanea. Partecipazione e tensione verso lo sviluppo urbano ‘dal basso’ sono testimoniati anche dalla ricerca di Elke Krasny, Hand –On Urbanism 1850-2012, e dal padiglione degli Stati Uniti d’America con il suo Spontaneous Interventions: Design Actions for the Common Good (menzione speciale della Giuria), dove una selezione di progetti ad opera di architetti, designer, urbanisti e semplici cittadini, configurano un mosaico di idee, proposte e realizzazioni, tese a “espandere la bellezza, il benessere, la funzionalità, la sicurezza e la sostenibilità delle città [dove] sperimentale, informale, alternativo, spontaneo, improvvisato, partecipativo, migliorativo, sono soltanto alcune delle parole che sono usate per descrivere questo movimento che si sta diffondendo sempre più a livello internazionale”. Ma dove forse al meglio si restituisce lo slogan del Commun Ground della Biennale veneziana è nell’Architecture possible here? Home-for-all del padiglione Giapponese (a cura di Toyo Ito, con allestimento di Akihisha Hirata, Sou Fujimoto, Kumiko Inui, Leone d’Oro per la migliore partecipazione nazionale), in cui la collaborazione e il confronto con la popolazione colpita dallo tsunami ha portato alla definizione di un nuovo centro d’incontro con la comunità locale, primo step di un programma in grado di generare la ‘voglia di casa’ in una regione devastata da una catastrofe nazionale. Tra uno sguardo alla storia e la ricerca di un confronto con il passato in termini attuali (l’omaggio alla magia compositiva dell’architetto barocco inglese Nicholas Hawksmoor, la bella mostra Facecity di Fulvio Irace dedicata al paesaggio urbano milanese del secondo dopoguerra, il Pasticcio di Caruso St. John teso a rintracciare una “continuità tra l’architettura contemporanea e quella antecedente al modernismo”, i ‘ritratti’ dei padiglioni della Biennale di Gabriele Basilico nell’allestimento di Diener & Diener, le radici storiche dichiarate da parte della ricerca sulla forma algoritmica di Zaha Hadid) i temi legati alla sostenibilità e al riuso sono emersi in più occasioni. Reduce/Reuse/Recycle – Architecture as Resource è il titolo-programma della Germania dove si dichiara apertamente che ogni costruzione è una risorsa con cui confrontarsi abbandonando la serialità tardo modernista della demolizione-progetto-ricostruzione; “secondo la logica di Reduce/Reuse/Recycle diverse strategie di ristrutturazione si possono classificare in base al rapporto fra vecchio e nuovo, fra l’intensità dell’intervento e il livello di modificazione. Trattando l’architettura edificata come una risorsa sostanziale e formale, si rende disponibile un’ampia gamma di possibilità e di approcci”. All’idea di sviluppo di una nuova consapevolezza rispetto al paesaggio urbano che ci circonda si riferisce anche la Svizzera, mentre la Russia, con i-city a cura di Sergei Tchoban (menzione speciale per l’allestimento e il tema trattato), dedica il suo padiglione, rivestito da pannelli metallici serigrafati da codici QR interattivi con tablet dati ai visitatori all’ingresso, al nuovo paesaggio in divenire del Centro d’innovazione di Skolkovo letto in rapporto alla storia delle città della scienza del Paese. Il verde, superata ogni dimensione semplicemente estetica, diventa fattore simbolico nel bosco di felci del Padiglione Italia di Luca Zevi che, oltre a sottolineare il valore dell’architettura per la produzione, emersa forse in modo inconsapevole dal solco della lezione di Adriano Olivetti, ci ricorda il valore del territorio e la necessità del suo mantenimento e gestione, oggi sempre più in abbandono anche in relazione alla flessione delle coltivazioni agricole (presidio di gestione del paesaggio in senso lato). Mentre ancora il verde (tradotto in piantumazioni di canne comuni) diventa strumento di riqualificazione strutturale nella prima partecipazione dell’Angola. In Beyond Entropy Angola, a cura di Stefano Rabolli Pansera e Paula Nascimento, si affronta il caso delle aree di conurbazione senza urbanità di Luanda, città ad alta densità senza avere però edifici a più livelli. In questa crescita esponenziale dell’occupazione del suolo, nella mancanza totale di infrastrutture basilari, l’idea di piantumare gli spazi interstiziali tra le costruzioni con la canna comune (Arundo Donax) che cresce anche lungo i nostri fiumi, permette di trasformare il ‘verde’ o meglio il paesaggio in strumento di riqualificazione operativo a breve periodo: la canna cresce con grande rapidità (raggiungerà a fine novembre il soffitto dello spazio all’isola di San Giorgio dove è ospitato l’allestimento) e i filamenti finissimi del suo rizoma alla radice filtrano in modo naturale le acque sporche, mentre il fusto rigido assorbe grandi quantità di CO2 rendendolo ideale per la biomassa. Quello proposto è un modello urbanistico sostenibile in grado di diventare esempio-guida per i Paesi sub-sahariani. Non mancano nella mostra allestimenti ‘hot spot’, emergenti dal punto di vista della presenza architettonica e scenica, tra cui la struttura metallica Arum di Zaha Hadid, e l’allestimento Copycat di Cino Zucchi (menzione d’onore) metafora di una sommatoria architettonica e allo stesso tempo luogo di memorie domestiche, di oggetti e immagini in grado di produrre efficaci rimandi di scala, di abitudini e usi. Nei pressi del Giardino delle Vergini si fronteggiano infine le due architetture di Alvaro Siza e di Eduardo Souto de Moura rapportate alla densità dell’ambiente urbano veneziano la prima e al paesaggio dell’intorno, incorniciato dalle sue aperture e rapporti di spazi, il secondo. Una mostra che racconta temi, che delinea possibili percorsi, più che mostrare la magnificenza e la spettacolarità di opere singole. D’altra parte come ci ricorda lo stesso Chipperfield “progettare architetture che siano parte di un panorama quotidiano è sicuramente una bella sfida, molto più rischiosa e affascinante della creazione di un maxigrattacielo”.
foto di sergio pirrone, matteo vercelloni
testo di matteo vercelloni - [gallery ids="7710,7711,7712,7713,7714,7715,7716,7717,7718,7719,7720,7721,7722,7723,7724"]Come, con la crisi economica si è detto basta agli eccessi finanziari è arrivato il momento di fermare anche gli eccessi degli architetti […] troppo spesso, ultimamente, gli architetti sono stati chiamati come maître patissier a preparare la torta di nozze del padrone di casa, ossia del committente. Che identifica nell’architetto lo specialista che, al meglio, attraverso un edificio può pubblicizzare il suo nome o il suo marchio. Che, di per sé, non è una colpa. Però quando a Michelangelo fu affidato l’incarico per la cupola di San Pietro era sì un’operazione di ‘promozione’ del papato, ma al contempo una renovatio urbis”. Le affermazioni di David Chipperfield, in parte rese esplicite dalla sua Biennale di Architettura, non lasciano spazio al dubbio: è tempo di ritornare a intendere l’architettura come una disciplina complessa che si confronta con la storia e la memoria, con le città e i suoi cittadini e che, come affermava Aldo Rossi è da assumere come “opera d’arte collettiva”. La 13a Biennale di architettura veneziana nella sua molteplice rassegna di punti di vista tende a consegnarci tale messaggio senza mortificare o ridurre le specifiche poetiche e le singole espressioni di ogni architetto che però cercano di offrirsi come occasione di confronto più che come momento di presentazione professionale. Molti sono i temi che si possono rintracciare nella visita alla mostra tra le Corderie e i Giardini, alcuni sottolineano le intenzioni iniziali: partecipazione civile, riuso e sostenibilità, presenza della storia, progetti condivisi, senso e uso della città e dei suoi spazi, valore del paesaggio come risorsa strategica. Non si tratta tuttavia della celebrazione del tramonto della figura dell’archistar, piuttosto di individuare percorsi che leghino il progetto di architettura al suo senso urbano, per estendersi a volte alla scala territoriale come macrostrutture abitate (è il caso del progetto dei ponti architettonici per Stoccolma, pensati da Jean Nouvel e Mia Hägg per unire il centro storico di Gamla Stan all’isola più a sud della città; o all’avveniristico Global Hub AIR+PORT dello studio BIG/ Bjarke Ingels Group, sperimentale sintesi tipologica tra un aeroporto galleggiante e un porto navale previsto tra i ghiacci della Groenlandia a Nuuk). In generale in tutta la mostra si respira aria di complessità e questo può indurre a rendere più difficile e sfuggente il messaggio che non vuole essere di tipo ‘spettacolare’, ma fondativo. La camera scura di Norman Foster, Gateway, che accoglie i visitatori alle spalle dell’ingresso funge in fondo da manifesto introduttivo con la ‘storia’ proiettata sul pavimento nero nella forma di disegni, nomi dei protagonisti della cultura architettonica, messaggi, che si confrontano con lo spazio storico e contemporaneo dei raduni collettivi offerto da un serrato ritmo di immagini proiettate che ci avvolgono in alto, sui quattro lati delle pareti. Ordine e disordine per capire l’uso dell’architettura che a volte appare ‘improprio’, ma allo stesso tempo inarrestabile e spontaneo. Come appunto quello che avviene in uno dei monumenti architettonici contemporanei di Hong Kong: la Bank of China dello stesso Foster (in mostra ai Giardini) il cui piano terreno, pensato come ‘luogo pubblico’ e di passaggio sin dalla sua inaugurazione, si trasforma ogni domenica in una sorta di centro d’incontro della comunità delle colf filippine che, frammentandolo in microspazi con temporanei setti di cartone, attiva una straordinaria e pacifica varietà di attività sociali. In altro modo la riappropriazione di spazi urbani è rappresentata dal caso della Torre David a Caracas rappresentato dall’allestimento a cura di Urban Think Tank (Leone d’Oro quale miglior progetto della Mostra internazionale). Una torre per uffici rimasta incompleta è diventata una favela verticale nel centro urbano, simbolo del fallimento del neoliberismo e del self-empowerment delle classi povere, formando una nuova comunità spontanea, “modello ispiratore che riconosce la forza delle associazioni informali” (dalle motivazioni della Giuria), che ne ha trasformato gli spazi in una nuova casa collettiva con una propria identità. Valori di appartenenza restituiti dal progetto in mostra nella forma del ristorante di fantasia Gran Horizonte (punto d’incontro e di sosta lungo il percorso delle corderie) e dalla serie di fotografie di Iwan Baan che documentano momenti di vita della comunità spontanea. Partecipazione e tensione verso lo sviluppo urbano ‘dal basso’ sono testimoniati anche dalla ricerca di Elke Krasny, Hand –On Urbanism 1850-2012, e dal padiglione degli Stati Uniti d’America con il suo Spontaneous Interventions: Design Actions for the Common Good (menzione speciale della Giuria), dove una selezione di progetti ad opera di architetti, designer, urbanisti e semplici cittadini, configurano un mosaico di idee, proposte e realizzazioni, tese a “espandere la bellezza, il benessere, la funzionalità, la sicurezza e la sostenibilità delle città [dove] sperimentale, informale, alternativo, spontaneo, improvvisato, partecipativo, migliorativo, sono soltanto alcune delle parole che sono usate per descrivere questo movimento che si sta diffondendo sempre più a livello internazionale”. Ma dove forse al meglio si restituisce lo slogan del Commun Ground della Biennale veneziana è nell’Architecture possible here? Home-for-all del padiglione Giapponese (a cura di Toyo Ito, con allestimento di Akihisha Hirata, Sou Fujimoto, Kumiko Inui, Leone d’Oro per la migliore partecipazione nazionale), in cui la collaborazione e il confronto con la popolazione colpita dallo tsunami ha portato alla definizione di un nuovo centro d’incontro con la comunità locale, primo step di un programma in grado di generare la ‘voglia di casa’ in una regione devastata da una catastrofe nazionale. Tra uno sguardo alla storia e la ricerca di un confronto con il passato in termini attuali (l’omaggio alla magia compositiva dell’architetto barocco inglese Nicholas Hawksmoor, la bella mostra Facecity di Fulvio Irace dedicata al paesaggio urbano milanese del secondo dopoguerra, il Pasticcio di Caruso St. John teso a rintracciare una “continuità tra l’architettura contemporanea e quella antecedente al modernismo”, i ‘ritratti’ dei padiglioni della Biennale di Gabriele Basilico nell’allestimento di Diener & Diener, le radici storiche dichiarate da parte della ricerca sulla forma algoritmica di Zaha Hadid) i temi legati alla sostenibilità e al riuso sono emersi in più occasioni. Reduce/Reuse/Recycle – Architecture as Resource è il titolo-programma della Germania dove si dichiara apertamente che ogni costruzione è una risorsa con cui confrontarsi abbandonando la serialità tardo modernista della demolizione-progetto-ricostruzione; “secondo la logica di Reduce/Reuse/Recycle diverse strategie di ristrutturazione si possono classificare in base al rapporto fra vecchio e nuovo, fra l’intensità dell’intervento e il livello di modificazione. Trattando l’architettura edificata come una risorsa sostanziale e formale, si rende disponibile un’ampia gamma di possibilità e di approcci”. All’idea di sviluppo di una nuova consapevolezza rispetto al paesaggio urbano che ci circonda si riferisce anche la Svizzera, mentre la Russia, con i-city a cura di Sergei Tchoban (menzione speciale per l’allestimento e il tema trattato), dedica il suo padiglione, rivestito da pannelli metallici serigrafati da codici QR interattivi con tablet dati ai visitatori all’ingresso, al nuovo paesaggio in divenire del Centro d’innovazione di Skolkovo letto in rapporto alla storia delle città della scienza del Paese. Il verde, superata ogni dimensione semplicemente estetica, diventa fattore simbolico nel bosco di felci del Padiglione Italia di Luca Zevi che, oltre a sottolineare il valore dell’architettura per la produzione, emersa forse in modo inconsapevole dal solco della lezione di Adriano Olivetti, ci ricorda il valore del territorio e la necessità del suo mantenimento e gestione, oggi sempre più in abbandono anche in relazione alla flessione delle coltivazioni agricole (presidio di gestione del paesaggio in senso lato). Mentre ancora il verde (tradotto in piantumazioni di canne comuni) diventa strumento di riqualificazione strutturale nella prima partecipazione dell’Angola. In Beyond Entropy Angola, a cura di Stefano Rabolli Pansera e Paula Nascimento, si affronta il caso delle aree di conurbazione senza urbanità di Luanda, città ad alta densità senza avere però edifici a più livelli. In questa crescita esponenziale dell’occupazione del suolo, nella mancanza totale di infrastrutture basilari, l’idea di piantumare gli spazi interstiziali tra le costruzioni con la canna comune (Arundo Donax) che cresce anche lungo i nostri fiumi, permette di trasformare il ‘verde’ o meglio il paesaggio in strumento di riqualificazione operativo a breve periodo: la canna cresce con grande rapidità (raggiungerà a fine novembre il soffitto dello spazio all’isola di San Giorgio dove è ospitato l’allestimento) e i filamenti finissimi del suo rizoma alla radice filtrano in modo naturale le acque sporche, mentre il fusto rigido assorbe grandi quantità di CO2 rendendolo ideale per la biomassa. Quello proposto è un modello urbanistico sostenibile in grado di diventare esempio-guida per i Paesi sub-sahariani. Non mancano nella mostra allestimenti ‘hot spot’, emergenti dal punto di vista della presenza architettonica e scenica, tra cui la struttura metallica Arum di Zaha Hadid, e l’allestimento Copycat di Cino Zucchi (menzione d’onore) metafora di una sommatoria architettonica e allo stesso tempo luogo di memorie domestiche, di oggetti e immagini in grado di produrre efficaci rimandi di scala, di abitudini e usi. Nei pressi del Giardino delle Vergini si fronteggiano infine le due architetture di Alvaro Siza e di Eduardo Souto de Moura rapportate alla densità dell’ambiente urbano veneziano la prima e al paesaggio dell’intorno, incorniciato dalle sue aperture e rapporti di spazi, il secondo. Una mostra che racconta temi, che delinea possibili percorsi, più che mostrare la magnificenza e la spettacolarità di opere singole. D’altra parte come ci ricorda lo stesso Chipperfield “progettare architetture che siano parte di un panorama quotidiano è sicuramente una bella sfida, molto più rischiosa e affascinante della creazione di un maxigrattacielo”.
foto di sergio pirrone, matteo vercelloni
testo di matteo vercelloni - [gallery ids="7710,7711,7712,7713,7714,7715,7716,7717,7718,7719,7720,7721,7722,7723,7724"]Come, con la crisi economica si è detto basta agli eccessi finanziari è arrivato il momento di fermare anche gli eccessi degli architetti […] troppo spesso, ultimamente, gli architetti sono stati chiamati come maître patissier a preparare la torta di nozze del padrone di casa, ossia del committente. Che identifica nell’architetto lo specialista che, al meglio, attraverso un edificio può pubblicizzare il suo nome o il suo marchio. Che, di per sé, non è una colpa. Però quando a Michelangelo fu affidato l’incarico per la cupola di San Pietro era sì un’operazione di ‘promozione’ del papato, ma al contempo una renovatio urbis”. Le affermazioni di David Chipperfield, in parte rese esplicite dalla sua Biennale di Architettura, non lasciano spazio al dubbio: è tempo di ritornare a intendere l’architettura come una disciplina complessa che si confronta con la storia e la memoria, con le città e i suoi cittadini e che, come affermava Aldo Rossi è da assumere come “opera d’arte collettiva”. La 13a Biennale di architettura veneziana nella sua molteplice rassegna di punti di vista tende a consegnarci tale messaggio senza mortificare o ridurre le specifiche poetiche e le singole espressioni di ogni architetto che però cercano di offrirsi come occasione di confronto più che come momento di presentazione professionale. Molti sono i temi che si possono rintracciare nella visita alla mostra tra le Corderie e i Giardini, alcuni sottolineano le intenzioni iniziali: partecipazione civile, riuso e sostenibilità, presenza della storia, progetti condivisi, senso e uso della città e dei suoi spazi, valore del paesaggio come risorsa strategica. Non si tratta tuttavia della celebrazione del tramonto della figura dell’archistar, piuttosto di individuare percorsi che leghino il progetto di architettura al suo senso urbano, per estendersi a volte alla scala territoriale come macrostrutture abitate (è il caso del progetto dei ponti architettonici per Stoccolma, pensati da Jean Nouvel e Mia Hägg per unire il centro storico di Gamla Stan all’isola più a sud della città; o all’avveniristico Global Hub AIR+PORT dello studio BIG/ Bjarke Ingels Group, sperimentale sintesi tipologica tra un aeroporto galleggiante e un porto navale previsto tra i ghiacci della Groenlandia a Nuuk). In generale in tutta la mostra si respira aria di complessità e questo può indurre a rendere più difficile e sfuggente il messaggio che non vuole essere di tipo ‘spettacolare’, ma fondativo. La camera scura di Norman Foster, Gateway, che accoglie i visitatori alle spalle dell’ingresso funge in fondo da manifesto introduttivo con la ‘storia’ proiettata sul pavimento nero nella forma di disegni, nomi dei protagonisti della cultura architettonica, messaggi, che si confrontano con lo spazio storico e contemporaneo dei raduni collettivi offerto da un serrato ritmo di immagini proiettate che ci avvolgono in alto, sui quattro lati delle pareti. Ordine e disordine per capire l’uso dell’architettura che a volte appare ‘improprio’, ma allo stesso tempo inarrestabile e spontaneo. Come appunto quello che avviene in uno dei monumenti architettonici contemporanei di Hong Kong: la Bank of China dello stesso Foster (in mostra ai Giardini) il cui piano terreno, pensato come ‘luogo pubblico’ e di passaggio sin dalla sua inaugurazione, si trasforma ogni domenica in una sorta di centro d’incontro della comunità delle colf filippine che, frammentandolo in microspazi con temporanei setti di cartone, attiva una straordinaria e pacifica varietà di attività sociali. In altro modo la riappropriazione di spazi urbani è rappresentata dal caso della Torre David a Caracas rappresentato dall’allestimento a cura di Urban Think Tank (Leone d’Oro quale miglior progetto della Mostra internazionale). Una torre per uffici rimasta incompleta è diventata una favela verticale nel centro urbano, simbolo del fallimento del neoliberismo e del self-empowerment delle classi povere, formando una nuova comunità spontanea, “modello ispiratore che riconosce la forza delle associazioni informali” (dalle motivazioni della Giuria), che ne ha trasformato gli spazi in una nuova casa collettiva con una propria identità. Valori di appartenenza restituiti dal progetto in mostra nella forma del ristorante di fantasia Gran Horizonte (punto d’incontro e di sosta lungo il percorso delle corderie) e dalla serie di fotografie di Iwan Baan che documentano momenti di vita della comunità spontanea. Partecipazione e tensione verso lo sviluppo urbano ‘dal basso’ sono testimoniati anche dalla ricerca di Elke Krasny, Hand –On Urbanism 1850-2012, e dal padiglione degli Stati Uniti d’America con il suo Spontaneous Interventions: Design Actions for the Common Good (menzione speciale della Giuria), dove una selezione di progetti ad opera di architetti, designer, urbanisti e semplici cittadini, configurano un mosaico di idee, proposte e realizzazioni, tese a “espandere la bellezza, il benessere, la funzionalità, la sicurezza e la sostenibilità delle città [dove] sperimentale, informale, alternativo, spontaneo, improvvisato, partecipativo, migliorativo, sono soltanto alcune delle parole che sono usate per descrivere questo movimento che si sta diffondendo sempre più a livello internazionale”. Ma dove forse al meglio si restituisce lo slogan del Commun Ground della Biennale veneziana è nell’Architecture possible here? Home-for-all del padiglione Giapponese (a cura di Toyo Ito, con allestimento di Akihisha Hirata, Sou Fujimoto, Kumiko Inui, Leone d’Oro per la migliore partecipazione nazionale), in cui la collaborazione e il confronto con la popolazione colpita dallo tsunami ha portato alla definizione di un nuovo centro d’incontro con la comunità locale, primo step di un programma in grado di generare la ‘voglia di casa’ in una regione devastata da una catastrofe nazionale. Tra uno sguardo alla storia e la ricerca di un confronto con il passato in termini attuali (l’omaggio alla magia compositiva dell’architetto barocco inglese Nicholas Hawksmoor, la bella mostra Facecity di Fulvio Irace dedicata al paesaggio urbano milanese del secondo dopoguerra, il Pasticcio di Caruso St. John teso a rintracciare una “continuità tra l’architettura contemporanea e quella antecedente al modernismo”, i ‘ritratti’ dei padiglioni della Biennale di Gabriele Basilico nell’allestimento di Diener & Diener, le radici storiche dichiarate da parte della ricerca sulla forma algoritmica di Zaha Hadid) i temi legati alla sostenibilità e al riuso sono emersi in più occasioni. Reduce/Reuse/Recycle – Architecture as Resource è il titolo-programma della Germania dove si dichiara apertamente che ogni costruzione è una risorsa con cui confrontarsi abbandonando la serialità tardo modernista della demolizione-progetto-ricostruzione; “secondo la logica di Reduce/Reuse/Recycle diverse strategie di ristrutturazione si possono classificare in base al rapporto fra vecchio e nuovo, fra l’intensità dell’intervento e il livello di modificazione. Trattando l’architettura edificata come una risorsa sostanziale e formale, si rende disponibile un’ampia gamma di possibilità e di approcci”. All’idea di sviluppo di una nuova consapevolezza rispetto al paesaggio urbano che ci circonda si riferisce anche la Svizzera, mentre la Russia, con i-city a cura di Sergei Tchoban (menzione speciale per l’allestimento e il tema trattato), dedica il suo padiglione, rivestito da pannelli metallici serigrafati da codici QR interattivi con tablet dati ai visitatori all’ingresso, al nuovo paesaggio in divenire del Centro d’innovazione di Skolkovo letto in rapporto alla storia delle città della scienza del Paese. Il verde, superata ogni dimensione semplicemente estetica, diventa fattore simbolico nel bosco di felci del Padiglione Italia di Luca Zevi che, oltre a sottolineare il valore dell’architettura per la produzione, emersa forse in modo inconsapevole dal solco della lezione di Adriano Olivetti, ci ricorda il valore del territorio e la necessità del suo mantenimento e gestione, oggi sempre più in abbandono anche in relazione alla flessione delle coltivazioni agricole (presidio di gestione del paesaggio in senso lato). Mentre ancora il verde (tradotto in piantumazioni di canne comuni) diventa strumento di riqualificazione strutturale nella prima partecipazione dell’Angola. In Beyond Entropy Angola, a cura di Stefano Rabolli Pansera e Paula Nascimento, si affronta il caso delle aree di conurbazione senza urbanità di Luanda, città ad alta densità senza avere però edifici a più livelli. In questa crescita esponenziale dell’occupazione del suolo, nella mancanza totale di infrastrutture basilari, l’idea di piantumare gli spazi interstiziali tra le costruzioni con la canna comune (Arundo Donax) che cresce anche lungo i nostri fiumi, permette di trasformare il ‘verde’ o meglio il paesaggio in strumento di riqualificazione operativo a breve periodo: la canna cresce con grande rapidità (raggiungerà a fine novembre il soffitto dello spazio all’isola di San Giorgio dove è ospitato l’allestimento) e i filamenti finissimi del suo rizoma alla radice filtrano in modo naturale le acque sporche, mentre il fusto rigido assorbe grandi quantità di CO2 rendendolo ideale per la biomassa. Quello proposto è un modello urbanistico sostenibile in grado di diventare esempio-guida per i Paesi sub-sahariani. Non mancano nella mostra allestimenti ‘hot spot’, emergenti dal punto di vista della presenza architettonica e scenica, tra cui la struttura metallica Arum di Zaha Hadid, e l’allestimento Copycat di Cino Zucchi (menzione d’onore) metafora di una sommatoria architettonica e allo stesso tempo luogo di memorie domestiche, di oggetti e immagini in grado di produrre efficaci rimandi di scala, di abitudini e usi. Nei pressi del Giardino delle Vergini si fronteggiano infine le due architetture di Alvaro Siza e di Eduardo Souto de Moura rapportate alla densità dell’ambiente urbano veneziano la prima e al paesaggio dell’intorno, incorniciato dalle sue aperture e rapporti di spazi, il secondo. Una mostra che racconta temi, che delinea possibili percorsi, più che mostrare la magnificenza e la spettacolarità di opere singole. D’altra parte come ci ricorda lo stesso Chipperfield “progettare architetture che siano parte di un panorama quotidiano è sicuramente una bella sfida, molto più rischiosa e affascinante della creazione di un maxigrattacielo”.
foto di sergio pirrone, matteo vercelloni
testo di matteo vercelloni - [gallery ids="7710,7711,7712,7713,7714,7715,7716,7717,7718,7719,7720,7721,7722,7723,7724"]Come, con la crisi economica si è detto basta agli eccessi finanziari è arrivato il momento di fermare anche gli eccessi degli architetti […] troppo spesso, ultimamente, gli architetti sono stati chiamati come maître patissier a preparare la torta di nozze del padrone di casa, ossia del committente. Che identifica nell’architetto lo specialista che, al meglio, attraverso un edificio può pubblicizzare il suo nome o il suo marchio. Che, di per sé, non è una colpa. Però quando a Michelangelo fu affidato l’incarico per la cupola di San Pietro era sì un’operazione di ‘promozione’ del papato, ma al contempo una renovatio urbis”. Le affermazioni di David Chipperfield, in parte rese esplicite dalla sua Biennale di Architettura, non lasciano spazio al dubbio: è tempo di ritornare a intendere l’architettura come una disciplina complessa che si confronta con la storia e la memoria, con le città e i suoi cittadini e che, come affermava Aldo Rossi è da assumere come “opera d’arte collettiva”. La 13a Biennale di architettura veneziana nella sua molteplice rassegna di punti di vista tende a consegnarci tale messaggio senza mortificare o ridurre le specifiche poetiche e le singole espressioni di ogni architetto che però cercano di offrirsi come occasione di confronto più che come momento di presentazione professionale. Molti sono i temi che si possono rintracciare nella visita alla mostra tra le Corderie e i Giardini, alcuni sottolineano le intenzioni iniziali: partecipazione civile, riuso e sostenibilità, presenza della storia, progetti condivisi, senso e uso della città e dei suoi spazi, valore del paesaggio come risorsa strategica. Non si tratta tuttavia della celebrazione del tramonto della figura dell’archistar, piuttosto di individuare percorsi che leghino il progetto di architettura al suo senso urbano, per estendersi a volte alla scala territoriale come macrostrutture abitate (è il caso del progetto dei ponti architettonici per Stoccolma, pensati da Jean Nouvel e Mia Hägg per unire il centro storico di Gamla Stan all’isola più a sud della città; o all’avveniristico Global Hub AIR+PORT dello studio BIG/ Bjarke Ingels Group, sperimentale sintesi tipologica tra un aeroporto galleggiante e un porto navale previsto tra i ghiacci della Groenlandia a Nuuk). In generale in tutta la mostra si respira aria di complessità e questo può indurre a rendere più difficile e sfuggente il messaggio che non vuole essere di tipo ‘spettacolare’, ma fondativo. La camera scura di Norman Foster, Gateway, che accoglie i visitatori alle spalle dell’ingresso funge in fondo da manifesto introduttivo con la ‘storia’ proiettata sul pavimento nero nella forma di disegni, nomi dei protagonisti della cultura architettonica, messaggi, che si confrontano con lo spazio storico e contemporaneo dei raduni collettivi offerto da un serrato ritmo di immagini proiettate che ci avvolgono in alto, sui quattro lati delle pareti. Ordine e disordine per capire l’uso dell’architettura che a volte appare ‘improprio’, ma allo stesso tempo inarrestabile e spontaneo. Come appunto quello che avviene in uno dei monumenti architettonici contemporanei di Hong Kong: la Bank of China dello stesso Foster (in mostra ai Giardini) il cui piano terreno, pensato come ‘luogo pubblico’ e di passaggio sin dalla sua inaugurazione, si trasforma ogni domenica in una sorta di centro d’incontro della comunità delle colf filippine che, frammentandolo in microspazi con temporanei setti di cartone, attiva una straordinaria e pacifica varietà di attività sociali. In altro modo la riappropriazione di spazi urbani è rappresentata dal caso della Torre David a Caracas rappresentato dall’allestimento a cura di Urban Think Tank (Leone d’Oro quale miglior progetto della Mostra internazionale). Una torre per uffici rimasta incompleta è diventata una favela verticale nel centro urbano, simbolo del fallimento del neoliberismo e del self-empowerment delle classi povere, formando una nuova comunità spontanea, “modello ispiratore che riconosce la forza delle associazioni informali” (dalle motivazioni della Giuria), che ne ha trasformato gli spazi in una nuova casa collettiva con una propria identità. Valori di appartenenza restituiti dal progetto in mostra nella forma del ristorante di fantasia Gran Horizonte (punto d’incontro e di sosta lungo il percorso delle corderie) e dalla serie di fotografie di Iwan Baan che documentano momenti di vita della comunità spontanea. Partecipazione e tensione verso lo sviluppo urbano ‘dal basso’ sono testimoniati anche dalla ricerca di Elke Krasny, Hand –On Urbanism 1850-2012, e dal padiglione degli Stati Uniti d’America con il suo Spontaneous Interventions: Design Actions for the Common Good (menzione speciale della Giuria), dove una selezione di progetti ad opera di architetti, designer, urbanisti e semplici cittadini, configurano un mosaico di idee, proposte e realizzazioni, tese a “espandere la bellezza, il benessere, la funzionalità, la sicurezza e la sostenibilità delle città [dove] sperimentale, informale, alternativo, spontaneo, improvvisato, partecipativo, migliorativo, sono soltanto alcune delle parole che sono usate per descrivere questo movimento che si sta diffondendo sempre più a livello internazionale”. Ma dove forse al meglio si restituisce lo slogan del Commun Ground della Biennale veneziana è nell’Architecture possible here? Home-for-all del padiglione Giapponese (a cura di Toyo Ito, con allestimento di Akihisha Hirata, Sou Fujimoto, Kumiko Inui, Leone d’Oro per la migliore partecipazione nazionale), in cui la collaborazione e il confronto con la popolazione colpita dallo tsunami ha portato alla definizione di un nuovo centro d’incontro con la comunità locale, primo step di un programma in grado di generare la ‘voglia di casa’ in una regione devastata da una catastrofe nazionale. Tra uno sguardo alla storia e la ricerca di un confronto con il passato in termini attuali (l’omaggio alla magia compositiva dell’architetto barocco inglese Nicholas Hawksmoor, la bella mostra Facecity di Fulvio Irace dedicata al paesaggio urbano milanese del secondo dopoguerra, il Pasticcio di Caruso St. John teso a rintracciare una “continuità tra l’architettura contemporanea e quella antecedente al modernismo”, i ‘ritratti’ dei padiglioni della Biennale di Gabriele Basilico nell’allestimento di Diener & Diener, le radici storiche dichiarate da parte della ricerca sulla forma algoritmica di Zaha Hadid) i temi legati alla sostenibilità e al riuso sono emersi in più occasioni. Reduce/Reuse/Recycle – Architecture as Resource è il titolo-programma della Germania dove si dichiara apertamente che ogni costruzione è una risorsa con cui confrontarsi abbandonando la serialità tardo modernista della demolizione-progetto-ricostruzione; “secondo la logica di Reduce/Reuse/Recycle diverse strategie di ristrutturazione si possono classificare in base al rapporto fra vecchio e nuovo, fra l’intensità dell’intervento e il livello di modificazione. Trattando l’architettura edificata come una risorsa sostanziale e formale, si rende disponibile un’ampia gamma di possibilità e di approcci”. All’idea di sviluppo di una nuova consapevolezza rispetto al paesaggio urbano che ci circonda si riferisce anche la Svizzera, mentre la Russia, con i-city a cura di Sergei Tchoban (menzione speciale per l’allestimento e il tema trattato), dedica il suo padiglione, rivestito da pannelli metallici serigrafati da codici QR interattivi con tablet dati ai visitatori all’ingresso, al nuovo paesaggio in divenire del Centro d’innovazione di Skolkovo letto in rapporto alla storia delle città della scienza del Paese. Il verde, superata ogni dimensione semplicemente estetica, diventa fattore simbolico nel bosco di felci del Padiglione Italia di Luca Zevi che, oltre a sottolineare il valore dell’architettura per la produzione, emersa forse in modo inconsapevole dal solco della lezione di Adriano Olivetti, ci ricorda il valore del territorio e la necessità del suo mantenimento e gestione, oggi sempre più in abbandono anche in relazione alla flessione delle coltivazioni agricole (presidio di gestione del paesaggio in senso lato). Mentre ancora il verde (tradotto in piantumazioni di canne comuni) diventa strumento di riqualificazione strutturale nella prima partecipazione dell’Angola. In Beyond Entropy Angola, a cura di Stefano Rabolli Pansera e Paula Nascimento, si affronta il caso delle aree di conurbazione senza urbanità di Luanda, città ad alta densità senza avere però edifici a più livelli. In questa crescita esponenziale dell’occupazione del suolo, nella mancanza totale di infrastrutture basilari, l’idea di piantumare gli spazi interstiziali tra le costruzioni con la canna comune (Arundo Donax) che cresce anche lungo i nostri fiumi, permette di trasformare il ‘verde’ o meglio il paesaggio in strumento di riqualificazione operativo a breve periodo: la canna cresce con grande rapidità (raggiungerà a fine novembre il soffitto dello spazio all’isola di San Giorgio dove è ospitato l’allestimento) e i filamenti finissimi del suo rizoma alla radice filtrano in modo naturale le acque sporche, mentre il fusto rigido assorbe grandi quantità di CO2 rendendolo ideale per la biomassa. Quello proposto è un modello urbanistico sostenibile in grado di diventare esempio-guida per i Paesi sub-sahariani. Non mancano nella mostra allestimenti ‘hot spot’, emergenti dal punto di vista della presenza architettonica e scenica, tra cui la struttura metallica Arum di Zaha Hadid, e l’allestimento Copycat di Cino Zucchi (menzione d’onore) metafora di una sommatoria architettonica e allo stesso tempo luogo di memorie domestiche, di oggetti e immagini in grado di produrre efficaci rimandi di scala, di abitudini e usi. Nei pressi del Giardino delle Vergini si fronteggiano infine le due architetture di Alvaro Siza e di Eduardo Souto de Moura rapportate alla densità dell’ambiente urbano veneziano la prima e al paesaggio dell’intorno, incorniciato dalle sue aperture e rapporti di spazi, il secondo. Una mostra che racconta temi, che delinea possibili percorsi, più che mostrare la magnificenza e la spettacolarità di opere singole. D’altra parte come ci ricorda lo stesso Chipperfield “progettare architetture che siano parte di un panorama quotidiano è sicuramente una bella sfida, molto più rischiosa e affascinante della creazione di un maxigrattacielo”.
foto di sergio pirrone, matteo vercelloni
testo di matteo vercelloni - [gallery ids="7710,7711,7712,7713,7714,7715,7716,7717,7718,7719,7720,7721,7722,7723,7724"]Come, con la crisi economica si è detto basta agli eccessi finanziari è arrivato il momento di fermare anche gli eccessi degli architetti […] troppo spesso, ultimamente, gli architetti sono stati chiamati come maître patissier a preparare la torta di nozze del padrone di casa, ossia del committente. Che identifica nell’architetto lo specialista che, al meglio, attraverso un edificio può pubblicizzare il suo nome o il suo marchio. Che, di per sé, non è una colpa. Però quando a Michelangelo fu affidato l’incarico per la cupola di San Pietro era sì un’operazione di ‘promozione’ del papato, ma al contempo una renovatio urbis”. Le affermazioni di David Chipperfield, in parte rese esplicite dalla sua Biennale di Architettura, non lasciano spazio al dubbio: è tempo di ritornare a intendere l’architettura come una disciplina complessa che si confronta con la storia e la memoria, con le città e i suoi cittadini e che, come affermava Aldo Rossi è da assumere come “opera d’arte collettiva”. La 13a Biennale di architettura veneziana nella sua molteplice rassegna di punti di vista tende a consegnarci tale messaggio senza mortificare o ridurre le specifiche poetiche e le singole espressioni di ogni architetto che però cercano di offrirsi come occasione di confronto più che come momento di presentazione professionale. Molti sono i temi che si possono rintracciare nella visita alla mostra tra le Corderie e i Giardini, alcuni sottolineano le intenzioni iniziali: partecipazione civile, riuso e sostenibilità, presenza della storia, progetti condivisi, senso e uso della città e dei suoi spazi, valore del paesaggio come risorsa strategica. Non si tratta tuttavia della celebrazione del tramonto della figura dell’archistar, piuttosto di individuare percorsi che leghino il progetto di architettura al suo senso urbano, per estendersi a volte alla scala territoriale come macrostrutture abitate (è il caso del progetto dei ponti architettonici per Stoccolma, pensati da Jean Nouvel e Mia Hägg per unire il centro storico di Gamla Stan all’isola più a sud della città; o all’avveniristico Global Hub AIR+PORT dello studio BIG/ Bjarke Ingels Group, sperimentale sintesi tipologica tra un aeroporto galleggiante e un porto navale previsto tra i ghiacci della Groenlandia a Nuuk). In generale in tutta la mostra si respira aria di complessità e questo può indurre a rendere più difficile e sfuggente il messaggio che non vuole essere di tipo ‘spettacolare’, ma fondativo. La camera scura di Norman Foster, Gateway, che accoglie i visitatori alle spalle dell’ingresso funge in fondo da manifesto introduttivo con la ‘storia’ proiettata sul pavimento nero nella forma di disegni, nomi dei protagonisti della cultura architettonica, messaggi, che si confrontano con lo spazio storico e contemporaneo dei raduni collettivi offerto da un serrato ritmo di immagini proiettate che ci avvolgono in alto, sui quattro lati delle pareti. Ordine e disordine per capire l’uso dell’architettura che a volte appare ‘improprio’, ma allo stesso tempo inarrestabile e spontaneo. Come appunto quello che avviene in uno dei monumenti architettonici contemporanei di Hong Kong: la Bank of China dello stesso Foster (in mostra ai Giardini) il cui piano terreno, pensato come ‘luogo pubblico’ e di passaggio sin dalla sua inaugurazione, si trasforma ogni domenica in una sorta di centro d’incontro della comunità delle colf filippine che, frammentandolo in microspazi con temporanei setti di cartone, attiva una straordinaria e pacifica varietà di attività sociali. In altro modo la riappropriazione di spazi urbani è rappresentata dal caso della Torre David a Caracas rappresentato dall’allestimento a cura di Urban Think Tank (Leone d’Oro quale miglior progetto della Mostra internazionale). Una torre per uffici rimasta incompleta è diventata una favela verticale nel centro urbano, simbolo del fallimento del neoliberismo e del self-empowerment delle classi povere, formando una nuova comunità spontanea, “modello ispiratore che riconosce la forza delle associazioni informali” (dalle motivazioni della Giuria), che ne ha trasformato gli spazi in una nuova casa collettiva con una propria identità. Valori di appartenenza restituiti dal progetto in mostra nella forma del ristorante di fantasia Gran Horizonte (punto d’incontro e di sosta lungo il percorso delle corderie) e dalla serie di fotografie di Iwan Baan che documentano momenti di vita della comunità spontanea. Partecipazione e tensione verso lo sviluppo urbano ‘dal basso’ sono testimoniati anche dalla ricerca di Elke Krasny, Hand –On Urbanism 1850-2012, e dal padiglione degli Stati Uniti d’America con il suo Spontaneous Interventions: Design Actions for the Common Good (menzione speciale della Giuria), dove una selezione di progetti ad opera di architetti, designer, urbanisti e semplici cittadini, configurano un mosaico di idee, proposte e realizzazioni, tese a “espandere la bellezza, il benessere, la funzionalità, la sicurezza e la sostenibilità delle città [dove] sperimentale, informale, alternativo, spontaneo, improvvisato, partecipativo, migliorativo, sono soltanto alcune delle parole che sono usate per descrivere questo movimento che si sta diffondendo sempre più a livello internazionale”. Ma dove forse al meglio si restituisce lo slogan del Commun Ground della Biennale veneziana è nell’Architecture possible here? Home-for-all del padiglione Giapponese (a cura di Toyo Ito, con allestimento di Akihisha Hirata, Sou Fujimoto, Kumiko Inui, Leone d’Oro per la migliore partecipazione nazionale), in cui la collaborazione e il confronto con la popolazione colpita dallo tsunami ha portato alla definizione di un nuovo centro d’incontro con la comunità locale, primo step di un programma in grado di generare la ‘voglia di casa’ in una regione devastata da una catastrofe nazionale. Tra uno sguardo alla storia e la ricerca di un confronto con il passato in termini attuali (l’omaggio alla magia compositiva dell’architetto barocco inglese Nicholas Hawksmoor, la bella mostra Facecity di Fulvio Irace dedicata al paesaggio urbano milanese del secondo dopoguerra, il Pasticcio di Caruso St. John teso a rintracciare una “continuità tra l’architettura contemporanea e quella antecedente al modernismo”, i ‘ritratti’ dei padiglioni della Biennale di Gabriele Basilico nell’allestimento di Diener & Diener, le radici storiche dichiarate da parte della ricerca sulla forma algoritmica di Zaha Hadid) i temi legati alla sostenibilità e al riuso sono emersi in più occasioni. Reduce/Reuse/Recycle – Architecture as Resource è il titolo-programma della Germania dove si dichiara apertamente che ogni costruzione è una risorsa con cui confrontarsi abbandonando la serialità tardo modernista della demolizione-progetto-ricostruzione; “secondo la logica di Reduce/Reuse/Recycle diverse strategie di ristrutturazione si possono classificare in base al rapporto fra vecchio e nuovo, fra l’intensità dell’intervento e il livello di modificazione. Trattando l’architettura edificata come una risorsa sostanziale e formale, si rende disponibile un’ampia gamma di possibilità e di approcci”. All’idea di sviluppo di una nuova consapevolezza rispetto al paesaggio urbano che ci circonda si riferisce anche la Svizzera, mentre la Russia, con i-city a cura di Sergei Tchoban (menzione speciale per l’allestimento e il tema trattato), dedica il suo padiglione, rivestito da pannelli metallici serigrafati da codici QR interattivi con tablet dati ai visitatori all’ingresso, al nuovo paesaggio in divenire del Centro d’innovazione di Skolkovo letto in rapporto alla storia delle città della scienza del Paese. Il verde, superata ogni dimensione semplicemente estetica, diventa fattore simbolico nel bosco di felci del Padiglione Italia di Luca Zevi che, oltre a sottolineare il valore dell’architettura per la produzione, emersa forse in modo inconsapevole dal solco della lezione di Adriano Olivetti, ci ricorda il valore del territorio e la necessità del suo mantenimento e gestione, oggi sempre più in abbandono anche in relazione alla flessione delle coltivazioni agricole (presidio di gestione del paesaggio in senso lato). Mentre ancora il verde (tradotto in piantumazioni di canne comuni) diventa strumento di riqualificazione strutturale nella prima partecipazione dell’Angola. In Beyond Entropy Angola, a cura di Stefano Rabolli Pansera e Paula Nascimento, si affronta il caso delle aree di conurbazione senza urbanità di Luanda, città ad alta densità senza avere però edifici a più livelli. In questa crescita esponenziale dell’occupazione del suolo, nella mancanza totale di infrastrutture basilari, l’idea di piantumare gli spazi interstiziali tra le costruzioni con la canna comune (Arundo Donax) che cresce anche lungo i nostri fiumi, permette di trasformare il ‘verde’ o meglio il paesaggio in strumento di riqualificazione operativo a breve periodo: la canna cresce con grande rapidità (raggiungerà a fine novembre il soffitto dello spazio all’isola di San Giorgio dove è ospitato l’allestimento) e i filamenti finissimi del suo rizoma alla radice filtrano in modo naturale le acque sporche, mentre il fusto rigido assorbe grandi quantità di CO2 rendendolo ideale per la biomassa. Quello proposto è un modello urbanistico sostenibile in grado di diventare esempio-guida per i Paesi sub-sahariani. Non mancano nella mostra allestimenti ‘hot spot’, emergenti dal punto di vista della presenza architettonica e scenica, tra cui la struttura metallica Arum di Zaha Hadid, e l’allestimento Copycat di Cino Zucchi (menzione d’onore) metafora di una sommatoria architettonica e allo stesso tempo luogo di memorie domestiche, di oggetti e immagini in grado di produrre efficaci rimandi di scala, di abitudini e usi. Nei pressi del Giardino delle Vergini si fronteggiano infine le due architetture di Alvaro Siza e di Eduardo Souto de Moura rapportate alla densità dell’ambiente urbano veneziano la prima e al paesaggio dell’intorno, incorniciato dalle sue aperture e rapporti di spazi, il secondo. Una mostra che racconta temi, che delinea possibili percorsi, più che mostrare la magnificenza e la spettacolarità di opere singole. D’altra parte come ci ricorda lo stesso Chipperfield “progettare architetture che siano parte di un panorama quotidiano è sicuramente una bella sfida, molto più rischiosa e affascinante della creazione di un maxigrattacielo”.
foto di sergio pirrone, matteo vercelloni
testo di matteo vercelloni - [gallery ids="7710,7711,7712,7713,7714,7715,7716,7717,7718,7719,7720,7721,7722,7723,7724"]Come, con la crisi economica si è detto basta agli eccessi finanziari è arrivato il momento di fermare anche gli eccessi degli architetti […] troppo spesso, ultimamente, gli architetti sono stati chiamati come maître patissier a preparare la torta di nozze del padrone di casa, ossia del committente. Che identifica nell’architetto lo specialista che, al meglio, attraverso un edificio può pubblicizzare il suo nome o il suo marchio. Che, di per sé, non è una colpa. Però quando a Michelangelo fu affidato l’incarico per la cupola di San Pietro era sì un’operazione di ‘promozione’ del papato, ma al contempo una renovatio urbis”. Le affermazioni di David Chipperfield, in parte rese esplicite dalla sua Biennale di Architettura, non lasciano spazio al dubbio: è tempo di ritornare a intendere l’architettura come una disciplina complessa che si confronta con la storia e la memoria, con le città e i suoi cittadini e che, come affermava Aldo Rossi è da assumere come “opera d’arte collettiva”. La 13a Biennale di architettura veneziana nella sua molteplice rassegna di punti di vista tende a consegnarci tale messaggio senza mortificare o ridurre le specifiche poetiche e le singole espressioni di ogni architetto che però cercano di offrirsi come occasione di confronto più che come momento di presentazione professionale. Molti sono i temi che si possono rintracciare nella visita alla mostra tra le Corderie e i Giardini, alcuni sottolineano le intenzioni iniziali: partecipazione civile, riuso e sostenibilità, presenza della storia, progetti condivisi, senso e uso della città e dei suoi spazi, valore del paesaggio come risorsa strategica. Non si tratta tuttavia della celebrazione del tramonto della figura dell’archistar, piuttosto di individuare percorsi che leghino il progetto di architettura al suo senso urbano, per estendersi a volte alla scala territoriale come macrostrutture abitate (è il caso del progetto dei ponti architettonici per Stoccolma, pensati da Jean Nouvel e Mia Hägg per unire il centro storico di Gamla Stan all’isola più a sud della città; o all’avveniristico Global Hub AIR+PORT dello studio BIG/ Bjarke Ingels Group, sperimentale sintesi tipologica tra un aeroporto galleggiante e un porto navale previsto tra i ghiacci della Groenlandia a Nuuk). In generale in tutta la mostra si respira aria di complessità e questo può indurre a rendere più difficile e sfuggente il messaggio che non vuole essere di tipo ‘spettacolare’, ma fondativo. La camera scura di Norman Foster, Gateway, che accoglie i visitatori alle spalle dell’ingresso funge in fondo da manifesto introduttivo con la ‘storia’ proiettata sul pavimento nero nella forma di disegni, nomi dei protagonisti della cultura architettonica, messaggi, che si confrontano con lo spazio storico e contemporaneo dei raduni collettivi offerto da un serrato ritmo di immagini proiettate che ci avvolgono in alto, sui quattro lati delle pareti. Ordine e disordine per capire l’uso dell’architettura che a volte appare ‘improprio’, ma allo stesso tempo inarrestabile e spontaneo. Come appunto quello che avviene in uno dei monumenti architettonici contemporanei di Hong Kong: la Bank of China dello stesso Foster (in mostra ai Giardini) il cui piano terreno, pensato come ‘luogo pubblico’ e di passaggio sin dalla sua inaugurazione, si trasforma ogni domenica in una sorta di centro d’incontro della comunità delle colf filippine che, frammentandolo in microspazi con temporanei setti di cartone, attiva una straordinaria e pacifica varietà di attività sociali. In altro modo la riappropriazione di spazi urbani è rappresentata dal caso della Torre David a Caracas rappresentato dall’allestimento a cura di Urban Think Tank (Leone d’Oro quale miglior progetto della Mostra internazionale). Una torre per uffici rimasta incompleta è diventata una favela verticale nel centro urbano, simbolo del fallimento del neoliberismo e del self-empowerment delle classi povere, formando una nuova comunità spontanea, “modello ispiratore che riconosce la forza delle associazioni informali” (dalle motivazioni della Giuria), che ne ha trasformato gli spazi in una nuova casa collettiva con una propria identità. Valori di appartenenza restituiti dal progetto in mostra nella forma del ristorante di fantasia Gran Horizonte (punto d’incontro e di sosta lungo il percorso delle corderie) e dalla serie di fotografie di Iwan Baan che documentano momenti di vita della comunità spontanea. Partecipazione e tensione verso lo sviluppo urbano ‘dal basso’ sono testimoniati anche dalla ricerca di Elke Krasny, Hand –On Urbanism 1850-2012, e dal padiglione degli Stati Uniti d’America con il suo Spontaneous Interventions: Design Actions for the Common Good (menzione speciale della Giuria), dove una selezione di progetti ad opera di architetti, designer, urbanisti e semplici cittadini, configurano un mosaico di idee, proposte e realizzazioni, tese a “espandere la bellezza, il benessere, la funzionalità, la sicurezza e la sostenibilità delle città [dove] sperimentale, informale, alternativo, spontaneo, improvvisato, partecipativo, migliorativo, sono soltanto alcune delle parole che sono usate per descrivere questo movimento che si sta diffondendo sempre più a livello internazionale”. Ma dove forse al meglio si restituisce lo slogan del Commun Ground della Biennale veneziana è nell’Architecture possible here? Home-for-all del padiglione Giapponese (a cura di Toyo Ito, con allestimento di Akihisha Hirata, Sou Fujimoto, Kumiko Inui, Leone d’Oro per la migliore partecipazione nazionale), in cui la collaborazione e il confronto con la popolazione colpita dallo tsunami ha portato alla definizione di un nuovo centro d’incontro con la comunità locale, primo step di un programma in grado di generare la ‘voglia di casa’ in una regione devastata da una catastrofe nazionale. Tra uno sguardo alla storia e la ricerca di un confronto con il passato in termini attuali (l’omaggio alla magia compositiva dell’architetto barocco inglese Nicholas Hawksmoor, la bella mostra Facecity di Fulvio Irace dedicata al paesaggio urbano milanese del secondo dopoguerra, il Pasticcio di Caruso St. John teso a rintracciare una “continuità tra l’architettura contemporanea e quella antecedente al modernismo”, i ‘ritratti’ dei padiglioni della Biennale di Gabriele Basilico nell’allestimento di Diener & Diener, le radici storiche dichiarate da parte della ricerca sulla forma algoritmica di Zaha Hadid) i temi legati alla sostenibilità e al riuso sono emersi in più occasioni. Reduce/Reuse/Recycle – Architecture as Resource è il titolo-programma della Germania dove si dichiara apertamente che ogni costruzione è una risorsa con cui confrontarsi abbandonando la serialità tardo modernista della demolizione-progetto-ricostruzione; “secondo la logica di Reduce/Reuse/Recycle diverse strategie di ristrutturazione si possono classificare in base al rapporto fra vecchio e nuovo, fra l’intensità dell’intervento e il livello di modificazione. Trattando l’architettura edificata come una risorsa sostanziale e formale, si rende disponibile un’ampia gamma di possibilità e di approcci”. All’idea di sviluppo di una nuova consapevolezza rispetto al paesaggio urbano che ci circonda si riferisce anche la Svizzera, mentre la Russia, con i-city a cura di Sergei Tchoban (menzione speciale per l’allestimento e il tema trattato), dedica il suo padiglione, rivestito da pannelli metallici serigrafati da codici QR interattivi con tablet dati ai visitatori all’ingresso, al nuovo paesaggio in divenire del Centro d’innovazione di Skolkovo letto in rapporto alla storia delle città della scienza del Paese. Il verde, superata ogni dimensione semplicemente estetica, diventa fattore simbolico nel bosco di felci del Padiglione Italia di Luca Zevi che, oltre a sottolineare il valore dell’architettura per la produzione, emersa forse in modo inconsapevole dal solco della lezione di Adriano Olivetti, ci ricorda il valore del territorio e la necessità del suo mantenimento e gestione, oggi sempre più in abbandono anche in relazione alla flessione delle coltivazioni agricole (presidio di gestione del paesaggio in senso lato). Mentre ancora il verde (tradotto in piantumazioni di canne comuni) diventa strumento di riqualificazione strutturale nella prima partecipazione dell’Angola. In Beyond Entropy Angola, a cura di Stefano Rabolli Pansera e Paula Nascimento, si affronta il caso delle aree di conurbazione senza urbanità di Luanda, città ad alta densità senza avere però edifici a più livelli. In questa crescita esponenziale dell’occupazione del suolo, nella mancanza totale di infrastrutture basilari, l’idea di piantumare gli spazi interstiziali tra le costruzioni con la canna comune (Arundo Donax) che cresce anche lungo i nostri fiumi, permette di trasformare il ‘verde’ o meglio il paesaggio in strumento di riqualificazione operativo a breve periodo: la canna cresce con grande rapidità (raggiungerà a fine novembre il soffitto dello spazio all’isola di San Giorgio dove è ospitato l’allestimento) e i filamenti finissimi del suo rizoma alla radice filtrano in modo naturale le acque sporche, mentre il fusto rigido assorbe grandi quantità di CO2 rendendolo ideale per la biomassa. Quello proposto è un modello urbanistico sostenibile in grado di diventare esempio-guida per i Paesi sub-sahariani. Non mancano nella mostra allestimenti ‘hot spot’, emergenti dal punto di vista della presenza architettonica e scenica, tra cui la struttura metallica Arum di Zaha Hadid, e l’allestimento Copycat di Cino Zucchi (menzione d’onore) metafora di una sommatoria architettonica e allo stesso tempo luogo di memorie domestiche, di oggetti e immagini in grado di produrre efficaci rimandi di scala, di abitudini e usi. Nei pressi del Giardino delle Vergini si fronteggiano infine le due architetture di Alvaro Siza e di Eduardo Souto de Moura rapportate alla densità dell’ambiente urbano veneziano la prima e al paesaggio dell’intorno, incorniciato dalle sue aperture e rapporti di spazi, il secondo. Una mostra che racconta temi, che delinea possibili percorsi, più che mostrare la magnificenza e la spettacolarità di opere singole. D’altra parte come ci ricorda lo stesso Chipperfield “progettare architetture che siano parte di un panorama quotidiano è sicuramente una bella sfida, molto più rischiosa e affascinante della creazione di un maxigrattacielo”.
foto di sergio pirrone, matteo vercelloni
testo di matteo vercelloni - [gallery ids="7710,7711,7712,7713,7714,7715,7716,7717,7718,7719,7720,7721,7722,7723,7724"]Come, con la crisi economica si è detto basta agli eccessi finanziari è arrivato il momento di fermare anche gli eccessi degli architetti […] troppo spesso, ultimamente, gli architetti sono stati chiamati come maître patissier a preparare la torta di nozze del padrone di casa, ossia del committente. Che identifica nell’architetto lo specialista che, al meglio, attraverso un edificio può pubblicizzare il suo nome o il suo marchio. Che, di per sé, non è una colpa. Però quando a Michelangelo fu affidato l’incarico per la cupola di San Pietro era sì un’operazione di ‘promozione’ del papato, ma al contempo una renovatio urbis”. Le affermazioni di David Chipperfield, in parte rese esplicite dalla sua Biennale di Architettura, non lasciano spazio al dubbio: è tempo di ritornare a intendere l’architettura come una disciplina complessa che si confronta con la storia e la memoria, con le città e i suoi cittadini e che, come affermava Aldo Rossi è da assumere come “opera d’arte collettiva”. La 13a Biennale di architettura veneziana nella sua molteplice rassegna di punti di vista tende a consegnarci tale messaggio senza mortificare o ridurre le specifiche poetiche e le singole espressioni di ogni architetto che però cercano di offrirsi come occasione di confronto più che come momento di presentazione professionale. Molti sono i temi che si possono rintracciare nella visita alla mostra tra le Corderie e i Giardini, alcuni sottolineano le intenzioni iniziali: partecipazione civile, riuso e sostenibilità, presenza della storia, progetti condivisi, senso e uso della città e dei suoi spazi, valore del paesaggio come risorsa strategica. Non si tratta tuttavia della celebrazione del tramonto della figura dell’archistar, piuttosto di individuare percorsi che leghino il progetto di architettura al suo senso urbano, per estendersi a volte alla scala territoriale come macrostrutture abitate (è il caso del progetto dei ponti architettonici per Stoccolma, pensati da Jean Nouvel e Mia Hägg per unire il centro storico di Gamla Stan all’isola più a sud della città; o all’avveniristico Global Hub AIR+PORT dello studio BIG/ Bjarke Ingels Group, sperimentale sintesi tipologica tra un aeroporto galleggiante e un porto navale previsto tra i ghiacci della Groenlandia a Nuuk). In generale in tutta la mostra si respira aria di complessità e questo può indurre a rendere più difficile e sfuggente il messaggio che non vuole essere di tipo ‘spettacolare’, ma fondativo. La camera scura di Norman Foster, Gateway, che accoglie i visitatori alle spalle dell’ingresso funge in fondo da manifesto introduttivo con la ‘storia’ proiettata sul pavimento nero nella forma di disegni, nomi dei protagonisti della cultura architettonica, messaggi, che si confrontano con lo spazio storico e contemporaneo dei raduni collettivi offerto da un serrato ritmo di immagini proiettate che ci avvolgono in alto, sui quattro lati delle pareti. Ordine e disordine per capire l’uso dell’architettura che a volte appare ‘improprio’, ma allo stesso tempo inarrestabile e spontaneo. Come appunto quello che avviene in uno dei monumenti architettonici contemporanei di Hong Kong: la Bank of China dello stesso Foster (in mostra ai Giardini) il cui piano terreno, pensato come ‘luogo pubblico’ e di passaggio sin dalla sua inaugurazione, si trasforma ogni domenica in una sorta di centro d’incontro della comunità delle colf filippine che, frammentandolo in microspazi con temporanei setti di cartone, attiva una straordinaria e pacifica varietà di attività sociali. In altro modo la riappropriazione di spazi urbani è rappresentata dal caso della Torre David a Caracas rappresentato dall’allestimento a cura di Urban Think Tank (Leone d’Oro quale miglior progetto della Mostra internazionale). Una torre per uffici rimasta incompleta è diventata una favela verticale nel centro urbano, simbolo del fallimento del neoliberismo e del self-empowerment delle classi povere, formando una nuova comunità spontanea, “modello ispiratore che riconosce la forza delle associazioni informali” (dalle motivazioni della Giuria), che ne ha trasformato gli spazi in una nuova casa collettiva con una propria identità. Valori di appartenenza restituiti dal progetto in mostra nella forma del ristorante di fantasia Gran Horizonte (punto d’incontro e di sosta lungo il percorso delle corderie) e dalla serie di fotografie di Iwan Baan che documentano momenti di vita della comunità spontanea. Partecipazione e tensione verso lo sviluppo urbano ‘dal basso’ sono testimoniati anche dalla ricerca di Elke Krasny, Hand –On Urbanism 1850-2012, e dal padiglione degli Stati Uniti d’America con il suo Spontaneous Interventions: Design Actions for the Common Good (menzione speciale della Giuria), dove una selezione di progetti ad opera di architetti, designer, urbanisti e semplici cittadini, configurano un mosaico di idee, proposte e realizzazioni, tese a “espandere la bellezza, il benessere, la funzionalità, la sicurezza e la sostenibilità delle città [dove] sperimentale, informale, alternativo, spontaneo, improvvisato, partecipativo, migliorativo, sono soltanto alcune delle parole che sono usate per descrivere questo movimento che si sta diffondendo sempre più a livello internazionale”. Ma dove forse al meglio si restituisce lo slogan del Commun Ground della Biennale veneziana è nell’Architecture possible here? Home-for-all del padiglione Giapponese (a cura di Toyo Ito, con allestimento di Akihisha Hirata, Sou Fujimoto, Kumiko Inui, Leone d’Oro per la migliore partecipazione nazionale), in cui la collaborazione e il confronto con la popolazione colpita dallo tsunami ha portato alla definizione di un nuovo centro d’incontro con la comunità locale, primo step di un programma in grado di generare la ‘voglia di casa’ in una regione devastata da una catastrofe nazionale. Tra uno sguardo alla storia e la ricerca di un confronto con il passato in termini attuali (l’omaggio alla magia compositiva dell’architetto barocco inglese Nicholas Hawksmoor, la bella mostra Facecity di Fulvio Irace dedicata al paesaggio urbano milanese del secondo dopoguerra, il Pasticcio di Caruso St. John teso a rintracciare una “continuità tra l’architettura contemporanea e quella antecedente al modernismo”, i ‘ritratti’ dei padiglioni della Biennale di Gabriele Basilico nell’allestimento di Diener & Diener, le radici storiche dichiarate da parte della ricerca sulla forma algoritmica di Zaha Hadid) i temi legati alla sostenibilità e al riuso sono emersi in più occasioni. Reduce/Reuse/Recycle – Architecture as Resource è il titolo-programma della Germania dove si dichiara apertamente che ogni costruzione è una risorsa con cui confrontarsi abbandonando la serialità tardo modernista della demolizione-progetto-ricostruzione; “secondo la logica di Reduce/Reuse/Recycle diverse strategie di ristrutturazione si possono classificare in base al rapporto fra vecchio e nuovo, fra l’intensità dell’intervento e il livello di modificazione. Trattando l’architettura edificata come una risorsa sostanziale e formale, si rende disponibile un’ampia gamma di possibilità e di approcci”. All’idea di sviluppo di una nuova consapevolezza rispetto al paesaggio urbano che ci circonda si riferisce anche la Svizzera, mentre la Russia, con i-city a cura di Sergei Tchoban (menzione speciale per l’allestimento e il tema trattato), dedica il suo padiglione, rivestito da pannelli metallici serigrafati da codici QR interattivi con tablet dati ai visitatori all’ingresso, al nuovo paesaggio in divenire del Centro d’innovazione di Skolkovo letto in rapporto alla storia delle città della scienza del Paese. Il verde, superata ogni dimensione semplicemente estetica, diventa fattore simbolico nel bosco di felci del Padiglione Italia di Luca Zevi che, oltre a sottolineare il valore dell’architettura per la produzione, emersa forse in modo inconsapevole dal solco della lezione di Adriano Olivetti, ci ricorda il valore del territorio e la necessità del suo mantenimento e gestione, oggi sempre più in abbandono anche in relazione alla flessione delle coltivazioni agricole (presidio di gestione del paesaggio in senso lato). Mentre ancora il verde (tradotto in piantumazioni di canne comuni) diventa strumento di riqualificazione strutturale nella prima partecipazione dell’Angola. In Beyond Entropy Angola, a cura di Stefano Rabolli Pansera e Paula Nascimento, si affronta il caso delle aree di conurbazione senza urbanità di Luanda, città ad alta densità senza avere però edifici a più livelli. In questa crescita esponenziale dell’occupazione del suolo, nella mancanza totale di infrastrutture basilari, l’idea di piantumare gli spazi interstiziali tra le costruzioni con la canna comune (Arundo Donax) che cresce anche lungo i nostri fiumi, permette di trasformare il ‘verde’ o meglio il paesaggio in strumento di riqualificazione operativo a breve periodo: la canna cresce con grande rapidità (raggiungerà a fine novembre il soffitto dello spazio all’isola di San Giorgio dove è ospitato l’allestimento) e i filamenti finissimi del suo rizoma alla radice filtrano in modo naturale le acque sporche, mentre il fusto rigido assorbe grandi quantità di CO2 rendendolo ideale per la biomassa. Quello proposto è un modello urbanistico sostenibile in grado di diventare esempio-guida per i Paesi sub-sahariani. Non mancano nella mostra allestimenti ‘hot spot’, emergenti dal punto di vista della presenza architettonica e scenica, tra cui la struttura metallica Arum di Zaha Hadid, e l’allestimento Copycat di Cino Zucchi (menzione d’onore) metafora di una sommatoria architettonica e allo stesso tempo luogo di memorie domestiche, di oggetti e immagini in grado di produrre efficaci rimandi di scala, di abitudini e usi. Nei pressi del Giardino delle Vergini si fronteggiano infine le due architetture di Alvaro Siza e di Eduardo Souto de Moura rapportate alla densità dell’ambiente urbano veneziano la prima e al paesaggio dell’intorno, incorniciato dalle sue aperture e rapporti di spazi, il secondo. Una mostra che racconta temi, che delinea possibili percorsi, più che mostrare la magnificenza e la spettacolarità di opere singole. D’altra parte come ci ricorda lo stesso Chipperfield “progettare architetture che siano parte di un panorama quotidiano è sicuramente una bella sfida, molto più rischiosa e affascinante della creazione di un maxigrattacielo”.
foto di sergio pirrone, matteo vercelloni
testo di matteo vercelloni - [gallery ids="7710,7711,7712,7713,7714,7715,7716,7717,7718,7719,7720,7721,7722,7723,7724"]Come, con la crisi economica si è detto basta agli eccessi finanziari è arrivato il momento di fermare anche gli eccessi degli architetti […] troppo spesso, ultimamente, gli architetti sono stati chiamati come maître patissier a preparare la torta di nozze del padrone di casa, ossia del committente. Che identifica nell’architetto lo specialista che, al meglio, attraverso un edificio può pubblicizzare il suo nome o il suo marchio. Che, di per sé, non è una colpa. Però quando a Michelangelo fu affidato l’incarico per la cupola di San Pietro era sì un’operazione di ‘promozione’ del papato, ma al contempo una renovatio urbis”. Le affermazioni di David Chipperfield, in parte rese esplicite dalla sua Biennale di Architettura, non lasciano spazio al dubbio: è tempo di ritornare a intendere l’architettura come una disciplina complessa che si confronta con la storia e la memoria, con le città e i suoi cittadini e che, come affermava Aldo Rossi è da assumere come “opera d’arte collettiva”. La 13a Biennale di architettura veneziana nella sua molteplice rassegna di punti di vista tende a consegnarci tale messaggio senza mortificare o ridurre le specifiche poetiche e le singole espressioni di ogni architetto che però cercano di offrirsi come occasione di confronto più che come momento di presentazione professionale. Molti sono i temi che si possono rintracciare nella visita alla mostra tra le Corderie e i Giardini, alcuni sottolineano le intenzioni iniziali: partecipazione civile, riuso e sostenibilità, presenza della storia, progetti condivisi, senso e uso della città e dei suoi spazi, valore del paesaggio come risorsa strategica. Non si tratta tuttavia della celebrazione del tramonto della figura dell’archistar, piuttosto di individuare percorsi che leghino il progetto di architettura al suo senso urbano, per estendersi a volte alla scala territoriale come macrostrutture abitate (è il caso del progetto dei ponti architettonici per Stoccolma, pensati da Jean Nouvel e Mia Hägg per unire il centro storico di Gamla Stan all’isola più a sud della città; o all’avveniristico Global Hub AIR+PORT dello studio BIG/ Bjarke Ingels Group, sperimentale sintesi tipologica tra un aeroporto galleggiante e un porto navale previsto tra i ghiacci della Groenlandia a Nuuk). In generale in tutta la mostra si respira aria di complessità e questo può indurre a rendere più difficile e sfuggente il messaggio che non vuole essere di tipo ‘spettacolare’, ma fondativo. La camera scura di Norman Foster, Gateway, che accoglie i visitatori alle spalle dell’ingresso funge in fondo da manifesto introduttivo con la ‘storia’ proiettata sul pavimento nero nella forma di disegni, nomi dei protagonisti della cultura architettonica, messaggi, che si confrontano con lo spazio storico e contemporaneo dei raduni collettivi offerto da un serrato ritmo di immagini proiettate che ci avvolgono in alto, sui quattro lati delle pareti. Ordine e disordine per capire l’uso dell’architettura che a volte appare ‘improprio’, ma allo stesso tempo inarrestabile e spontaneo. Come appunto quello che avviene in uno dei monumenti architettonici contemporanei di Hong Kong: la Bank of China dello stesso Foster (in mostra ai Giardini) il cui piano terreno, pensato come ‘luogo pubblico’ e di passaggio sin dalla sua inaugurazione, si trasforma ogni domenica in una sorta di centro d’incontro della comunità delle colf filippine che, frammentandolo in microspazi con temporanei setti di cartone, attiva una straordinaria e pacifica varietà di attività sociali. In altro modo la riappropriazione di spazi urbani è rappresentata dal caso della Torre David a Caracas rappresentato dall’allestimento a cura di Urban Think Tank (Leone d’Oro quale miglior progetto della Mostra internazionale). Una torre per uffici rimasta incompleta è diventata una favela verticale nel centro urbano, simbolo del fallimento del neoliberismo e del self-empowerment delle classi povere, formando una nuova comunità spontanea, “modello ispiratore che riconosce la forza delle associazioni informali” (dalle motivazioni della Giuria), che ne ha trasformato gli spazi in una nuova casa collettiva con una propria identità. Valori di appartenenza restituiti dal progetto in mostra nella forma del ristorante di fantasia Gran Horizonte (punto d’incontro e di sosta lungo il percorso delle corderie) e dalla serie di fotografie di Iwan Baan che documentano momenti di vita della comunità spontanea. Partecipazione e tensione verso lo sviluppo urbano ‘dal basso’ sono testimoniati anche dalla ricerca di Elke Krasny, Hand –On Urbanism 1850-2012, e dal padiglione degli Stati Uniti d’America con il suo Spontaneous Interventions: Design Actions for the Common Good (menzione speciale della Giuria), dove una selezione di progetti ad opera di architetti, designer, urbanisti e semplici cittadini, configurano un mosaico di idee, proposte e realizzazioni, tese a “espandere la bellezza, il benessere, la funzionalità, la sicurezza e la sostenibilità delle città [dove] sperimentale, informale, alternativo, spontaneo, improvvisato, partecipativo, migliorativo, sono soltanto alcune delle parole che sono usate per descrivere questo movimento che si sta diffondendo sempre più a livello internazionale”. Ma dove forse al meglio si restituisce lo slogan del Commun Ground della Biennale veneziana è nell’Architecture possible here? Home-for-all del padiglione Giapponese (a cura di Toyo Ito, con allestimento di Akihisha Hirata, Sou Fujimoto, Kumiko Inui, Leone d’Oro per la migliore partecipazione nazionale), in cui la collaborazione e il confronto con la popolazione colpita dallo tsunami ha portato alla definizione di un nuovo centro d’incontro con la comunità locale, primo step di un programma in grado di generare la ‘voglia di casa’ in una regione devastata da una catastrofe nazionale. Tra uno sguardo alla storia e la ricerca di un confronto con il passato in termini attuali (l’omaggio alla magia compositiva dell’architetto barocco inglese Nicholas Hawksmoor, la bella mostra Facecity di Fulvio Irace dedicata al paesaggio urbano milanese del secondo dopoguerra, il Pasticcio di Caruso St. John teso a rintracciare una “continuità tra l’architettura contemporanea e quella antecedente al modernismo”, i ‘ritratti’ dei padiglioni della Biennale di Gabriele Basilico nell’allestimento di Diener & Diener, le radici storiche dichiarate da parte della ricerca sulla forma algoritmica di Zaha Hadid) i temi legati alla sostenibilità e al riuso sono emersi in più occasioni. Reduce/Reuse/Recycle – Architecture as Resource è il titolo-programma della Germania dove si dichiara apertamente che ogni costruzione è una risorsa con cui confrontarsi abbandonando la serialità tardo modernista della demolizione-progetto-ricostruzione; “secondo la logica di Reduce/Reuse/Recycle diverse strategie di ristrutturazione si possono classificare in base al rapporto fra vecchio e nuovo, fra l’intensità dell’intervento e il livello di modificazione. Trattando l’architettura edificata come una risorsa sostanziale e formale, si rende disponibile un’ampia gamma di possibilità e di approcci”. All’idea di sviluppo di una nuova consapevolezza rispetto al paesaggio urbano che ci circonda si riferisce anche la Svizzera, mentre la Russia, con i-city a cura di Sergei Tchoban (menzione speciale per l’allestimento e il tema trattato), dedica il suo padiglione, rivestito da pannelli metallici serigrafati da codici QR interattivi con tablet dati ai visitatori all’ingresso, al nuovo paesaggio in divenire del Centro d’innovazione di Skolkovo letto in rapporto alla storia delle città della scienza del Paese. Il verde, superata ogni dimensione semplicemente estetica, diventa fattore simbolico nel bosco di felci del Padiglione Italia di Luca Zevi che, oltre a sottolineare il valore dell’architettura per la produzione, emersa forse in modo inconsapevole dal solco della lezione di Adriano Olivetti, ci ricorda il valore del territorio e la necessità del suo mantenimento e gestione, oggi sempre più in abbandono anche in relazione alla flessione delle coltivazioni agricole (presidio di gestione del paesaggio in senso lato). Mentre ancora il verde (tradotto in piantumazioni di canne comuni) diventa strumento di riqualificazione strutturale nella prima partecipazione dell’Angola. In Beyond Entropy Angola, a cura di Stefano Rabolli Pansera e Paula Nascimento, si affronta il caso delle aree di conurbazione senza urbanità di Luanda, città ad alta densità senza avere però edifici a più livelli. In questa crescita esponenziale dell’occupazione del suolo, nella mancanza totale di infrastrutture basilari, l’idea di piantumare gli spazi interstiziali tra le costruzioni con la canna comune (Arundo Donax) che cresce anche lungo i nostri fiumi, permette di trasformare il ‘verde’ o meglio il paesaggio in strumento di riqualificazione operativo a breve periodo: la canna cresce con grande rapidità (raggiungerà a fine novembre il soffitto dello spazio all’isola di San Giorgio dove è ospitato l’allestimento) e i filamenti finissimi del suo rizoma alla radice filtrano in modo naturale le acque sporche, mentre il fusto rigido assorbe grandi quantità di CO2 rendendolo ideale per la biomassa. Quello proposto è un modello urbanistico sostenibile in grado di diventare esempio-guida per i Paesi sub-sahariani. Non mancano nella mostra allestimenti ‘hot spot’, emergenti dal punto di vista della presenza architettonica e scenica, tra cui la struttura metallica Arum di Zaha Hadid, e l’allestimento Copycat di Cino Zucchi (menzione d’onore) metafora di una sommatoria architettonica e allo stesso tempo luogo di memorie domestiche, di oggetti e immagini in grado di produrre efficaci rimandi di scala, di abitudini e usi. Nei pressi del Giardino delle Vergini si fronteggiano infine le due architetture di Alvaro Siza e di Eduardo Souto de Moura rapportate alla densità dell’ambiente urbano veneziano la prima e al paesaggio dell’intorno, incorniciato dalle sue aperture e rapporti di spazi, il secondo. Una mostra che racconta temi, che delinea possibili percorsi, più che mostrare la magnificenza e la spettacolarità di opere singole. D’altra parte come ci ricorda lo stesso Chipperfield “progettare architetture che siano parte di un panorama quotidiano è sicuramente una bella sfida, molto più rischiosa e affascinante della creazione di un maxigrattacielo”.
foto di sergio pirrone, matteo vercelloni
testo di matteo vercelloni - [gallery ids="7710,7711,7712,7713,7714,7715,7716,7717,7718,7719,7720,7721,7722,7723,7724"]Come, con la crisi economica si è detto basta agli eccessi finanziari è arrivato il momento di fermare anche gli eccessi degli architetti […] troppo spesso, ultimamente, gli architetti sono stati chiamati come maître patissier a preparare la torta di nozze del padrone di casa, ossia del committente. Che identifica nell’architetto lo specialista che, al meglio, attraverso un edificio può pubblicizzare il suo nome o il suo marchio. Che, di per sé, non è una colpa. Però quando a Michelangelo fu affidato l’incarico per la cupola di San Pietro era sì un’operazione di ‘promozione’ del papato, ma al contempo una renovatio urbis”. Le affermazioni di David Chipperfield, in parte rese esplicite dalla sua Biennale di Architettura, non lasciano spazio al dubbio: è tempo di ritornare a intendere l’architettura come una disciplina complessa che si confronta con la storia e la memoria, con le città e i suoi cittadini e che, come affermava Aldo Rossi è da assumere come “opera d’arte collettiva”. La 13a Biennale di architettura veneziana nella sua molteplice rassegna di punti di vista tende a consegnarci tale messaggio senza mortificare o ridurre le specifiche poetiche e le singole espressioni di ogni architetto che però cercano di offrirsi come occasione di confronto più che come momento di presentazione professionale. Molti sono i temi che si possono rintracciare nella visita alla mostra tra le Corderie e i Giardini, alcuni sottolineano le intenzioni iniziali: partecipazione civile, riuso e sostenibilità, presenza della storia, progetti condivisi, senso e uso della città e dei suoi spazi, valore del paesaggio come risorsa strategica. Non si tratta tuttavia della celebrazione del tramonto della figura dell’archistar, piuttosto di individuare percorsi che leghino il progetto di architettura al suo senso urbano, per estendersi a volte alla scala territoriale come macrostrutture abitate (è il caso del progetto dei ponti architettonici per Stoccolma, pensati da Jean Nouvel e Mia Hägg per unire il centro storico di Gamla Stan all’isola più a sud della città; o all’avveniristico Global Hub AIR+PORT dello studio BIG/ Bjarke Ingels Group, sperimentale sintesi tipologica tra un aeroporto galleggiante e un porto navale previsto tra i ghiacci della Groenlandia a Nuuk). In generale in tutta la mostra si respira aria di complessità e questo può indurre a rendere più difficile e sfuggente il messaggio che non vuole essere di tipo ‘spettacolare’, ma fondativo. La camera scura di Norman Foster, Gateway, che accoglie i visitatori alle spalle dell’ingresso funge in fondo da manifesto introduttivo con la ‘storia’ proiettata sul pavimento nero nella forma di disegni, nomi dei protagonisti della cultura architettonica, messaggi, che si confrontano con lo spazio storico e contemporaneo dei raduni collettivi offerto da un serrato ritmo di immagini proiettate che ci avvolgono in alto, sui quattro lati delle pareti. Ordine e disordine per capire l’uso dell’architettura che a volte appare ‘improprio’, ma allo stesso tempo inarrestabile e spontaneo. Come appunto quello che avviene in uno dei monumenti architettonici contemporanei di Hong Kong: la Bank of China dello stesso Foster (in mostra ai Giardini) il cui piano terreno, pensato come ‘luogo pubblico’ e di passaggio sin dalla sua inaugurazione, si trasforma ogni domenica in una sorta di centro d’incontro della comunità delle colf filippine che, frammentandolo in microspazi con temporanei setti di cartone, attiva una straordinaria e pacifica varietà di attività sociali. In altro modo la riappropriazione di spazi urbani è rappresentata dal caso della Torre David a Caracas rappresentato dall’allestimento a cura di Urban Think Tank (Leone d’Oro quale miglior progetto della Mostra internazionale). Una torre per uffici rimasta incompleta è diventata una favela verticale nel centro urbano, simbolo del fallimento del neoliberismo e del self-empowerment delle classi povere, formando una nuova comunità spontanea, “modello ispiratore che riconosce la forza delle associazioni informali” (dalle motivazioni della Giuria), che ne ha trasformato gli spazi in una nuova casa collettiva con una propria identità. Valori di appartenenza restituiti dal progetto in mostra nella forma del ristorante di fantasia Gran Horizonte (punto d’incontro e di sosta lungo il percorso delle corderie) e dalla serie di fotografie di Iwan Baan che documentano momenti di vita della comunità spontanea. Partecipazione e tensione verso lo sviluppo urbano ‘dal basso’ sono testimoniati anche dalla ricerca di Elke Krasny, Hand –On Urbanism 1850-2012, e dal padiglione degli Stati Uniti d’America con il suo Spontaneous Interventions: Design Actions for the Common Good (menzione speciale della Giuria), dove una selezione di progetti ad opera di architetti, designer, urbanisti e semplici cittadini, configurano un mosaico di idee, proposte e realizzazioni, tese a “espandere la bellezza, il benessere, la funzionalità, la sicurezza e la sostenibilità delle città [dove] sperimentale, informale, alternativo, spontaneo, improvvisato, partecipativo, migliorativo, sono soltanto alcune delle parole che sono usate per descrivere questo movimento che si sta diffondendo sempre più a livello internazionale”. Ma dove forse al meglio si restituisce lo slogan del Commun Ground della Biennale veneziana è nell’Architecture possible here? Home-for-all del padiglione Giapponese (a cura di Toyo Ito, con allestimento di Akihisha Hirata, Sou Fujimoto, Kumiko Inui, Leone d’Oro per la migliore partecipazione nazionale), in cui la collaborazione e il confronto con la popolazione colpita dallo tsunami ha portato alla definizione di un nuovo centro d’incontro con la comunità locale, primo step di un programma in grado di generare la ‘voglia di casa’ in una regione devastata da una catastrofe nazionale. Tra uno sguardo alla storia e la ricerca di un confronto con il passato in termini attuali (l’omaggio alla magia compositiva dell’architetto barocco inglese Nicholas Hawksmoor, la bella mostra Facecity di Fulvio Irace dedicata al paesaggio urbano milanese del secondo dopoguerra, il Pasticcio di Caruso St. John teso a rintracciare una “continuità tra l’architettura contemporanea e quella antecedente al modernismo”, i ‘ritratti’ dei padiglioni della Biennale di Gabriele Basilico nell’allestimento di Diener & Diener, le radici storiche dichiarate da parte della ricerca sulla forma algoritmica di Zaha Hadid) i temi legati alla sostenibilità e al riuso sono emersi in più occasioni. Reduce/Reuse/Recycle – Architecture as Resource è il titolo-programma della Germania dove si dichiara apertamente che ogni costruzione è una risorsa con cui confrontarsi abbandonando la serialità tardo modernista della demolizione-progetto-ricostruzione; “secondo la logica di Reduce/Reuse/Recycle diverse strategie di ristrutturazione si possono classificare in base al rapporto fra vecchio e nuovo, fra l’intensità dell’intervento e il livello di modificazione. Trattando l’architettura edificata come una risorsa sostanziale e formale, si rende disponibile un’ampia gamma di possibilità e di approcci”. All’idea di sviluppo di una nuova consapevolezza rispetto al paesaggio urbano che ci circonda si riferisce anche la Svizzera, mentre la Russia, con i-city a cura di Sergei Tchoban (menzione speciale per l’allestimento e il tema trattato), dedica il suo padiglione, rivestito da pannelli metallici serigrafati da codici QR interattivi con tablet dati ai visitatori all’ingresso, al nuovo paesaggio in divenire del Centro d’innovazione di Skolkovo letto in rapporto alla storia delle città della scienza del Paese. Il verde, superata ogni dimensione semplicemente estetica, diventa fattore simbolico nel bosco di felci del Padiglione Italia di Luca Zevi che, oltre a sottolineare il valore dell’architettura per la produzione, emersa forse in modo inconsapevole dal solco della lezione di Adriano Olivetti, ci ricorda il valore del territorio e la necessità del suo mantenimento e gestione, oggi sempre più in abbandono anche in relazione alla flessione delle coltivazioni agricole (presidio di gestione del paesaggio in senso lato). Mentre ancora il verde (tradotto in piantumazioni di canne comuni) diventa strumento di riqualificazione strutturale nella prima partecipazione dell’Angola. In Beyond Entropy Angola, a cura di Stefano Rabolli Pansera e Paula Nascimento, si affronta il caso delle aree di conurbazione senza urbanità di Luanda, città ad alta densità senza avere però edifici a più livelli. In questa crescita esponenziale dell’occupazione del suolo, nella mancanza totale di infrastrutture basilari, l’idea di piantumare gli spazi interstiziali tra le costruzioni con la canna comune (Arundo Donax) che cresce anche lungo i nostri fiumi, permette di trasformare il ‘verde’ o meglio il paesaggio in strumento di riqualificazione operativo a breve periodo: la canna cresce con grande rapidità (raggiungerà a fine novembre il soffitto dello spazio all’isola di San Giorgio dove è ospitato l’allestimento) e i filamenti finissimi del suo rizoma alla radice filtrano in modo naturale le acque sporche, mentre il fusto rigido assorbe grandi quantità di CO2 rendendolo ideale per la biomassa. Quello proposto è un modello urbanistico sostenibile in grado di diventare esempio-guida per i Paesi sub-sahariani. Non mancano nella mostra allestimenti ‘hot spot’, emergenti dal punto di vista della presenza architettonica e scenica, tra cui la struttura metallica Arum di Zaha Hadid, e l’allestimento Copycat di Cino Zucchi (menzione d’onore) metafora di una sommatoria architettonica e allo stesso tempo luogo di memorie domestiche, di oggetti e immagini in grado di produrre efficaci rimandi di scala, di abitudini e usi. Nei pressi del Giardino delle Vergini si fronteggiano infine le due architetture di Alvaro Siza e di Eduardo Souto de Moura rapportate alla densità dell’ambiente urbano veneziano la prima e al paesaggio dell’intorno, incorniciato dalle sue aperture e rapporti di spazi, il secondo. Una mostra che racconta temi, che delinea possibili percorsi, più che mostrare la magnificenza e la spettacolarità di opere singole. D’altra parte come ci ricorda lo stesso Chipperfield “progettare architetture che siano parte di un panorama quotidiano è sicuramente una bella sfida, molto più rischiosa e affascinante della creazione di un maxigrattacielo”.
foto di sergio pirrone, matteo vercelloni
testo di matteo vercelloni - [gallery ids="7710,7711,7712,7713,7714,7715,7716,7717,7718,7719,7720,7721,7722,7723,7724"]Come, con la crisi economica si è detto basta agli eccessi finanziari è arrivato il momento di fermare anche gli eccessi degli architetti […] troppo spesso, ultimamente, gli architetti sono stati chiamati come maître patissier a preparare la torta di nozze del padrone di casa, ossia del committente. Che identifica nell’architetto lo specialista che, al meglio, attraverso un edificio può pubblicizzare il suo nome o il suo marchio. Che, di per sé, non è una colpa. Però quando a Michelangelo fu affidato l’incarico per la cupola di San Pietro era sì un’operazione di ‘promozione’ del papato, ma al contempo una renovatio urbis”. Le affermazioni di David Chipperfield, in parte rese esplicite dalla sua Biennale di Architettura, non lasciano spazio al dubbio: è tempo di ritornare a intendere l’architettura come una disciplina complessa che si confronta con la storia e la memoria, con le città e i suoi cittadini e che, come affermava Aldo Rossi è da assumere come “opera d’arte collettiva”. La 13a Biennale di architettura veneziana nella sua molteplice rassegna di punti di vista tende a consegnarci tale messaggio senza mortificare o ridurre le specifiche poetiche e le singole espressioni di ogni architetto che però cercano di offrirsi come occasione di confronto più che come momento di presentazione professionale. Molti sono i temi che si possono rintracciare nella visita alla mostra tra le Corderie e i Giardini, alcuni sottolineano le intenzioni iniziali: partecipazione civile, riuso e sostenibilità, presenza della storia, progetti condivisi, senso e uso della città e dei suoi spazi, valore del paesaggio come risorsa strategica. Non si tratta tuttavia della celebrazione del tramonto della figura dell’archistar, piuttosto di individuare percorsi che leghino il progetto di architettura al suo senso urbano, per estendersi a volte alla scala territoriale come macrostrutture abitate (è il caso del progetto dei ponti architettonici per Stoccolma, pensati da Jean Nouvel e Mia Hägg per unire il centro storico di Gamla Stan all’isola più a sud della città; o all’avveniristico Global Hub AIR+PORT dello studio BIG/ Bjarke Ingels Group, sperimentale sintesi tipologica tra un aeroporto galleggiante e un porto navale previsto tra i ghiacci della Groenlandia a Nuuk). In generale in tutta la mostra si respira aria di complessità e questo può indurre a rendere più difficile e sfuggente il messaggio che non vuole essere di tipo ‘spettacolare’, ma fondativo. La camera scura di Norman Foster, Gateway, che accoglie i visitatori alle spalle dell’ingresso funge in fondo da manifesto introduttivo con la ‘storia’ proiettata sul pavimento nero nella forma di disegni, nomi dei protagonisti della cultura architettonica, messaggi, che si confrontano con lo spazio storico e contemporaneo dei raduni collettivi offerto da un serrato ritmo di immagini proiettate che ci avvolgono in alto, sui quattro lati delle pareti. Ordine e disordine per capire l’uso dell’architettura che a volte appare ‘improprio’, ma allo stesso tempo inarrestabile e spontaneo. Come appunto quello che avviene in uno dei monumenti architettonici contemporanei di Hong Kong: la Bank of China dello stesso Foster (in mostra ai Giardini) il cui piano terreno, pensato come ‘luogo pubblico’ e di passaggio sin dalla sua inaugurazione, si trasforma ogni domenica in una sorta di centro d’incontro della comunità delle colf filippine che, frammentandolo in microspazi con temporanei setti di cartone, attiva una straordinaria e pacifica varietà di attività sociali. In altro modo la riappropriazione di spazi urbani è rappresentata dal caso della Torre David a Caracas rappresentato dall’allestimento a cura di Urban Think Tank (Leone d’Oro quale miglior progetto della Mostra internazionale). Una torre per uffici rimasta incompleta è diventata una favela verticale nel centro urbano, simbolo del fallimento del neoliberismo e del self-empowerment delle classi povere, formando una nuova comunità spontanea, “modello ispiratore che riconosce la forza delle associazioni informali” (dalle motivazioni della Giuria), che ne ha trasformato gli spazi in una nuova casa collettiva con una propria identità. Valori di appartenenza restituiti dal progetto in mostra nella forma del ristorante di fantasia Gran Horizonte (punto d’incontro e di sosta lungo il percorso delle corderie) e dalla serie di fotografie di Iwan Baan che documentano momenti di vita della comunità spontanea. Partecipazione e tensione verso lo sviluppo urbano ‘dal basso’ sono testimoniati anche dalla ricerca di Elke Krasny, Hand –On Urbanism 1850-2012, e dal padiglione degli Stati Uniti d’America con il suo Spontaneous Interventions: Design Actions for the Common Good (menzione speciale della Giuria), dove una selezione di progetti ad opera di architetti, designer, urbanisti e semplici cittadini, configurano un mosaico di idee, proposte e realizzazioni, tese a “espandere la bellezza, il benessere, la funzionalità, la sicurezza e la sostenibilità delle città [dove] sperimentale, informale, alternativo, spontaneo, improvvisato, partecipativo, migliorativo, sono soltanto alcune delle parole che sono usate per descrivere questo movimento che si sta diffondendo sempre più a livello internazionale”. Ma dove forse al meglio si restituisce lo slogan del Commun Ground della Biennale veneziana è nell’Architecture possible here? Home-for-all del padiglione Giapponese (a cura di Toyo Ito, con allestimento di Akihisha Hirata, Sou Fujimoto, Kumiko Inui, Leone d’Oro per la migliore partecipazione nazionale), in cui la collaborazione e il confronto con la popolazione colpita dallo tsunami ha portato alla definizione di un nuovo centro d’incontro con la comunità locale, primo step di un programma in grado di generare la ‘voglia di casa’ in una regione devastata da una catastrofe nazionale. Tra uno sguardo alla storia e la ricerca di un confronto con il passato in termini attuali (l’omaggio alla magia compositiva dell’architetto barocco inglese Nicholas Hawksmoor, la bella mostra Facecity di Fulvio Irace dedicata al paesaggio urbano milanese del secondo dopoguerra, il Pasticcio di Caruso St. John teso a rintracciare una “continuità tra l’architettura contemporanea e quella antecedente al modernismo”, i ‘ritratti’ dei padiglioni della Biennale di Gabriele Basilico nell’allestimento di Diener & Diener, le radici storiche dichiarate da parte della ricerca sulla forma algoritmica di Zaha Hadid) i temi legati alla sostenibilità e al riuso sono emersi in più occasioni. Reduce/Reuse/Recycle – Architecture as Resource è il titolo-programma della Germania dove si dichiara apertamente che ogni costruzione è una risorsa con cui confrontarsi abbandonando la serialità tardo modernista della demolizione-progetto-ricostruzione; “secondo la logica di Reduce/Reuse/Recycle diverse strategie di ristrutturazione si possono classificare in base al rapporto fra vecchio e nuovo, fra l’intensità dell’intervento e il livello di modificazione. Trattando l’architettura edificata come una risorsa sostanziale e formale, si rende disponibile un’ampia gamma di possibilità e di approcci”. All’idea di sviluppo di una nuova consapevolezza rispetto al paesaggio urbano che ci circonda si riferisce anche la Svizzera, mentre la Russia, con i-city a cura di Sergei Tchoban (menzione speciale per l’allestimento e il tema trattato), dedica il suo padiglione, rivestito da pannelli metallici serigrafati da codici QR interattivi con tablet dati ai visitatori all’ingresso, al nuovo paesaggio in divenire del Centro d’innovazione di Skolkovo letto in rapporto alla storia delle città della scienza del Paese. Il verde, superata ogni dimensione semplicemente estetica, diventa fattore simbolico nel bosco di felci del Padiglione Italia di Luca Zevi che, oltre a sottolineare il valore dell’architettura per la produzione, emersa forse in modo inconsapevole dal solco della lezione di Adriano Olivetti, ci ricorda il valore del territorio e la necessità del suo mantenimento e gestione, oggi sempre più in abbandono anche in relazione alla flessione delle coltivazioni agricole (presidio di gestione del paesaggio in senso lato). Mentre ancora il verde (tradotto in piantumazioni di canne comuni) diventa strumento di riqualificazione strutturale nella prima partecipazione dell’Angola. In Beyond Entropy Angola, a cura di Stefano Rabolli Pansera e Paula Nascimento, si affronta il caso delle aree di conurbazione senza urbanità di Luanda, città ad alta densità senza avere però edifici a più livelli. In questa crescita esponenziale dell’occupazione del suolo, nella mancanza totale di infrastrutture basilari, l’idea di piantumare gli spazi interstiziali tra le costruzioni con la canna comune (Arundo Donax) che cresce anche lungo i nostri fiumi, permette di trasformare il ‘verde’ o meglio il paesaggio in strumento di riqualificazione operativo a breve periodo: la canna cresce con grande rapidità (raggiungerà a fine novembre il soffitto dello spazio all’isola di San Giorgio dove è ospitato l’allestimento) e i filamenti finissimi del suo rizoma alla radice filtrano in modo naturale le acque sporche, mentre il fusto rigido assorbe grandi quantità di CO2 rendendolo ideale per la biomassa. Quello proposto è un modello urbanistico sostenibile in grado di diventare esempio-guida per i Paesi sub-sahariani. Non mancano nella mostra allestimenti ‘hot spot’, emergenti dal punto di vista della presenza architettonica e scenica, tra cui la struttura metallica Arum di Zaha Hadid, e l’allestimento Copycat di Cino Zucchi (menzione d’onore) metafora di una sommatoria architettonica e allo stesso tempo luogo di memorie domestiche, di oggetti e immagini in grado di produrre efficaci rimandi di scala, di abitudini e usi. Nei pressi del Giardino delle Vergini si fronteggiano infine le due architetture di Alvaro Siza e di Eduardo Souto de Moura rapportate alla densità dell’ambiente urbano veneziano la prima e al paesaggio dell’intorno, incorniciato dalle sue aperture e rapporti di spazi, il secondo. Una mostra che racconta temi, che delinea possibili percorsi, più che mostrare la magnificenza e la spettacolarità di opere singole. D’altra parte come ci ricorda lo stesso Chipperfield “progettare architetture che siano parte di un panorama quotidiano è sicuramente una bella sfida, molto più rischiosa e affascinante della creazione di un maxigrattacielo”.
foto di sergio pirrone, matteo vercelloni
testo di matteo vercelloni - [gallery ids="7710,7711,7712,7713,7714,7715,7716,7717,7718,7719,7720,7721,7722,7723,7724"]Come, con la crisi economica si è detto basta agli eccessi finanziari è arrivato il momento di fermare anche gli eccessi degli architetti […] troppo spesso, ultimamente, gli architetti sono stati chiamati come maître patissier a preparare la torta di nozze del padrone di casa, ossia del committente. Che identifica nell’architetto lo specialista che, al meglio, attraverso un edificio può pubblicizzare il suo nome o il suo marchio. Che, di per sé, non è una colpa. Però quando a Michelangelo fu affidato l’incarico per la cupola di San Pietro era sì un’operazione di ‘promozione’ del papato, ma al contempo una renovatio urbis”. Le affermazioni di David Chipperfield, in parte rese esplicite dalla sua Biennale di Architettura, non lasciano spazio al dubbio: è tempo di ritornare a intendere l’architettura come una disciplina complessa che si confronta con la storia e la memoria, con le città e i suoi cittadini e che, come affermava Aldo Rossi è da assumere come “opera d’arte collettiva”. La 13a Biennale di architettura veneziana nella sua molteplice rassegna di punti di vista tende a consegnarci tale messaggio senza mortificare o ridurre le specifiche poetiche e le singole espressioni di ogni architetto che però cercano di offrirsi come occasione di confronto più che come momento di presentazione professionale. Molti sono i temi che si possono rintracciare nella visita alla mostra tra le Corderie e i Giardini, alcuni sottolineano le intenzioni iniziali: partecipazione civile, riuso e sostenibilità, presenza della storia, progetti condivisi, senso e uso della città e dei suoi spazi, valore del paesaggio come risorsa strategica. Non si tratta tuttavia della celebrazione del tramonto della figura dell’archistar, piuttosto di individuare percorsi che leghino il progetto di architettura al suo senso urbano, per estendersi a volte alla scala territoriale come macrostrutture abitate (è il caso del progetto dei ponti architettonici per Stoccolma, pensati da Jean Nouvel e Mia Hägg per unire il centro storico di Gamla Stan all’isola più a sud della città; o all’avveniristico Global Hub AIR+PORT dello studio BIG/ Bjarke Ingels Group, sperimentale sintesi tipologica tra un aeroporto galleggiante e un porto navale previsto tra i ghiacci della Groenlandia a Nuuk). In generale in tutta la mostra si respira aria di complessità e questo può indurre a rendere più difficile e sfuggente il messaggio che non vuole essere di tipo ‘spettacolare’, ma fondativo. La camera scura di Norman Foster, Gateway, che accoglie i visitatori alle spalle dell’ingresso funge in fondo da manifesto introduttivo con la ‘storia’ proiettata sul pavimento nero nella forma di disegni, nomi dei protagonisti della cultura architettonica, messaggi, che si confrontano con lo spazio storico e contemporaneo dei raduni collettivi offerto da un serrato ritmo di immagini proiettate che ci avvolgono in alto, sui quattro lati delle pareti. Ordine e disordine per capire l’uso dell’architettura che a volte appare ‘improprio’, ma allo stesso tempo inarrestabile e spontaneo. Come appunto quello che avviene in uno dei monumenti architettonici contemporanei di Hong Kong: la Bank of China dello stesso Foster (in mostra ai Giardini) il cui piano terreno, pensato come ‘luogo pubblico’ e di passaggio sin dalla sua inaugurazione, si trasforma ogni domenica in una sorta di centro d’incontro della comunità delle colf filippine che, frammentandolo in microspazi con temporanei setti di cartone, attiva una straordinaria e pacifica varietà di attività sociali. In altro modo la riappropriazione di spazi urbani è rappresentata dal caso della Torre David a Caracas rappresentato dall’allestimento a cura di Urban Think Tank (Leone d’Oro quale miglior progetto della Mostra internazionale). Una torre per uffici rimasta incompleta è diventata una favela verticale nel centro urbano, simbolo del fallimento del neoliberismo e del self-empowerment delle classi povere, formando una nuova comunità spontanea, “modello ispiratore che riconosce la forza delle associazioni informali” (dalle motivazioni della Giuria), che ne ha trasformato gli spazi in una nuova casa collettiva con una propria identità. Valori di appartenenza restituiti dal progetto in mostra nella forma del ristorante di fantasia Gran Horizonte (punto d’incontro e di sosta lungo il percorso delle corderie) e dalla serie di fotografie di Iwan Baan che documentano momenti di vita della comunità spontanea. Partecipazione e tensione verso lo sviluppo urbano ‘dal basso’ sono testimoniati anche dalla ricerca di Elke Krasny, Hand –On Urbanism 1850-2012, e dal padiglione degli Stati Uniti d’America con il suo Spontaneous Interventions: Design Actions for the Common Good (menzione speciale della Giuria), dove una selezione di progetti ad opera di architetti, designer, urbanisti e semplici cittadini, configurano un mosaico di idee, proposte e realizzazioni, tese a “espandere la bellezza, il benessere, la funzionalità, la sicurezza e la sostenibilità delle città [dove] sperimentale, informale, alternativo, spontaneo, improvvisato, partecipativo, migliorativo, sono soltanto alcune delle parole che sono usate per descrivere questo movimento che si sta diffondendo sempre più a livello internazionale”. Ma dove forse al meglio si restituisce lo slogan del Commun Ground della Biennale veneziana è nell’Architecture possible here? Home-for-all del padiglione Giapponese (a cura di Toyo Ito, con allestimento di Akihisha Hirata, Sou Fujimoto, Kumiko Inui, Leone d’Oro per la migliore partecipazione nazionale), in cui la collaborazione e il confronto con la popolazione colpita dallo tsunami ha portato alla definizione di un nuovo centro d’incontro con la comunità locale, primo step di un programma in grado di generare la ‘voglia di casa’ in una regione devastata da una catastrofe nazionale. Tra uno sguardo alla storia e la ricerca di un confronto con il passato in termini attuali (l’omaggio alla magia compositiva dell’architetto barocco inglese Nicholas Hawksmoor, la bella mostra Facecity di Fulvio Irace dedicata al paesaggio urbano milanese del secondo dopoguerra, il Pasticcio di Caruso St. John teso a rintracciare una “continuità tra l’architettura contemporanea e quella antecedente al modernismo”, i ‘ritratti’ dei padiglioni della Biennale di Gabriele Basilico nell’allestimento di Diener & Diener, le radici storiche dichiarate da parte della ricerca sulla forma algoritmica di Zaha Hadid) i temi legati alla sostenibilità e al riuso sono emersi in più occasioni. Reduce/Reuse/Recycle – Architecture as Resource è il titolo-programma della Germania dove si dichiara apertamente che ogni costruzione è una risorsa con cui confrontarsi abbandonando la serialità tardo modernista della demolizione-progetto-ricostruzione; “secondo la logica di Reduce/Reuse/Recycle diverse strategie di ristrutturazione si possono classificare in base al rapporto fra vecchio e nuovo, fra l’intensità dell’intervento e il livello di modificazione. Trattando l’architettura edificata come una risorsa sostanziale e formale, si rende disponibile un’ampia gamma di possibilità e di approcci”. All’idea di sviluppo di una nuova consapevolezza rispetto al paesaggio urbano che ci circonda si riferisce anche la Svizzera, mentre la Russia, con i-city a cura di Sergei Tchoban (menzione speciale per l’allestimento e il tema trattato), dedica il suo padiglione, rivestito da pannelli metallici serigrafati da codici QR interattivi con tablet dati ai visitatori all’ingresso, al nuovo paesaggio in divenire del Centro d’innovazione di Skolkovo letto in rapporto alla storia delle città della scienza del Paese. Il verde, superata ogni dimensione semplicemente estetica, diventa fattore simbolico nel bosco di felci del Padiglione Italia di Luca Zevi che, oltre a sottolineare il valore dell’architettura per la produzione, emersa forse in modo inconsapevole dal solco della lezione di Adriano Olivetti, ci ricorda il valore del territorio e la necessità del suo mantenimento e gestione, oggi sempre più in abbandono anche in relazione alla flessione delle coltivazioni agricole (presidio di gestione del paesaggio in senso lato). Mentre ancora il verde (tradotto in piantumazioni di canne comuni) diventa strumento di riqualificazione strutturale nella prima partecipazione dell’Angola. In Beyond Entropy Angola, a cura di Stefano Rabolli Pansera e Paula Nascimento, si affronta il caso delle aree di conurbazione senza urbanità di Luanda, città ad alta densità senza avere però edifici a più livelli. In questa crescita esponenziale dell’occupazione del suolo, nella mancanza totale di infrastrutture basilari, l’idea di piantumare gli spazi interstiziali tra le costruzioni con la canna comune (Arundo Donax) che cresce anche lungo i nostri fiumi, permette di trasformare il ‘verde’ o meglio il paesaggio in strumento di riqualificazione operativo a breve periodo: la canna cresce con grande rapidità (raggiungerà a fine novembre il soffitto dello spazio all’isola di San Giorgio dove è ospitato l’allestimento) e i filamenti finissimi del suo rizoma alla radice filtrano in modo naturale le acque sporche, mentre il fusto rigido assorbe grandi quantità di CO2 rendendolo ideale per la biomassa. Quello proposto è un modello urbanistico sostenibile in grado di diventare esempio-guida per i Paesi sub-sahariani. Non mancano nella mostra allestimenti ‘hot spot’, emergenti dal punto di vista della presenza architettonica e scenica, tra cui la struttura metallica Arum di Zaha Hadid, e l’allestimento Copycat di Cino Zucchi (menzione d’onore) metafora di una sommatoria architettonica e allo stesso tempo luogo di memorie domestiche, di oggetti e immagini in grado di produrre efficaci rimandi di scala, di abitudini e usi. Nei pressi del Giardino delle Vergini si fronteggiano infine le due architetture di Alvaro Siza e di Eduardo Souto de Moura rapportate alla densità dell’ambiente urbano veneziano la prima e al paesaggio dell’intorno, incorniciato dalle sue aperture e rapporti di spazi, il secondo. Una mostra che racconta temi, che delinea possibili percorsi, più che mostrare la magnificenza e la spettacolarità di opere singole. D’altra parte come ci ricorda lo stesso Chipperfield “progettare architetture che siano parte di un panorama quotidiano è sicuramente una bella sfida, molto più rischiosa e affascinante della creazione di un maxigrattacielo”.
foto di sergio pirrone, matteo vercelloni
testo di matteo vercelloni - [gallery ids="7710,7711,7712,7713,7714,7715,7716,7717,7718,7719,7720,7721,7722,7723,7724"]Come, con la crisi economica si è detto basta agli eccessi finanziari è arrivato il momento di fermare anche gli eccessi degli architetti […] troppo spesso, ultimamente, gli architetti sono stati chiamati come maître patissier a preparare la torta di nozze del padrone di casa, ossia del committente. Che identifica nell’architetto lo specialista che, al meglio, attraverso un edificio può pubblicizzare il suo nome o il suo marchio. Che, di per sé, non è una colpa. Però quando a Michelangelo fu affidato l’incarico per la cupola di San Pietro era sì un’operazione di ‘promozione’ del papato, ma al contempo una renovatio urbis”. Le affermazioni di David Chipperfield, in parte rese esplicite dalla sua Biennale di Architettura, non lasciano spazio al dubbio: è tempo di ritornare a intendere l’architettura come una disciplina complessa che si confronta con la storia e la memoria, con le città e i suoi cittadini e che, come affermava Aldo Rossi è da assumere come “opera d’arte collettiva”. La 13a Biennale di architettura veneziana nella sua molteplice rassegna di punti di vista tende a consegnarci tale messaggio senza mortificare o ridurre le specifiche poetiche e le singole espressioni di ogni architetto che però cercano di offrirsi come occasione di confronto più che come momento di presentazione professionale. Molti sono i temi che si possono rintracciare nella visita alla mostra tra le Corderie e i Giardini, alcuni sottolineano le intenzioni iniziali: partecipazione civile, riuso e sostenibilità, presenza della storia, progetti condivisi, senso e uso della città e dei suoi spazi, valore del paesaggio come risorsa strategica. Non si tratta tuttavia della celebrazione del tramonto della figura dell’archistar, piuttosto di individuare percorsi che leghino il progetto di architettura al suo senso urbano, per estendersi a volte alla scala territoriale come macrostrutture abitate (è il caso del progetto dei ponti architettonici per Stoccolma, pensati da Jean Nouvel e Mia Hägg per unire il centro storico di Gamla Stan all’isola più a sud della città; o all’avveniristico Global Hub AIR+PORT dello studio BIG/ Bjarke Ingels Group, sperimentale sintesi tipologica tra un aeroporto galleggiante e un porto navale previsto tra i ghiacci della Groenlandia a Nuuk). In generale in tutta la mostra si respira aria di complessità e questo può indurre a rendere più difficile e sfuggente il messaggio che non vuole essere di tipo ‘spettacolare’, ma fondativo. La camera scura di Norman Foster, Gateway, che accoglie i visitatori alle spalle dell’ingresso funge in fondo da manifesto introduttivo con la ‘storia’ proiettata sul pavimento nero nella forma di disegni, nomi dei protagonisti della cultura architettonica, messaggi, che si confrontano con lo spazio storico e contemporaneo dei raduni collettivi offerto da un serrato ritmo di immagini proiettate che ci avvolgono in alto, sui quattro lati delle pareti. Ordine e disordine per capire l’uso dell’architettura che a volte appare ‘improprio’, ma allo stesso tempo inarrestabile e spontaneo. Come appunto quello che avviene in uno dei monumenti architettonici contemporanei di Hong Kong: la Bank of China dello stesso Foster (in mostra ai Giardini) il cui piano terreno, pensato come ‘luogo pubblico’ e di passaggio sin dalla sua inaugurazione, si trasforma ogni domenica in una sorta di centro d’incontro della comunità delle colf filippine che, frammentandolo in microspazi con temporanei setti di cartone, attiva una straordinaria e pacifica varietà di attività sociali. In altro modo la riappropriazione di spazi urbani è rappresentata dal caso della Torre David a Caracas rappresentato dall’allestimento a cura di Urban Think Tank (Leone d’Oro quale miglior progetto della Mostra internazionale). Una torre per uffici rimasta incompleta è diventata una favela verticale nel centro urbano, simbolo del fallimento del neoliberismo e del self-empowerment delle classi povere, formando una nuova comunità spontanea, “modello ispiratore che riconosce la forza delle associazioni informali” (dalle motivazioni della Giuria), che ne ha trasformato gli spazi in una nuova casa collettiva con una propria identità. Valori di appartenenza restituiti dal progetto in mostra nella forma del ristorante di fantasia Gran Horizonte (punto d’incontro e di sosta lungo il percorso delle corderie) e dalla serie di fotografie di Iwan Baan che documentano momenti di vita della comunità spontanea. Partecipazione e tensione verso lo sviluppo urbano ‘dal basso’ sono testimoniati anche dalla ricerca di Elke Krasny, Hand –On Urbanism 1850-2012, e dal padiglione degli Stati Uniti d’America con il suo Spontaneous Interventions: Design Actions for the Common Good (menzione speciale della Giuria), dove una selezione di progetti ad opera di architetti, designer, urbanisti e semplici cittadini, configurano un mosaico di idee, proposte e realizzazioni, tese a “espandere la bellezza, il benessere, la funzionalità, la sicurezza e la sostenibilità delle città [dove] sperimentale, informale, alternativo, spontaneo, improvvisato, partecipativo, migliorativo, sono soltanto alcune delle parole che sono usate per descrivere questo movimento che si sta diffondendo sempre più a livello internazionale”. Ma dove forse al meglio si restituisce lo slogan del Commun Ground della Biennale veneziana è nell’Architecture possible here? Home-for-all del padiglione Giapponese (a cura di Toyo Ito, con allestimento di Akihisha Hirata, Sou Fujimoto, Kumiko Inui, Leone d’Oro per la migliore partecipazione nazionale), in cui la collaborazione e il confronto con la popolazione colpita dallo tsunami ha portato alla definizione di un nuovo centro d’incontro con la comunità locale, primo step di un programma in grado di generare la ‘voglia di casa’ in una regione devastata da una catastrofe nazionale. Tra uno sguardo alla storia e la ricerca di un confronto con il passato in termini attuali (l’omaggio alla magia compositiva dell’architetto barocco inglese Nicholas Hawksmoor, la bella mostra Facecity di Fulvio Irace dedicata al paesaggio urbano milanese del secondo dopoguerra, il Pasticcio di Caruso St. John teso a rintracciare una “continuità tra l’architettura contemporanea e quella antecedente al modernismo”, i ‘ritratti’ dei padiglioni della Biennale di Gabriele Basilico nell’allestimento di Diener & Diener, le radici storiche dichiarate da parte della ricerca sulla forma algoritmica di Zaha Hadid) i temi legati alla sostenibilità e al riuso sono emersi in più occasioni. Reduce/Reuse/Recycle – Architecture as Resource è il titolo-programma della Germania dove si dichiara apertamente che ogni costruzione è una risorsa con cui confrontarsi abbandonando la serialità tardo modernista della demolizione-progetto-ricostruzione; “secondo la logica di Reduce/Reuse/Recycle diverse strategie di ristrutturazione si possono classificare in base al rapporto fra vecchio e nuovo, fra l’intensità dell’intervento e il livello di modificazione. Trattando l’architettura edificata come una risorsa sostanziale e formale, si rende disponibile un’ampia gamma di possibilità e di approcci”. All’idea di sviluppo di una nuova consapevolezza rispetto al paesaggio urbano che ci circonda si riferisce anche la Svizzera, mentre la Russia, con i-city a cura di Sergei Tchoban (menzione speciale per l’allestimento e il tema trattato), dedica il suo padiglione, rivestito da pannelli metallici serigrafati da codici QR interattivi con tablet dati ai visitatori all’ingresso, al nuovo paesaggio in divenire del Centro d’innovazione di Skolkovo letto in rapporto alla storia delle città della scienza del Paese. Il verde, superata ogni dimensione semplicemente estetica, diventa fattore simbolico nel bosco di felci del Padiglione Italia di Luca Zevi che, oltre a sottolineare il valore dell’architettura per la produzione, emersa forse in modo inconsapevole dal solco della lezione di Adriano Olivetti, ci ricorda il valore del territorio e la necessità del suo mantenimento e gestione, oggi sempre più in abbandono anche in relazione alla flessione delle coltivazioni agricole (presidio di gestione del paesaggio in senso lato). Mentre ancora il verde (tradotto in piantumazioni di canne comuni) diventa strumento di riqualificazione strutturale nella prima partecipazione dell’Angola. In Beyond Entropy Angola, a cura di Stefano Rabolli Pansera e Paula Nascimento, si affronta il caso delle aree di conurbazione senza urbanità di Luanda, città ad alta densità senza avere però edifici a più livelli. In questa crescita esponenziale dell’occupazione del suolo, nella mancanza totale di infrastrutture basilari, l’idea di piantumare gli spazi interstiziali tra le costruzioni con la canna comune (Arundo Donax) che cresce anche lungo i nostri fiumi, permette di trasformare il ‘verde’ o meglio il paesaggio in strumento di riqualificazione operativo a breve periodo: la canna cresce con grande rapidità (raggiungerà a fine novembre il soffitto dello spazio all’isola di San Giorgio dove è ospitato l’allestimento) e i filamenti finissimi del suo rizoma alla radice filtrano in modo naturale le acque sporche, mentre il fusto rigido assorbe grandi quantità di CO2 rendendolo ideale per la biomassa. Quello proposto è un modello urbanistico sostenibile in grado di diventare esempio-guida per i Paesi sub-sahariani. Non mancano nella mostra allestimenti ‘hot spot’, emergenti dal punto di vista della presenza architettonica e scenica, tra cui la struttura metallica Arum di Zaha Hadid, e l’allestimento Copycat di Cino Zucchi (menzione d’onore) metafora di una sommatoria architettonica e allo stesso tempo luogo di memorie domestiche, di oggetti e immagini in grado di produrre efficaci rimandi di scala, di abitudini e usi. Nei pressi del Giardino delle Vergini si fronteggiano infine le due architetture di Alvaro Siza e di Eduardo Souto de Moura rapportate alla densità dell’ambiente urbano veneziano la prima e al paesaggio dell’intorno, incorniciato dalle sue aperture e rapporti di spazi, il secondo. Una mostra che racconta temi, che delinea possibili percorsi, più che mostrare la magnificenza e la spettacolarità di opere singole. D’altra parte come ci ricorda lo stesso Chipperfield “progettare architetture che siano parte di un panorama quotidiano è sicuramente una bella sfida, molto più rischiosa e affascinante della creazione di un maxigrattacielo”.
foto di sergio pirrone, matteo vercelloni
testo di matteo vercelloni - [gallery ids="7710,7711,7712,7713,7714,7715,7716,7717,7718,7719,7720,7721,7722,7723,7724"]Come, con la crisi economica si è detto basta agli eccessi finanziari è arrivato il momento di fermare anche gli eccessi degli architetti […] troppo spesso, ultimamente, gli architetti sono stati chiamati come maître patissier a preparare la torta di nozze del padrone di casa, ossia del committente. Che identifica nell’architetto lo specialista che, al meglio, attraverso un edificio può pubblicizzare il suo nome o il suo marchio. Che, di per sé, non è una colpa. Però quando a Michelangelo fu affidato l’incarico per la cupola di San Pietro era sì un’operazione di ‘promozione’ del papato, ma al contempo una renovatio urbis”. Le affermazioni di David Chipperfield, in parte rese esplicite dalla sua Biennale di Architettura, non lasciano spazio al dubbio: è tempo di ritornare a intendere l’architettura come una disciplina complessa che si confronta con la storia e la memoria, con le città e i suoi cittadini e che, come affermava Aldo Rossi è da assumere come “opera d’arte collettiva”. La 13a Biennale di architettura veneziana nella sua molteplice rassegna di punti di vista tende a consegnarci tale messaggio senza mortificare o ridurre le specifiche poetiche e le singole espressioni di ogni architetto che però cercano di offrirsi come occasione di confronto più che come momento di presentazione professionale. Molti sono i temi che si possono rintracciare nella visita alla mostra tra le Corderie e i Giardini, alcuni sottolineano le intenzioni iniziali: partecipazione civile, riuso e sostenibilità, presenza della storia, progetti condivisi, senso e uso della città e dei suoi spazi, valore del paesaggio come risorsa strategica. Non si tratta tuttavia della celebrazione del tramonto della figura dell’archistar, piuttosto di individuare percorsi che leghino il progetto di architettura al suo senso urbano, per estendersi a volte alla scala territoriale come macrostrutture abitate (è il caso del progetto dei ponti architettonici per Stoccolma, pensati da Jean Nouvel e Mia Hägg per unire il centro storico di Gamla Stan all’isola più a sud della città; o all’avveniristico Global Hub AIR+PORT dello studio BIG/ Bjarke Ingels Group, sperimentale sintesi tipologica tra un aeroporto galleggiante e un porto navale previsto tra i ghiacci della Groenlandia a Nuuk). In generale in tutta la mostra si respira aria di complessità e questo può indurre a rendere più difficile e sfuggente il messaggio che non vuole essere di tipo ‘spettacolare’, ma fondativo. La camera scura di Norman Foster, Gateway, che accoglie i visitatori alle spalle dell’ingresso funge in fondo da manifesto introduttivo con la ‘storia’ proiettata sul pavimento nero nella forma di disegni, nomi dei protagonisti della cultura architettonica, messaggi, che si confrontano con lo spazio storico e contemporaneo dei raduni collettivi offerto da un serrato ritmo di immagini proiettate che ci avvolgono in alto, sui quattro lati delle pareti. Ordine e disordine per capire l’uso dell’architettura che a volte appare ‘improprio’, ma allo stesso tempo inarrestabile e spontaneo. Come appunto quello che avviene in uno dei monumenti architettonici contemporanei di Hong Kong: la Bank of China dello stesso Foster (in mostra ai Giardini) il cui piano terreno, pensato come ‘luogo pubblico’ e di passaggio sin dalla sua inaugurazione, si trasforma ogni domenica in una sorta di centro d’incontro della comunità delle colf filippine che, frammentandolo in microspazi con temporanei setti di cartone, attiva una straordinaria e pacifica varietà di attività sociali. In altro modo la riappropriazione di spazi urbani è rappresentata dal caso della Torre David a Caracas rappresentato dall’allestimento a cura di Urban Think Tank (Leone d’Oro quale miglior progetto della Mostra internazionale). Una torre per uffici rimasta incompleta è diventata una favela verticale nel centro urbano, simbolo del fallimento del neoliberismo e del self-empowerment delle classi povere, formando una nuova comunità spontanea, “modello ispiratore che riconosce la forza delle associazioni informali” (dalle motivazioni della Giuria), che ne ha trasformato gli spazi in una nuova casa collettiva con una propria identità. Valori di appartenenza restituiti dal progetto in mostra nella forma del ristorante di fantasia Gran Horizonte (punto d’incontro e di sosta lungo il percorso delle corderie) e dalla serie di fotografie di Iwan Baan che documentano momenti di vita della comunità spontanea. Partecipazione e tensione verso lo sviluppo urbano ‘dal basso’ sono testimoniati anche dalla ricerca di Elke Krasny, Hand –On Urbanism 1850-2012, e dal padiglione degli Stati Uniti d’America con il suo Spontaneous Interventions: Design Actions for the Common Good (menzione speciale della Giuria), dove una selezione di progetti ad opera di architetti, designer, urbanisti e semplici cittadini, configurano un mosaico di idee, proposte e realizzazioni, tese a “espandere la bellezza, il benessere, la funzionalità, la sicurezza e la sostenibilità delle città [dove] sperimentale, informale, alternativo, spontaneo, improvvisato, partecipativo, migliorativo, sono soltanto alcune delle parole che sono usate per descrivere questo movimento che si sta diffondendo sempre più a livello internazionale”. Ma dove forse al meglio si restituisce lo slogan del Commun Ground della Biennale veneziana è nell’Architecture possible here? Home-for-all del padiglione Giapponese (a cura di Toyo Ito, con allestimento di Akihisha Hirata, Sou Fujimoto, Kumiko Inui, Leone d’Oro per la migliore partecipazione nazionale), in cui la collaborazione e il confronto con la popolazione colpita dallo tsunami ha portato alla definizione di un nuovo centro d’incontro con la comunità locale, primo step di un programma in grado di generare la ‘voglia di casa’ in una regione devastata da una catastrofe nazionale. Tra uno sguardo alla storia e la ricerca di un confronto con il passato in termini attuali (l’omaggio alla magia compositiva dell’architetto barocco inglese Nicholas Hawksmoor, la bella mostra Facecity di Fulvio Irace dedicata al paesaggio urbano milanese del secondo dopoguerra, il Pasticcio di Caruso St. John teso a rintracciare una “continuità tra l’architettura contemporanea e quella antecedente al modernismo”, i ‘ritratti’ dei padiglioni della Biennale di Gabriele Basilico nell’allestimento di Diener & Diener, le radici storiche dichiarate da parte della ricerca sulla forma algoritmica di Zaha Hadid) i temi legati alla sostenibilità e al riuso sono emersi in più occasioni. Reduce/Reuse/Recycle – Architecture as Resource è il titolo-programma della Germania dove si dichiara apertamente che ogni costruzione è una risorsa con cui confrontarsi abbandonando la serialità tardo modernista della demolizione-progetto-ricostruzione; “secondo la logica di Reduce/Reuse/Recycle diverse strategie di ristrutturazione si possono classificare in base al rapporto fra vecchio e nuovo, fra l’intensità dell’intervento e il livello di modificazione. Trattando l’architettura edificata come una risorsa sostanziale e formale, si rende disponibile un’ampia gamma di possibilità e di approcci”. All’idea di sviluppo di una nuova consapevolezza rispetto al paesaggio urbano che ci circonda si riferisce anche la Svizzera, mentre la Russia, con i-city a cura di Sergei Tchoban (menzione speciale per l’allestimento e il tema trattato), dedica il suo padiglione, rivestito da pannelli metallici serigrafati da codici QR interattivi con tablet dati ai visitatori all’ingresso, al nuovo paesaggio in divenire del Centro d’innovazione di Skolkovo letto in rapporto alla storia delle città della scienza del Paese. Il verde, superata ogni dimensione semplicemente estetica, diventa fattore simbolico nel bosco di felci del Padiglione Italia di Luca Zevi che, oltre a sottolineare il valore dell’architettura per la produzione, emersa forse in modo inconsapevole dal solco della lezione di Adriano Olivetti, ci ricorda il valore del territorio e la necessità del suo mantenimento e gestione, oggi sempre più in abbandono anche in relazione alla flessione delle coltivazioni agricole (presidio di gestione del paesaggio in senso lato). Mentre ancora il verde (tradotto in piantumazioni di canne comuni) diventa strumento di riqualificazione strutturale nella prima partecipazione dell’Angola. In Beyond Entropy Angola, a cura di Stefano Rabolli Pansera e Paula Nascimento, si affronta il caso delle aree di conurbazione senza urbanità di Luanda, città ad alta densità senza avere però edifici a più livelli. In questa crescita esponenziale dell’occupazione del suolo, nella mancanza totale di infrastrutture basilari, l’idea di piantumare gli spazi interstiziali tra le costruzioni con la canna comune (Arundo Donax) che cresce anche lungo i nostri fiumi, permette di trasformare il ‘verde’ o meglio il paesaggio in strumento di riqualificazione operativo a breve periodo: la canna cresce con grande rapidità (raggiungerà a fine novembre il soffitto dello spazio all’isola di San Giorgio dove è ospitato l’allestimento) e i filamenti finissimi del suo rizoma alla radice filtrano in modo naturale le acque sporche, mentre il fusto rigido assorbe grandi quantità di CO2 rendendolo ideale per la biomassa. Quello proposto è un modello urbanistico sostenibile in grado di diventare esempio-guida per i Paesi sub-sahariani. Non mancano nella mostra allestimenti ‘hot spot’, emergenti dal punto di vista della presenza architettonica e scenica, tra cui la struttura metallica Arum di Zaha Hadid, e l’allestimento Copycat di Cino Zucchi (menzione d’onore) metafora di una sommatoria architettonica e allo stesso tempo luogo di memorie domestiche, di oggetti e immagini in grado di produrre efficaci rimandi di scala, di abitudini e usi. Nei pressi del Giardino delle Vergini si fronteggiano infine le due architetture di Alvaro Siza e di Eduardo Souto de Moura rapportate alla densità dell’ambiente urbano veneziano la prima e al paesaggio dell’intorno, incorniciato dalle sue aperture e rapporti di spazi, il secondo. Una mostra che racconta temi, che delinea possibili percorsi, più che mostrare la magnificenza e la spettacolarità di opere singole. D’altra parte come ci ricorda lo stesso Chipperfield “progettare architetture che siano parte di un panorama quotidiano è sicuramente una bella sfida, molto più rischiosa e affascinante della creazione di un maxigrattacielo”.
foto di sergio pirrone, matteo vercelloni
testo di matteo vercelloni -
Come, con la crisi economica si è detto basta agli eccessi finanziari è arrivato il momento di fermare anche gli eccessi degli architetti […] troppo spesso, ultimamente, gli architetti sono stati chiamati come maître patissier a preparare la torta di nozze del padrone di casa, ossia del committente. Che identifica nell’architetto lo specialista che, al meglio, attraverso un edificio può pubblicizzare il suo nome o il suo marchio. Che, di per sé, non è una colpa. Però quando a Michelangelo fu affidato l’incarico per la cupola di San Pietro era sì un’operazione di ‘promozione’ del papato, ma al contempo una renovatio urbis”. Le affermazioni di David Chipperfield, in parte rese esplicite dalla sua Biennale di Architettura, non lasciano spazio al dubbio: è tempo di ritornare a intendere l’architettura come una disciplina complessa che si confronta con la storia e la memoria, con le città e i suoi cittadini e che, come affermava Aldo Rossi è da assumere come “opera d’arte collettiva”. La 13a Biennale di architettura veneziana nella sua molteplice rassegna di punti di vista tende a consegnarci tale messaggio senza mortificare o ridurre le specifiche poetiche e le singole espressioni di ogni architetto che però cercano di offrirsi come occasione di confronto più che come momento di presentazione professionale. Molti sono i temi che si possono rintracciare nella visita alla mostra tra le Corderie e i Giardini, alcuni sottolineano le intenzioni iniziali: partecipazione civile, riuso e sostenibilità, presenza della storia, progetti condivisi, senso e uso della città e dei suoi spazi, valore del paesaggio come risorsa strategica. Non si tratta tuttavia della celebrazione del tramonto della figura dell’archistar, piuttosto di individuare percorsi che leghino il progetto di architettura al suo senso urbano, per estendersi a volte alla scala territoriale come macrostrutture abitate (è il caso del progetto dei ponti architettonici per Stoccolma, pensati da Jean Nouvel e Mia Hägg per unire il centro storico di Gamla Stan all’isola più a sud della città; o all’avveniristico Global Hub AIR+PORT dello studio BIG/ Bjarke Ingels Group, sperimentale sintesi tipologica tra un aeroporto galleggiante e un porto navale previsto tra i ghiacci della Groenlandia a Nuuk). In generale in tutta la mostra si respira aria di complessità e questo può indurre a rendere più difficile e sfuggente il messaggio che non vuole essere di tipo ‘spettacolare’, ma fondativo. La camera scura di Norman Foster, Gateway, che accoglie i visitatori alle spalle dell’ingresso funge in fondo da manifesto introduttivo con la ‘storia’ proiettata sul pavimento nero nella forma di disegni, nomi dei protagonisti della cultura architettonica, messaggi, che si confrontano con lo spazio storico e contemporaneo dei raduni collettivi offerto da un serrato ritmo di immagini proiettate che ci avvolgono in alto, sui quattro lati delle pareti. Ordine e disordine per capire l’uso dell’architettura che a volte appare ‘improprio’, ma allo stesso tempo inarrestabile e spontaneo. Come appunto quello che avviene in uno dei monumenti architettonici contemporanei di Hong Kong: la Bank of China dello stesso Foster (in mostra ai Giardini) il cui piano terreno, pensato come ‘luogo pubblico’ e di passaggio sin dalla sua inaugurazione, si trasforma ogni domenica in una sorta di centro d’incontro della comunità delle colf filippine che, frammentandolo in microspazi con temporanei setti di cartone, attiva una straordinaria e pacifica varietà di attività sociali. In altro modo la riappropriazione di spazi urbani è rappresentata dal caso della Torre David a Caracas rappresentato dall’allestimento a cura di Urban Think Tank (Leone d’Oro quale miglior progetto della Mostra internazionale). Una torre per uffici rimasta incompleta è diventata una favela verticale nel centro urbano, simbolo del fallimento del neoliberismo e del self-empowerment delle classi povere, formando una nuova comunità spontanea, “modello ispiratore che riconosce la forza delle associazioni informali” (dalle motivazioni della Giuria), che ne ha trasformato gli spazi in una nuova casa collettiva con una propria identità. Valori di appartenenza restituiti dal progetto in mostra nella forma del ristorante di fantasia Gran Horizonte (punto d’incontro e di sosta lungo il percorso delle corderie) e dalla serie di fotografie di Iwan Baan che documentano momenti di vita della comunità spontanea. Partecipazione e tensione verso lo sviluppo urbano ‘dal basso’ sono testimoniati anche dalla ricerca di Elke Krasny, Hand –On Urbanism 1850-2012, e dal padiglione degli Stati Uniti d’America con il suo Spontaneous Interventions: Design Actions for the Common Good (menzione speciale della Giuria), dove una selezione di progetti ad opera di architetti, designer, urbanisti e semplici cittadini, configurano un mosaico di idee, proposte e realizzazioni, tese a “espandere la bellezza, il benessere, la funzionalità, la sicurezza e la sostenibilità delle città [dove] sperimentale, informale, alternativo, spontaneo, improvvisato, partecipativo, migliorativo, sono soltanto alcune delle parole che sono usate per descrivere questo movimento che si sta diffondendo sempre più a livello internazionale”. Ma dove forse al meglio si restituisce lo slogan del Commun Ground della Biennale veneziana è nell’Architecture possible here? Home-for-all del padiglione Giapponese (a cura di Toyo Ito, con allestimento di Akihisha Hirata, Sou Fujimoto, Kumiko Inui, Leone d’Oro per la migliore partecipazione nazionale), in cui la collaborazione e il confronto con la popolazione colpita dallo tsunami ha portato alla definizione di un nuovo centro d’incontro con la comunità locale, primo step di un programma in grado di generare la ‘voglia di casa’ in una regione devastata da una catastrofe nazionale. Tra uno sguardo alla storia e la ricerca di un confronto con il passato in termini attuali (l’omaggio alla magia compositiva dell’architetto barocco inglese Nicholas Hawksmoor, la bella mostra Facecity di Fulvio Irace dedicata al paesaggio urbano milanese del secondo dopoguerra, il Pasticcio di Caruso St. John teso a rintracciare una “continuità tra l’architettura contemporanea e quella antecedente al modernismo”, i ‘ritratti’ dei padiglioni della Biennale di Gabriele Basilico nell’allestimento di Diener & Diener, le radici storiche dichiarate da parte della ricerca sulla forma algoritmica di Zaha Hadid) i temi legati alla sostenibilità e al riuso sono emersi in più occasioni. Reduce/Reuse/Recycle – Architecture as Resource è il titolo-programma della Germania dove si dichiara apertamente che ogni costruzione è una risorsa con cui confrontarsi abbandonando la serialità tardo modernista della demolizione-progetto-ricostruzione; “secondo la logica di Reduce/Reuse/Recycle diverse strategie di ristrutturazione si possono classificare in base al rapporto fra vecchio e nuovo, fra l’intensità dell’intervento e il livello di modificazione. Trattando l’architettura edificata come una risorsa sostanziale e formale, si rende disponibile un’ampia gamma di possibilità e di approcci”. All’idea di sviluppo di una nuova consapevolezza rispetto al paesaggio urbano che ci circonda si riferisce anche la Svizzera, mentre la Russia, con i-city a cura di Sergei Tchoban (menzione speciale per l’allestimento e il tema trattato), dedica il suo padiglione, rivestito da pannelli metallici serigrafati da codici QR interattivi con tablet dati ai visitatori all’ingresso, al nuovo paesaggio in divenire del Centro d’innovazione di Skolkovo letto in rapporto alla storia delle città della scienza del Paese. Il verde, superata ogni dimensione semplicemente estetica, diventa fattore simbolico nel bosco di felci del Padiglione Italia di Luca Zevi che, oltre a sottolineare il valore dell’architettura per la produzione, emersa forse in modo inconsapevole dal solco della lezione di Adriano Olivetti, ci ricorda il valore del territorio e la necessità del suo mantenimento e gestione, oggi sempre più in abbandono anche in relazione alla flessione delle coltivazioni agricole (presidio di gestione del paesaggio in senso lato). Mentre ancora il verde (tradotto in piantumazioni di canne comuni) diventa strumento di riqualificazione strutturale nella prima partecipazione dell’Angola. In Beyond Entropy Angola, a cura di Stefano Rabolli Pansera e Paula Nascimento, si affronta il caso delle aree di conurbazione senza urbanità di Luanda, città ad alta densità senza avere però edifici a più livelli. In questa crescita esponenziale dell’occupazione del suolo, nella mancanza totale di infrastrutture basilari, l’idea di piantumare gli spazi interstiziali tra le costruzioni con la canna comune (Arundo Donax) che cresce anche lungo i nostri fiumi, permette di trasformare il ‘verde’ o meglio il paesaggio in strumento di riqualificazione operativo a breve periodo: la canna cresce con grande rapidità (raggiungerà a fine novembre il soffitto dello spazio all’isola di San Giorgio dove è ospitato l’allestimento) e i filamenti finissimi del suo rizoma alla radice filtrano in modo naturale le acque sporche, mentre il fusto rigido assorbe grandi quantità di CO2 rendendolo ideale per la biomassa. Quello proposto è un modello urbanistico sostenibile in grado di diventare esempio-guida per i Paesi sub-sahariani. Non mancano nella mostra allestimenti ‘hot spot’, emergenti dal punto di vista della presenza architettonica e scenica, tra cui la struttura metallica Arum di Zaha Hadid, e l’allestimento Copycat di Cino Zucchi (menzione d’onore) metafora di una sommatoria architettonica e allo stesso tempo luogo di memorie domestiche, di oggetti e immagini in grado di produrre efficaci rimandi di scala, di abitudini e usi. Nei pressi del Giardino delle Vergini si fronteggiano infine le due architetture di Alvaro Siza e di Eduardo Souto de Moura rapportate alla densità dell’ambiente urbano veneziano la prima e al paesaggio dell’intorno, incorniciato dalle sue aperture e rapporti di spazi, il secondo. Una mostra che racconta temi, che delinea possibili percorsi, più che mostrare la magnificenza e la spettacolarità di opere singole. D’altra parte come ci ricorda lo stesso Chipperfield “progettare architetture che siano parte di un panorama quotidiano è sicuramente una bella sfida, molto più rischiosa e affascinante della creazione di un maxigrattacielo”.
foto di sergio pirrone, matteo vercelloni
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Le affermazioni di David Chipperfield, in parte rese esplicite dalla sua Biennale di Architettura, non lasciano spazio al dubbio: è tempo di ritornare a intendere l’architettura come una disciplina complessa che si confronta con la storia e la memoria, con le città e i suoi cittadini e che, come affermava Aldo Rossi è da assumere come “opera d’arte collettiva”. La 13a Biennale di architettura veneziana nella sua molteplice rassegna di punti di vista tende a consegnarci tale messaggio senza mortificare o ridurre le specifiche poetiche e le singole espressioni di ogni architetto che però cercano di offrirsi come occasione di confronto più che come momento di presentazione professionale. Molti sono i temi che si possono rintracciare nella visita alla mostra tra le Corderie e i Giardini, alcuni sottolineano le intenzioni iniziali: partecipazione civile, riuso e sostenibilità, presenza della storia, progetti condivisi, senso e uso della città e dei suoi spazi, valore del paesaggio come risorsa strategica. Non si tratta tuttavia della celebrazione del tramonto della figura dell’archistar, piuttosto di individuare percorsi che leghino il progetto di architettura al suo senso urbano, per estendersi a volte alla scala territoriale come macrostrutture abitate (è il caso del progetto dei ponti architettonici per Stoccolma, pensati da Jean Nouvel e Mia Hägg per unire il centro storico di Gamla Stan all’isola più a sud della città; o all’avveniristico Global Hub AIR+PORT dello studio BIG/ Bjarke Ingels Group, sperimentale sintesi tipologica tra un aeroporto galleggiante e un porto navale previsto tra i ghiacci della Groenlandia a Nuuk). In generale in tutta la mostra si respira aria di complessità e questo può indurre a rendere più difficile e sfuggente il messaggio che non vuole essere di tipo ‘spettacolare’, ma fondativo. La camera scura di Norman Foster, Gateway, che accoglie i visitatori alle spalle dell’ingresso funge in fondo da manifesto introduttivo con la ‘storia’ proiettata sul pavimento nero nella forma di disegni, nomi dei protagonisti della cultura architettonica, messaggi, che si confrontano con lo spazio storico e contemporaneo dei raduni collettivi offerto da un serrato ritmo di immagini proiettate che ci avvolgono in alto, sui quattro lati delle pareti. Ordine e disordine per capire l’uso dell’architettura che a volte appare ‘improprio’, ma allo stesso tempo inarrestabile e spontaneo. Come appunto quello che avviene in uno dei monumenti architettonici contemporanei di Hong Kong: la Bank of China dello stesso Foster (in mostra ai Giardini) il cui piano terreno, pensato come ‘luogo pubblico’ e di passaggio sin dalla sua inaugurazione, si trasforma ogni domenica in una sorta di centro d’incontro della comunità delle colf filippine che, frammentandolo in microspazi con temporanei setti di cartone, attiva una straordinaria e pacifica varietà di attività sociali. In altro modo la riappropriazione di spazi urbani è rappresentata dal caso della Torre David a Caracas rappresentato dall’allestimento a cura di Urban Think Tank (Leone d’Oro quale miglior progetto della Mostra internazionale). Una torre per uffici rimasta incompleta è diventata una favela verticale nel centro urbano, simbolo del fallimento del neoliberismo e del self-empowerment delle classi povere, formando una nuova comunità spontanea, “modello ispiratore che riconosce la forza delle associazioni informali” (dalle motivazioni della Giuria), che ne ha trasformato gli spazi in una nuova casa collettiva con una propria identità. Valori di appartenenza restituiti dal progetto in mostra nella forma del ristorante di fantasia Gran Horizonte (punto d’incontro e di sosta lungo il percorso delle corderie) e dalla serie di fotografie di Iwan Baan che documentano momenti di vita della comunità spontanea. Partecipazione e tensione verso lo sviluppo urbano ‘dal basso’ sono testimoniati anche dalla ricerca di Elke Krasny, Hand –On Urbanism 1850-2012, e dal padiglione degli Stati Uniti d’America con il suo Spontaneous Interventions: Design Actions for the Common Good (menzione speciale della Giuria), dove una selezione di progetti ad opera di architetti, designer, urbanisti e semplici cittadini, configurano un mosaico di idee, proposte e realizzazioni, tese a “espandere la bellezza, il benessere, la funzionalità, la sicurezza e la sostenibilità delle città [dove] sperimentale, informale, alternativo, spontaneo, improvvisato, partecipativo, migliorativo, sono soltanto alcune delle parole che sono usate per descrivere questo movimento che si sta diffondendo sempre più a livello internazionale”. Ma dove forse al meglio si restituisce lo slogan del Commun Ground della Biennale veneziana è nell’Architecture possible here? Home-for-all del padiglione Giapponese (a cura di Toyo Ito, con allestimento di Akihisha Hirata, Sou Fujimoto, Kumiko Inui, Leone d’Oro per la migliore partecipazione nazionale), in cui la collaborazione e il confronto con la popolazione colpita dallo tsunami ha portato alla definizione di un nuovo centro d’incontro con la comunità locale, primo step di un programma in grado di generare la ‘voglia di casa’ in una regione devastata da una catastrofe nazionale. Tra uno sguardo alla storia e la ricerca di un confronto con il passato in termini attuali (l’omaggio alla magia compositiva dell’architetto barocco inglese Nicholas Hawksmoor, la bella mostra Facecity di Fulvio Irace dedicata al paesaggio urbano milanese del secondo dopoguerra, il Pasticcio di Caruso St. John teso a rintracciare una “continuità tra l’architettura contemporanea e quella antecedente al modernismo”, i ‘ritratti’ dei padiglioni della Biennale di Gabriele Basilico nell’allestimento di Diener & Diener, le radici storiche dichiarate da parte della ricerca sulla forma algoritmica di Zaha Hadid) i temi legati alla sostenibilità e al riuso sono emersi in più occasioni. Reduce/Reuse/Recycle – Architecture as Resource è il titolo-programma della Germania dove si dichiara apertamente che ogni costruzione è una risorsa con cui confrontarsi abbandonando la serialità tardo modernista della demolizione-progetto-ricostruzione; “secondo la logica di Reduce/Reuse/Recycle diverse strategie di ristrutturazione si possono classificare in base al rapporto fra vecchio e nuovo, fra l’intensità dell’intervento e il livello di modificazione. Trattando l’architettura edificata come una risorsa sostanziale e formale, si rende disponibile un’ampia gamma di possibilità e di approcci”. All’idea di sviluppo di una nuova consapevolezza rispetto al paesaggio urbano che ci circonda si riferisce anche la Svizzera, mentre la Russia, con i-city a cura di Sergei Tchoban (menzione speciale per l’allestimento e il tema trattato), dedica il suo padiglione, rivestito da pannelli metallici serigrafati da codici QR interattivi con tablet dati ai visitatori all’ingresso, al nuovo paesaggio in divenire del Centro d’innovazione di Skolkovo letto in rapporto alla storia delle città della scienza del Paese. Il verde, superata ogni dimensione semplicemente estetica, diventa fattore simbolico nel bosco di felci del Padiglione Italia di Luca Zevi che, oltre a sottolineare il valore dell’architettura per la produzione, emersa forse in modo inconsapevole dal solco della lezione di Adriano Olivetti, ci ricorda il valore del territorio e la necessità del suo mantenimento e gestione, oggi sempre più in abbandono anche in relazione alla flessione delle coltivazioni agricole (presidio di gestione del paesaggio in senso lato). Mentre ancora il verde (tradotto in piantumazioni di canne comuni) diventa strumento di riqualificazione strutturale nella prima partecipazione dell’Angola. In Beyond Entropy Angola, a cura di Stefano Rabolli Pansera e Paula Nascimento, si affronta il caso delle aree di conurbazione senza urbanità di Luanda, città ad alta densità senza avere però edifici a più livelli. In questa crescita esponenziale dell’occupazione del suolo, nella mancanza totale di infrastrutture basilari, l’idea di piantumare gli spazi interstiziali tra le costruzioni con la canna comune (Arundo Donax) che cresce anche lungo i nostri fiumi, permette di trasformare il ‘verde’ o meglio il paesaggio in strumento di riqualificazione operativo a breve periodo: la canna cresce con grande rapidità (raggiungerà a fine novembre il soffitto dello spazio all’isola di San Giorgio dove è ospitato l’allestimento) e i filamenti finissimi del suo rizoma alla radice filtrano in modo naturale le acque sporche, mentre il fusto rigido assorbe grandi quantità di CO2 rendendolo ideale per la biomassa. Quello proposto è un modello urbanistico sostenibile in grado di diventare esempio-guida per i Paesi sub-sahariani. Non mancano nella mostra allestimenti ‘hot spot’, emergenti dal punto di vista della presenza architettonica e scenica, tra cui la struttura metallica Arum di Zaha Hadid, e l’allestimento Copycat di Cino Zucchi (menzione d’onore) metafora di una sommatoria architettonica e allo stesso tempo luogo di memorie domestiche, di oggetti e immagini in grado di produrre efficaci rimandi di scala, di abitudini e usi. Nei pressi del Giardino delle Vergini si fronteggiano infine le due architetture di Alvaro Siza e di Eduardo Souto de Moura rapportate alla densità dell’ambiente urbano veneziano la prima e al paesaggio dell’intorno, incorniciato dalle sue aperture e rapporti di spazi, il secondo. Una mostra che racconta temi, che delinea possibili percorsi, più che mostrare la magnificenza e la spettacolarità di opere singole. D’altra parte come ci ricorda lo stesso Chipperfield “progettare architetture che siano parte di un panorama quotidiano è sicuramente una bella sfida, molto più rischiosa e affascinante della creazione di un maxigrattacielo”.
foto di sergio pirrone, matteo vercelloni
testo di matteo vercelloni - [gallery ids="7710,7711,7712,7713,7714,7715,7716,7717,7718,7719,7720,7721,7722,7723,7724"]Come, con la crisi economica si è detto basta agli eccessi finanziari è arrivato il momento di fermare anche gli eccessi degli architetti […] troppo spesso, ultimamente, gli architetti sono stati chiamati come maître patissier a preparare la torta di nozze del padrone di casa, ossia del committente. Che identifica nell’architetto lo specialista che, al meglio, attraverso un edificio può pubblicizzare il suo nome o il suo marchio. Che, di per sé, non è una colpa. Però quando a Michelangelo fu affidato l’incarico per la cupola di San Pietro era sì un’operazione di ‘promozione’ del papato, ma al contempo una renovatio urbis”. Le affermazioni di David Chipperfield, in parte rese esplicite dalla sua Biennale di Architettura, non lasciano spazio al dubbio: è tempo di ritornare a intendere l’architettura come una disciplina complessa che si confronta con la storia e la memoria, con le città e i suoi cittadini e che, come affermava Aldo Rossi è da assumere come “opera d’arte collettiva”. La 13a Biennale di architettura veneziana nella sua molteplice rassegna di punti di vista tende a consegnarci tale messaggio senza mortificare o ridurre le specifiche poetiche e le singole espressioni di ogni architetto che però cercano di offrirsi come occasione di confronto più che come momento di presentazione professionale. Molti sono i temi che si possono rintracciare nella visita alla mostra tra le Corderie e i Giardini, alcuni sottolineano le intenzioni iniziali: partecipazione civile, riuso e sostenibilità, presenza della storia, progetti condivisi, senso e uso della città e dei suoi spazi, valore del paesaggio come risorsa strategica. Non si tratta tuttavia della celebrazione del tramonto della figura dell’archistar, piuttosto di individuare percorsi che leghino il progetto di architettura al suo senso urbano, per estendersi a volte alla scala territoriale come macrostrutture abitate (è il caso del progetto dei ponti architettonici per Stoccolma, pensati da Jean Nouvel e Mia Hägg per unire il centro storico di Gamla Stan all’isola più a sud della città; o all’avveniristico Global Hub AIR+PORT dello studio BIG/ Bjarke Ingels Group, sperimentale sintesi tipologica tra un aeroporto galleggiante e un porto navale previsto tra i ghiacci della Groenlandia a Nuuk). In generale in tutta la mostra si respira aria di complessità e questo può indurre a rendere più difficile e sfuggente il messaggio che non vuole essere di tipo ‘spettacolare’, ma fondativo. La camera scura di Norman Foster, Gateway, che accoglie i visitatori alle spalle dell’ingresso funge in fondo da manifesto introduttivo con la ‘storia’ proiettata sul pavimento nero nella forma di disegni, nomi dei protagonisti della cultura architettonica, messaggi, che si confrontano con lo spazio storico e contemporaneo dei raduni collettivi offerto da un serrato ritmo di immagini proiettate che ci avvolgono in alto, sui quattro lati delle pareti. Ordine e disordine per capire l’uso dell’architettura che a volte appare ‘improprio’, ma allo stesso tempo inarrestabile e spontaneo. Come appunto quello che avviene in uno dei monumenti architettonici contemporanei di Hong Kong: la Bank of China dello stesso Foster (in mostra ai Giardini) il cui piano terreno, pensato come ‘luogo pubblico’ e di passaggio sin dalla sua inaugurazione, si trasforma ogni domenica in una sorta di centro d’incontro della comunità delle colf filippine che, frammentandolo in microspazi con temporanei setti di cartone, attiva una straordinaria e pacifica varietà di attività sociali. In altro modo la riappropriazione di spazi urbani è rappresentata dal caso della Torre David a Caracas rappresentato dall’allestimento a cura di Urban Think Tank (Leone d’Oro quale miglior progetto della Mostra internazionale). Una torre per uffici rimasta incompleta è diventata una favela verticale nel centro urbano, simbolo del fallimento del neoliberismo e del self-empowerment delle classi povere, formando una nuova comunità spontanea, “modello ispiratore che riconosce la forza delle associazioni informali” (dalle motivazioni della Giuria), che ne ha trasformato gli spazi in una nuova casa collettiva con una propria identità. Valori di appartenenza restituiti dal progetto in mostra nella forma del ristorante di fantasia Gran Horizonte (punto d’incontro e di sosta lungo il percorso delle corderie) e dalla serie di fotografie di Iwan Baan che documentano momenti di vita della comunità spontanea. Partecipazione e tensione verso lo sviluppo urbano ‘dal basso’ sono testimoniati anche dalla ricerca di Elke Krasny, Hand –On Urbanism 1850-2012, e dal padiglione degli Stati Uniti d’America con il suo Spontaneous Interventions: Design Actions for the Common Good (menzione speciale della Giuria), dove una selezione di progetti ad opera di architetti, designer, urbanisti e semplici cittadini, configurano un mosaico di idee, proposte e realizzazioni, tese a “espandere la bellezza, il benessere, la funzionalità, la sicurezza e la sostenibilità delle città [dove] sperimentale, informale, alternativo, spontaneo, improvvisato, partecipativo, migliorativo, sono soltanto alcune delle parole che sono usate per descrivere questo movimento che si sta diffondendo sempre più a livello internazionale”. Ma dove forse al meglio si restituisce lo slogan del Commun Ground della Biennale veneziana è nell’Architecture possible here? Home-for-all del padiglione Giapponese (a cura di Toyo Ito, con allestimento di Akihisha Hirata, Sou Fujimoto, Kumiko Inui, Leone d’Oro per la migliore partecipazione nazionale), in cui la collaborazione e il confronto con la popolazione colpita dallo tsunami ha portato alla definizione di un nuovo centro d’incontro con la comunità locale, primo step di un programma in grado di generare la ‘voglia di casa’ in una regione devastata da una catastrofe nazionale. Tra uno sguardo alla storia e la ricerca di un confronto con il passato in termini attuali (l’omaggio alla magia compositiva dell’architetto barocco inglese Nicholas Hawksmoor, la bella mostra Facecity di Fulvio Irace dedicata al paesaggio urbano milanese del secondo dopoguerra, il Pasticcio di Caruso St. John teso a rintracciare una “continuità tra l’architettura contemporanea e quella antecedente al modernismo”, i ‘ritratti’ dei padiglioni della Biennale di Gabriele Basilico nell’allestimento di Diener & Diener, le radici storiche dichiarate da parte della ricerca sulla forma algoritmica di Zaha Hadid) i temi legati alla sostenibilità e al riuso sono emersi in più occasioni. Reduce/Reuse/Recycle – Architecture as Resource è il titolo-programma della Germania dove si dichiara apertamente che ogni costruzione è una risorsa con cui confrontarsi abbandonando la serialità tardo modernista della demolizione-progetto-ricostruzione; “secondo la logica di Reduce/Reuse/Recycle diverse strategie di ristrutturazione si possono classificare in base al rapporto fra vecchio e nuovo, fra l’intensità dell’intervento e il livello di modificazione. Trattando l’architettura edificata come una risorsa sostanziale e formale, si rende disponibile un’ampia gamma di possibilità e di approcci”. All’idea di sviluppo di una nuova consapevolezza rispetto al paesaggio urbano che ci circonda si riferisce anche la Svizzera, mentre la Russia, con i-city a cura di Sergei Tchoban (menzione speciale per l’allestimento e il tema trattato), dedica il suo padiglione, rivestito da pannelli metallici serigrafati da codici QR interattivi con tablet dati ai visitatori all’ingresso, al nuovo paesaggio in divenire del Centro d’innovazione di Skolkovo letto in rapporto alla storia delle città della scienza del Paese. Il verde, superata ogni dimensione semplicemente estetica, diventa fattore simbolico nel bosco di felci del Padiglione Italia di Luca Zevi che, oltre a sottolineare il valore dell’architettura per la produzione, emersa forse in modo inconsapevole dal solco della lezione di Adriano Olivetti, ci ricorda il valore del territorio e la necessità del suo mantenimento e gestione, oggi sempre più in abbandono anche in relazione alla flessione delle coltivazioni agricole (presidio di gestione del paesaggio in senso lato). Mentre ancora il verde (tradotto in piantumazioni di canne comuni) diventa strumento di riqualificazione strutturale nella prima partecipazione dell’Angola. In Beyond Entropy Angola, a cura di Stefano Rabolli Pansera e Paula Nascimento, si affronta il caso delle aree di conurbazione senza urbanità di Luanda, città ad alta densità senza avere però edifici a più livelli. In questa crescita esponenziale dell’occupazione del suolo, nella mancanza totale di infrastrutture basilari, l’idea di piantumare gli spazi interstiziali tra le costruzioni con la canna comune (Arundo Donax) che cresce anche lungo i nostri fiumi, permette di trasformare il ‘verde’ o meglio il paesaggio in strumento di riqualificazione operativo a breve periodo: la canna cresce con grande rapidità (raggiungerà a fine novembre il soffitto dello spazio all’isola di San Giorgio dove è ospitato l’allestimento) e i filamenti finissimi del suo rizoma alla radice filtrano in modo naturale le acque sporche, mentre il fusto rigido assorbe grandi quantità di CO2 rendendolo ideale per la biomassa. Quello proposto è un modello urbanistico sostenibile in grado di diventare esempio-guida per i Paesi sub-sahariani. Non mancano nella mostra allestimenti ‘hot spot’, emergenti dal punto di vista della presenza architettonica e scenica, tra cui la struttura metallica Arum di Zaha Hadid, e l’allestimento Copycat di Cino Zucchi (menzione d’onore) metafora di una sommatoria architettonica e allo stesso tempo luogo di memorie domestiche, di oggetti e immagini in grado di produrre efficaci rimandi di scala, di abitudini e usi. Nei pressi del Giardino delle Vergini si fronteggiano infine le due architetture di Alvaro Siza e di Eduardo Souto de Moura rapportate alla densità dell’ambiente urbano veneziano la prima e al paesaggio dell’intorno, incorniciato dalle sue aperture e rapporti di spazi, il secondo. Una mostra che racconta temi, che delinea possibili percorsi, più che mostrare la magnificenza e la spettacolarità di opere singole. D’altra parte come ci ricorda lo stesso Chipperfield “progettare architetture che siano parte di un panorama quotidiano è sicuramente una bella sfida, molto più rischiosa e affascinante della creazione di un maxigrattacielo”.
foto di sergio pirrone, matteo vercelloni
testo di matteo vercelloni - [gallery ids="7710,7711,7712,7713,7714,7715,7716,7717,7718,7719,7720,7721,7722,7723,7724"]Come, con la crisi economica si è detto basta agli eccessi finanziari è arrivato il momento di fermare anche gli eccessi degli architetti […] troppo spesso, ultimamente, gli architetti sono stati chiamati come maître patissier a preparare la torta di nozze del padrone di casa, ossia del committente. Che identifica nell’architetto lo specialista che, al meglio, attraverso un edificio può pubblicizzare il suo nome o il suo marchio. Che, di per sé, non è una colpa. Però quando a Michelangelo fu affidato l’incarico per la cupola di San Pietro era sì un’operazione di ‘promozione’ del papato, ma al contempo una renovatio urbis”. Le affermazioni di David Chipperfield, in parte rese esplicite dalla sua Biennale di Architettura, non lasciano spazio al dubbio: è tempo di ritornare a intendere l’architettura come una disciplina complessa che si confronta con la storia e la memoria, con le città e i suoi cittadini e che, come affermava Aldo Rossi è da assumere come “opera d’arte collettiva”. La 13a Biennale di architettura veneziana nella sua molteplice rassegna di punti di vista tende a consegnarci tale messaggio senza mortificare o ridurre le specifiche poetiche e le singole espressioni di ogni architetto che però cercano di offrirsi come occasione di confronto più che come momento di presentazione professionale. Molti sono i temi che si possono rintracciare nella visita alla mostra tra le Corderie e i Giardini, alcuni sottolineano le intenzioni iniziali: partecipazione civile, riuso e sostenibilità, presenza della storia, progetti condivisi, senso e uso della città e dei suoi spazi, valore del paesaggio come risorsa strategica. Non si tratta tuttavia della celebrazione del tramonto della figura dell’archistar, piuttosto di individuare percorsi che leghino il progetto di architettura al suo senso urbano, per estendersi a volte alla scala territoriale come macrostrutture abitate (è il caso del progetto dei ponti architettonici per Stoccolma, pensati da Jean Nouvel e Mia Hägg per unire il centro storico di Gamla Stan all’isola più a sud della città; o all’avveniristico Global Hub AIR+PORT dello studio BIG/ Bjarke Ingels Group, sperimentale sintesi tipologica tra un aeroporto galleggiante e un porto navale previsto tra i ghiacci della Groenlandia a Nuuk). In generale in tutta la mostra si respira aria di complessità e questo può indurre a rendere più difficile e sfuggente il messaggio che non vuole essere di tipo ‘spettacolare’, ma fondativo. La camera scura di Norman Foster, Gateway, che accoglie i visitatori alle spalle dell’ingresso funge in fondo da manifesto introduttivo con la ‘storia’ proiettata sul pavimento nero nella forma di disegni, nomi dei protagonisti della cultura architettonica, messaggi, che si confrontano con lo spazio storico e contemporaneo dei raduni collettivi offerto da un serrato ritmo di immagini proiettate che ci avvolgono in alto, sui quattro lati delle pareti. Ordine e disordine per capire l’uso dell’architettura che a volte appare ‘improprio’, ma allo stesso tempo inarrestabile e spontaneo. Come appunto quello che avviene in uno dei monumenti architettonici contemporanei di Hong Kong: la Bank of China dello stesso Foster (in mostra ai Giardini) il cui piano terreno, pensato come ‘luogo pubblico’ e di passaggio sin dalla sua inaugurazione, si trasforma ogni domenica in una sorta di centro d’incontro della comunità delle colf filippine che, frammentandolo in microspazi con temporanei setti di cartone, attiva una straordinaria e pacifica varietà di attività sociali. In altro modo la riappropriazione di spazi urbani è rappresentata dal caso della Torre David a Caracas rappresentato dall’allestimento a cura di Urban Think Tank (Leone d’Oro quale miglior progetto della Mostra internazionale). Una torre per uffici rimasta incompleta è diventata una favela verticale nel centro urbano, simbolo del fallimento del neoliberismo e del self-empowerment delle classi povere, formando una nuova comunità spontanea, “modello ispiratore che riconosce la forza delle associazioni informali” (dalle motivazioni della Giuria), che ne ha trasformato gli spazi in una nuova casa collettiva con una propria identità. Valori di appartenenza restituiti dal progetto in mostra nella forma del ristorante di fantasia Gran Horizonte (punto d’incontro e di sosta lungo il percorso delle corderie) e dalla serie di fotografie di Iwan Baan che documentano momenti di vita della comunità spontanea. Partecipazione e tensione verso lo sviluppo urbano ‘dal basso’ sono testimoniati anche dalla ricerca di Elke Krasny, Hand –On Urbanism 1850-2012, e dal padiglione degli Stati Uniti d’America con il suo Spontaneous Interventions: Design Actions for the Common Good (menzione speciale della Giuria), dove una selezione di progetti ad opera di architetti, designer, urbanisti e semplici cittadini, configurano un mosaico di idee, proposte e realizzazioni, tese a “espandere la bellezza, il benessere, la funzionalità, la sicurezza e la sostenibilità delle città [dove] sperimentale, informale, alternativo, spontaneo, improvvisato, partecipativo, migliorativo, sono soltanto alcune delle parole che sono usate per descrivere questo movimento che si sta diffondendo sempre più a livello internazionale”. Ma dove forse al meglio si restituisce lo slogan del Commun Ground della Biennale veneziana è nell’Architecture possible here? Home-for-all del padiglione Giapponese (a cura di Toyo Ito, con allestimento di Akihisha Hirata, Sou Fujimoto, Kumiko Inui, Leone d’Oro per la migliore partecipazione nazionale), in cui la collaborazione e il confronto con la popolazione colpita dallo tsunami ha portato alla definizione di un nuovo centro d’incontro con la comunità locale, primo step di un programma in grado di generare la ‘voglia di casa’ in una regione devastata da una catastrofe nazionale. Tra uno sguardo alla storia e la ricerca di un confronto con il passato in termini attuali (l’omaggio alla magia compositiva dell’architetto barocco inglese Nicholas Hawksmoor, la bella mostra Facecity di Fulvio Irace dedicata al paesaggio urbano milanese del secondo dopoguerra, il Pasticcio di Caruso St. John teso a rintracciare una “continuità tra l’architettura contemporanea e quella antecedente al modernismo”, i ‘ritratti’ dei padiglioni della Biennale di Gabriele Basilico nell’allestimento di Diener & Diener, le radici storiche dichiarate da parte della ricerca sulla forma algoritmica di Zaha Hadid) i temi legati alla sostenibilità e al riuso sono emersi in più occasioni. Reduce/Reuse/Recycle – Architecture as Resource è il titolo-programma della Germania dove si dichiara apertamente che ogni costruzione è una risorsa con cui confrontarsi abbandonando la serialità tardo modernista della demolizione-progetto-ricostruzione; “secondo la logica di Reduce/Reuse/Recycle diverse strategie di ristrutturazione si possono classificare in base al rapporto fra vecchio e nuovo, fra l’intensità dell’intervento e il livello di modificazione. Trattando l’architettura edificata come una risorsa sostanziale e formale, si rende disponibile un’ampia gamma di possibilità e di approcci”. All’idea di sviluppo di una nuova consapevolezza rispetto al paesaggio urbano che ci circonda si riferisce anche la Svizzera, mentre la Russia, con i-city a cura di Sergei Tchoban (menzione speciale per l’allestimento e il tema trattato), dedica il suo padiglione, rivestito da pannelli metallici serigrafati da codici QR interattivi con tablet dati ai visitatori all’ingresso, al nuovo paesaggio in divenire del Centro d’innovazione di Skolkovo letto in rapporto alla storia delle città della scienza del Paese. Il verde, superata ogni dimensione semplicemente estetica, diventa fattore simbolico nel bosco di felci del Padiglione Italia di Luca Zevi che, oltre a sottolineare il valore dell’architettura per la produzione, emersa forse in modo inconsapevole dal solco della lezione di Adriano Olivetti, ci ricorda il valore del territorio e la necessità del suo mantenimento e gestione, oggi sempre più in abbandono anche in relazione alla flessione delle coltivazioni agricole (presidio di gestione del paesaggio in senso lato). Mentre ancora il verde (tradotto in piantumazioni di canne comuni) diventa strumento di riqualificazione strutturale nella prima partecipazione dell’Angola. In Beyond Entropy Angola, a cura di Stefano Rabolli Pansera e Paula Nascimento, si affronta il caso delle aree di conurbazione senza urbanità di Luanda, città ad alta densità senza avere però edifici a più livelli. In questa crescita esponenziale dell’occupazione del suolo, nella mancanza totale di infrastrutture basilari, l’idea di piantumare gli spazi interstiziali tra le costruzioni con la canna comune (Arundo Donax) che cresce anche lungo i nostri fiumi, permette di trasformare il ‘verde’ o meglio il paesaggio in strumento di riqualificazione operativo a breve periodo: la canna cresce con grande rapidità (raggiungerà a fine novembre il soffitto dello spazio all’isola di San Giorgio dove è ospitato l’allestimento) e i filamenti finissimi del suo rizoma alla radice filtrano in modo naturale le acque sporche, mentre il fusto rigido assorbe grandi quantità di CO2 rendendolo ideale per la biomassa. Quello proposto è un modello urbanistico sostenibile in grado di diventare esempio-guida per i Paesi sub-sahariani. Non mancano nella mostra allestimenti ‘hot spot’, emergenti dal punto di vista della presenza architettonica e scenica, tra cui la struttura metallica Arum di Zaha Hadid, e l’allestimento Copycat di Cino Zucchi (menzione d’onore) metafora di una sommatoria architettonica e allo stesso tempo luogo di memorie domestiche, di oggetti e immagini in grado di produrre efficaci rimandi di scala, di abitudini e usi. Nei pressi del Giardino delle Vergini si fronteggiano infine le due architetture di Alvaro Siza e di Eduardo Souto de Moura rapportate alla densità dell’ambiente urbano veneziano la prima e al paesaggio dell’intorno, incorniciato dalle sue aperture e rapporti di spazi, il secondo. Una mostra che racconta temi, che delinea possibili percorsi, più che mostrare la magnificenza e la spettacolarità di opere singole. D’altra parte come ci ricorda lo stesso Chipperfield “progettare architetture che siano parte di un panorama quotidiano è sicuramente una bella sfida, molto più rischiosa e affascinante della creazione di un maxigrattacielo”.
foto di sergio pirrone, matteo vercelloni
testo di matteo vercelloni - [gallery ids="7710,7711,7712,7713,7714,7715,7716,7717,7718,7719,7720,7721,7722,7723,7724"]Come, con la crisi economica si è detto basta agli eccessi finanziari è arrivato il momento di fermare anche gli eccessi degli architetti […] troppo spesso, ultimamente, gli architetti sono stati chiamati come maître patissier a preparare la torta di nozze del padrone di casa, ossia del committente. Che identifica nell’architetto lo specialista che, al meglio, attraverso un edificio può pubblicizzare il suo nome o il suo marchio. Che, di per sé, non è una colpa. Però quando a Michelangelo fu affidato l’incarico per la cupola di San Pietro era sì un’operazione di ‘promozione’ del papato, ma al contempo una renovatio urbis”. Le affermazioni di David Chipperfield, in parte rese esplicite dalla sua Biennale di Architettura, non lasciano spazio al dubbio: è tempo di ritornare a intendere l’architettura come una disciplina complessa che si confronta con la storia e la memoria, con le città e i suoi cittadini e che, come affermava Aldo Rossi è da assumere come “opera d’arte collettiva”. La 13a Biennale di architettura veneziana nella sua molteplice rassegna di punti di vista tende a consegnarci tale messaggio senza mortificare o ridurre le specifiche poetiche e le singole espressioni di ogni architetto che però cercano di offrirsi come occasione di confronto più che come momento di presentazione professionale. Molti sono i temi che si possono rintracciare nella visita alla mostra tra le Corderie e i Giardini, alcuni sottolineano le intenzioni iniziali: partecipazione civile, riuso e sostenibilità, presenza della storia, progetti condivisi, senso e uso della città e dei suoi spazi, valore del paesaggio come risorsa strategica. Non si tratta tuttavia della celebrazione del tramonto della figura dell’archistar, piuttosto di individuare percorsi che leghino il progetto di architettura al suo senso urbano, per estendersi a volte alla scala territoriale come macrostrutture abitate (è il caso del progetto dei ponti architettonici per Stoccolma, pensati da Jean Nouvel e Mia Hägg per unire il centro storico di Gamla Stan all’isola più a sud della città; o all’avveniristico Global Hub AIR+PORT dello studio BIG/ Bjarke Ingels Group, sperimentale sintesi tipologica tra un aeroporto galleggiante e un porto navale previsto tra i ghiacci della Groenlandia a Nuuk). In generale in tutta la mostra si respira aria di complessità e questo può indurre a rendere più difficile e sfuggente il messaggio che non vuole essere di tipo ‘spettacolare’, ma fondativo. La camera scura di Norman Foster, Gateway, che accoglie i visitatori alle spalle dell’ingresso funge in fondo da manifesto introduttivo con la ‘storia’ proiettata sul pavimento nero nella forma di disegni, nomi dei protagonisti della cultura architettonica, messaggi, che si confrontano con lo spazio storico e contemporaneo dei raduni collettivi offerto da un serrato ritmo di immagini proiettate che ci avvolgono in alto, sui quattro lati delle pareti. Ordine e disordine per capire l’uso dell’architettura che a volte appare ‘improprio’, ma allo stesso tempo inarrestabile e spontaneo. Come appunto quello che avviene in uno dei monumenti architettonici contemporanei di Hong Kong: la Bank of China dello stesso Foster (in mostra ai Giardini) il cui piano terreno, pensato come ‘luogo pubblico’ e di passaggio sin dalla sua inaugurazione, si trasforma ogni domenica in una sorta di centro d’incontro della comunità delle colf filippine che, frammentandolo in microspazi con temporanei setti di cartone, attiva una straordinaria e pacifica varietà di attività sociali. In altro modo la riappropriazione di spazi urbani è rappresentata dal caso della Torre David a Caracas rappresentato dall’allestimento a cura di Urban Think Tank (Leone d’Oro quale miglior progetto della Mostra internazionale). Una torre per uffici rimasta incompleta è diventata una favela verticale nel centro urbano, simbolo del fallimento del neoliberismo e del self-empowerment delle classi povere, formando una nuova comunità spontanea, “modello ispiratore che riconosce la forza delle associazioni informali” (dalle motivazioni della Giuria), che ne ha trasformato gli spazi in una nuova casa collettiva con una propria identità. Valori di appartenenza restituiti dal progetto in mostra nella forma del ristorante di fantasia Gran Horizonte (punto d’incontro e di sosta lungo il percorso delle corderie) e dalla serie di fotografie di Iwan Baan che documentano momenti di vita della comunità spontanea. Partecipazione e tensione verso lo sviluppo urbano ‘dal basso’ sono testimoniati anche dalla ricerca di Elke Krasny, Hand –On Urbanism 1850-2012, e dal padiglione degli Stati Uniti d’America con il suo Spontaneous Interventions: Design Actions for the Common Good (menzione speciale della Giuria), dove una selezione di progetti ad opera di architetti, designer, urbanisti e semplici cittadini, configurano un mosaico di idee, proposte e realizzazioni, tese a “espandere la bellezza, il benessere, la funzionalità, la sicurezza e la sostenibilità delle città [dove] sperimentale, informale, alternativo, spontaneo, improvvisato, partecipativo, migliorativo, sono soltanto alcune delle parole che sono usate per descrivere questo movimento che si sta diffondendo sempre più a livello internazionale”. Ma dove forse al meglio si restituisce lo slogan del Commun Ground della Biennale veneziana è nell’Architecture possible here? Home-for-all del padiglione Giapponese (a cura di Toyo Ito, con allestimento di Akihisha Hirata, Sou Fujimoto, Kumiko Inui, Leone d’Oro per la migliore partecipazione nazionale), in cui la collaborazione e il confronto con la popolazione colpita dallo tsunami ha portato alla definizione di un nuovo centro d’incontro con la comunità locale, primo step di un programma in grado di generare la ‘voglia di casa’ in una regione devastata da una catastrofe nazionale. Tra uno sguardo alla storia e la ricerca di un confronto con il passato in termini attuali (l’omaggio alla magia compositiva dell’architetto barocco inglese Nicholas Hawksmoor, la bella mostra Facecity di Fulvio Irace dedicata al paesaggio urbano milanese del secondo dopoguerra, il Pasticcio di Caruso St. John teso a rintracciare una “continuità tra l’architettura contemporanea e quella antecedente al modernismo”, i ‘ritratti’ dei padiglioni della Biennale di Gabriele Basilico nell’allestimento di Diener & Diener, le radici storiche dichiarate da parte della ricerca sulla forma algoritmica di Zaha Hadid) i temi legati alla sostenibilità e al riuso sono emersi in più occasioni. Reduce/Reuse/Recycle – Architecture as Resource è il titolo-programma della Germania dove si dichiara apertamente che ogni costruzione è una risorsa con cui confrontarsi abbandonando la serialità tardo modernista della demolizione-progetto-ricostruzione; “secondo la logica di Reduce/Reuse/Recycle diverse strategie di ristrutturazione si possono classificare in base al rapporto fra vecchio e nuovo, fra l’intensità dell’intervento e il livello di modificazione. Trattando l’architettura edificata come una risorsa sostanziale e formale, si rende disponibile un’ampia gamma di possibilità e di approcci”. All’idea di sviluppo di una nuova consapevolezza rispetto al paesaggio urbano che ci circonda si riferisce anche la Svizzera, mentre la Russia, con i-city a cura di Sergei Tchoban (menzione speciale per l’allestimento e il tema trattato), dedica il suo padiglione, rivestito da pannelli metallici serigrafati da codici QR interattivi con tablet dati ai visitatori all’ingresso, al nuovo paesaggio in divenire del Centro d’innovazione di Skolkovo letto in rapporto alla storia delle città della scienza del Paese. Il verde, superata ogni dimensione semplicemente estetica, diventa fattore simbolico nel bosco di felci del Padiglione Italia di Luca Zevi che, oltre a sottolineare il valore dell’architettura per la produzione, emersa forse in modo inconsapevole dal solco della lezione di Adriano Olivetti, ci ricorda il valore del territorio e la necessità del suo mantenimento e gestione, oggi sempre più in abbandono anche in relazione alla flessione delle coltivazioni agricole (presidio di gestione del paesaggio in senso lato). Mentre ancora il verde (tradotto in piantumazioni di canne comuni) diventa strumento di riqualificazione strutturale nella prima partecipazione dell’Angola. In Beyond Entropy Angola, a cura di Stefano Rabolli Pansera e Paula Nascimento, si affronta il caso delle aree di conurbazione senza urbanità di Luanda, città ad alta densità senza avere però edifici a più livelli. In questa crescita esponenziale dell’occupazione del suolo, nella mancanza totale di infrastrutture basilari, l’idea di piantumare gli spazi interstiziali tra le costruzioni con la canna comune (Arundo Donax) che cresce anche lungo i nostri fiumi, permette di trasformare il ‘verde’ o meglio il paesaggio in strumento di riqualificazione operativo a breve periodo: la canna cresce con grande rapidità (raggiungerà a fine novembre il soffitto dello spazio all’isola di San Giorgio dove è ospitato l’allestimento) e i filamenti finissimi del suo rizoma alla radice filtrano in modo naturale le acque sporche, mentre il fusto rigido assorbe grandi quantità di CO2 rendendolo ideale per la biomassa. Quello proposto è un modello urbanistico sostenibile in grado di diventare esempio-guida per i Paesi sub-sahariani. Non mancano nella mostra allestimenti ‘hot spot’, emergenti dal punto di vista della presenza architettonica e scenica, tra cui la struttura metallica Arum di Zaha Hadid, e l’allestimento Copycat di Cino Zucchi (menzione d’onore) metafora di una sommatoria architettonica e allo stesso tempo luogo di memorie domestiche, di oggetti e immagini in grado di produrre efficaci rimandi di scala, di abitudini e usi. Nei pressi del Giardino delle Vergini si fronteggiano infine le due architetture di Alvaro Siza e di Eduardo Souto de Moura rapportate alla densità dell’ambiente urbano veneziano la prima e al paesaggio dell’intorno, incorniciato dalle sue aperture e rapporti di spazi, il secondo. Una mostra che racconta temi, che delinea possibili percorsi, più che mostrare la magnificenza e la spettacolarità di opere singole. D’altra parte come ci ricorda lo stesso Chipperfield “progettare architetture che siano parte di un panorama quotidiano è sicuramente una bella sfida, molto più rischiosa e affascinante della creazione di un maxigrattacielo”.
foto di sergio pirrone, matteo vercelloni
testo di matteo vercelloni - [gallery ids="7710,7711,7712,7713,7714,7715,7716,7717,7718,7719,7720,7721,7722,7723,7724"]Come, con la crisi economica si è detto basta agli eccessi finanziari è arrivato il momento di fermare anche gli eccessi degli architetti […] troppo spesso, ultimamente, gli architetti sono stati chiamati come maître patissier a preparare la torta di nozze del padrone di casa, ossia del committente. Che identifica nell’architetto lo specialista che, al meglio, attraverso un edificio può pubblicizzare il suo nome o il suo marchio. Che, di per sé, non è una colpa. Però quando a Michelangelo fu affidato l’incarico per la cupola di San Pietro era sì un’operazione di ‘promozione’ del papato, ma al contempo una renovatio urbis”. Le affermazioni di David Chipperfield, in parte rese esplicite dalla sua Biennale di Architettura, non lasciano spazio al dubbio: è tempo di ritornare a intendere l’architettura come una disciplina complessa che si confronta con la storia e la memoria, con le città e i suoi cittadini e che, come affermava Aldo Rossi è da assumere come “opera d’arte collettiva”. La 13a Biennale di architettura veneziana nella sua molteplice rassegna di punti di vista tende a consegnarci tale messaggio senza mortificare o ridurre le specifiche poetiche e le singole espressioni di ogni architetto che però cercano di offrirsi come occasione di confronto più che come momento di presentazione professionale. Molti sono i temi che si possono rintracciare nella visita alla mostra tra le Corderie e i Giardini, alcuni sottolineano le intenzioni iniziali: partecipazione civile, riuso e sostenibilità, presenza della storia, progetti condivisi, senso e uso della città e dei suoi spazi, valore del paesaggio come risorsa strategica. Non si tratta tuttavia della celebrazione del tramonto della figura dell’archistar, piuttosto di individuare percorsi che leghino il progetto di architettura al suo senso urbano, per estendersi a volte alla scala territoriale come macrostrutture abitate (è il caso del progetto dei ponti architettonici per Stoccolma, pensati da Jean Nouvel e Mia Hägg per unire il centro storico di Gamla Stan all’isola più a sud della città; o all’avveniristico Global Hub AIR+PORT dello studio BIG/ Bjarke Ingels Group, sperimentale sintesi tipologica tra un aeroporto galleggiante e un porto navale previsto tra i ghiacci della Groenlandia a Nuuk). In generale in tutta la mostra si respira aria di complessità e questo può indurre a rendere più difficile e sfuggente il messaggio che non vuole essere di tipo ‘spettacolare’, ma fondativo. La camera scura di Norman Foster, Gateway, che accoglie i visitatori alle spalle dell’ingresso funge in fondo da manifesto introduttivo con la ‘storia’ proiettata sul pavimento nero nella forma di disegni, nomi dei protagonisti della cultura architettonica, messaggi, che si confrontano con lo spazio storico e contemporaneo dei raduni collettivi offerto da un serrato ritmo di immagini proiettate che ci avvolgono in alto, sui quattro lati delle pareti. Ordine e disordine per capire l’uso dell’architettura che a volte appare ‘improprio’, ma allo stesso tempo inarrestabile e spontaneo. Come appunto quello che avviene in uno dei monumenti architettonici contemporanei di Hong Kong: la Bank of China dello stesso Foster (in mostra ai Giardini) il cui piano terreno, pensato come ‘luogo pubblico’ e di passaggio sin dalla sua inaugurazione, si trasforma ogni domenica in una sorta di centro d’incontro della comunità delle colf filippine che, frammentandolo in microspazi con temporanei setti di cartone, attiva una straordinaria e pacifica varietà di attività sociali. In altro modo la riappropriazione di spazi urbani è rappresentata dal caso della Torre David a Caracas rappresentato dall’allestimento a cura di Urban Think Tank (Leone d’Oro quale miglior progetto della Mostra internazionale). Una torre per uffici rimasta incompleta è diventata una favela verticale nel centro urbano, simbolo del fallimento del neoliberismo e del self-empowerment delle classi povere, formando una nuova comunità spontanea, “modello ispiratore che riconosce la forza delle associazioni informali” (dalle motivazioni della Giuria), che ne ha trasformato gli spazi in una nuova casa collettiva con una propria identità. Valori di appartenenza restituiti dal progetto in mostra nella forma del ristorante di fantasia Gran Horizonte (punto d’incontro e di sosta lungo il percorso delle corderie) e dalla serie di fotografie di Iwan Baan che documentano momenti di vita della comunità spontanea. Partecipazione e tensione verso lo sviluppo urbano ‘dal basso’ sono testimoniati anche dalla ricerca di Elke Krasny, Hand –On Urbanism 1850-2012, e dal padiglione degli Stati Uniti d’America con il suo Spontaneous Interventions: Design Actions for the Common Good (menzione speciale della Giuria), dove una selezione di progetti ad opera di architetti, designer, urbanisti e semplici cittadini, configurano un mosaico di idee, proposte e realizzazioni, tese a “espandere la bellezza, il benessere, la funzionalità, la sicurezza e la sostenibilità delle città [dove] sperimentale, informale, alternativo, spontaneo, improvvisato, partecipativo, migliorativo, sono soltanto alcune delle parole che sono usate per descrivere questo movimento che si sta diffondendo sempre più a livello internazionale”. Ma dove forse al meglio si restituisce lo slogan del Commun Ground della Biennale veneziana è nell’Architecture possible here? Home-for-all del padiglione Giapponese (a cura di Toyo Ito, con allestimento di Akihisha Hirata, Sou Fujimoto, Kumiko Inui, Leone d’Oro per la migliore partecipazione nazionale), in cui la collaborazione e il confronto con la popolazione colpita dallo tsunami ha portato alla definizione di un nuovo centro d’incontro con la comunità locale, primo step di un programma in grado di generare la ‘voglia di casa’ in una regione devastata da una catastrofe nazionale. Tra uno sguardo alla storia e la ricerca di un confronto con il passato in termini attuali (l’omaggio alla magia compositiva dell’architetto barocco inglese Nicholas Hawksmoor, la bella mostra Facecity di Fulvio Irace dedicata al paesaggio urbano milanese del secondo dopoguerra, il Pasticcio di Caruso St. John teso a rintracciare una “continuità tra l’architettura contemporanea e quella antecedente al modernismo”, i ‘ritratti’ dei padiglioni della Biennale di Gabriele Basilico nell’allestimento di Diener & Diener, le radici storiche dichiarate da parte della ricerca sulla forma algoritmica di Zaha Hadid) i temi legati alla sostenibilità e al riuso sono emersi in più occasioni. Reduce/Reuse/Recycle – Architecture as Resource è il titolo-programma della Germania dove si dichiara apertamente che ogni costruzione è una risorsa con cui confrontarsi abbandonando la serialità tardo modernista della demolizione-progetto-ricostruzione; “secondo la logica di Reduce/Reuse/Recycle diverse strategie di ristrutturazione si possono classificare in base al rapporto fra vecchio e nuovo, fra l’intensità dell’intervento e il livello di modificazione. Trattando l’architettura edificata come una risorsa sostanziale e formale, si rende disponibile un’ampia gamma di possibilità e di approcci”. All’idea di sviluppo di una nuova consapevolezza rispetto al paesaggio urbano che ci circonda si riferisce anche la Svizzera, mentre la Russia, con i-city a cura di Sergei Tchoban (menzione speciale per l’allestimento e il tema trattato), dedica il suo padiglione, rivestito da pannelli metallici serigrafati da codici QR interattivi con tablet dati ai visitatori all’ingresso, al nuovo paesaggio in divenire del Centro d’innovazione di Skolkovo letto in rapporto alla storia delle città della scienza del Paese. Il verde, superata ogni dimensione semplicemente estetica, diventa fattore simbolico nel bosco di felci del Padiglione Italia di Luca Zevi che, oltre a sottolineare il valore dell’architettura per la produzione, emersa forse in modo inconsapevole dal solco della lezione di Adriano Olivetti, ci ricorda il valore del territorio e la necessità del suo mantenimento e gestione, oggi sempre più in abbandono anche in relazione alla flessione delle coltivazioni agricole (presidio di gestione del paesaggio in senso lato). Mentre ancora il verde (tradotto in piantumazioni di canne comuni) diventa strumento di riqualificazione strutturale nella prima partecipazione dell’Angola. In Beyond Entropy Angola, a cura di Stefano Rabolli Pansera e Paula Nascimento, si affronta il caso delle aree di conurbazione senza urbanità di Luanda, città ad alta densità senza avere però edifici a più livelli. In questa crescita esponenziale dell’occupazione del suolo, nella mancanza totale di infrastrutture basilari, l’idea di piantumare gli spazi interstiziali tra le costruzioni con la canna comune (Arundo Donax) che cresce anche lungo i nostri fiumi, permette di trasformare il ‘verde’ o meglio il paesaggio in strumento di riqualificazione operativo a breve periodo: la canna cresce con grande rapidità (raggiungerà a fine novembre il soffitto dello spazio all’isola di San Giorgio dove è ospitato l’allestimento) e i filamenti finissimi del suo rizoma alla radice filtrano in modo naturale le acque sporche, mentre il fusto rigido assorbe grandi quantità di CO2 rendendolo ideale per la biomassa. Quello proposto è un modello urbanistico sostenibile in grado di diventare esempio-guida per i Paesi sub-sahariani. Non mancano nella mostra allestimenti ‘hot spot’, emergenti dal punto di vista della presenza architettonica e scenica, tra cui la struttura metallica Arum di Zaha Hadid, e l’allestimento Copycat di Cino Zucchi (menzione d’onore) metafora di una sommatoria architettonica e allo stesso tempo luogo di memorie domestiche, di oggetti e immagini in grado di produrre efficaci rimandi di scala, di abitudini e usi. Nei pressi del Giardino delle Vergini si fronteggiano infine le due architetture di Alvaro Siza e di Eduardo Souto de Moura rapportate alla densità dell’ambiente urbano veneziano la prima e al paesaggio dell’intorno, incorniciato dalle sue aperture e rapporti di spazi, il secondo. Una mostra che racconta temi, che delinea possibili percorsi, più che mostrare la magnificenza e la spettacolarità di opere singole. D’altra parte come ci ricorda lo stesso Chipperfield “progettare architetture che siano parte di un panorama quotidiano è sicuramente una bella sfida, molto più rischiosa e affascinante della creazione di un maxigrattacielo”.
foto di sergio pirrone, matteo vercelloni
testo di matteo vercelloni - [gallery ids="7710,7711,7712,7713,7714,7715,7716,7717,7718,7719,7720,7721,7722,7723,7724"]Come, con la crisi economica si è detto basta agli eccessi finanziari è arrivato il momento di fermare anche gli eccessi degli architetti […] troppo spesso, ultimamente, gli architetti sono stati chiamati come maître patissier a preparare la torta di nozze del padrone di casa, ossia del committente. Che identifica nell’architetto lo specialista che, al meglio, attraverso un edificio può pubblicizzare il suo nome o il suo marchio. Che, di per sé, non è una colpa. Però quando a Michelangelo fu affidato l’incarico per la cupola di San Pietro era sì un’operazione di ‘promozione’ del papato, ma al contempo una renovatio urbis”. Le affermazioni di David Chipperfield, in parte rese esplicite dalla sua Biennale di Architettura, non lasciano spazio al dubbio: è tempo di ritornare a intendere l’architettura come una disciplina complessa che si confronta con la storia e la memoria, con le città e i suoi cittadini e che, come affermava Aldo Rossi è da assumere come “opera d’arte collettiva”. La 13a Biennale di architettura veneziana nella sua molteplice rassegna di punti di vista tende a consegnarci tale messaggio senza mortificare o ridurre le specifiche poetiche e le singole espressioni di ogni architetto che però cercano di offrirsi come occasione di confronto più che come momento di presentazione professionale. Molti sono i temi che si possono rintracciare nella visita alla mostra tra le Corderie e i Giardini, alcuni sottolineano le intenzioni iniziali: partecipazione civile, riuso e sostenibilità, presenza della storia, progetti condivisi, senso e uso della città e dei suoi spazi, valore del paesaggio come risorsa strategica. Non si tratta tuttavia della celebrazione del tramonto della figura dell’archistar, piuttosto di individuare percorsi che leghino il progetto di architettura al suo senso urbano, per estendersi a volte alla scala territoriale come macrostrutture abitate (è il caso del progetto dei ponti architettonici per Stoccolma, pensati da Jean Nouvel e Mia Hägg per unire il centro storico di Gamla Stan all’isola più a sud della città; o all’avveniristico Global Hub AIR+PORT dello studio BIG/ Bjarke Ingels Group, sperimentale sintesi tipologica tra un aeroporto galleggiante e un porto navale previsto tra i ghiacci della Groenlandia a Nuuk). In generale in tutta la mostra si respira aria di complessità e questo può indurre a rendere più difficile e sfuggente il messaggio che non vuole essere di tipo ‘spettacolare’, ma fondativo. La camera scura di Norman Foster, Gateway, che accoglie i visitatori alle spalle dell’ingresso funge in fondo da manifesto introduttivo con la ‘storia’ proiettata sul pavimento nero nella forma di disegni, nomi dei protagonisti della cultura architettonica, messaggi, che si confrontano con lo spazio storico e contemporaneo dei raduni collettivi offerto da un serrato ritmo di immagini proiettate che ci avvolgono in alto, sui quattro lati delle pareti. Ordine e disordine per capire l’uso dell’architettura che a volte appare ‘improprio’, ma allo stesso tempo inarrestabile e spontaneo. Come appunto quello che avviene in uno dei monumenti architettonici contemporanei di Hong Kong: la Bank of China dello stesso Foster (in mostra ai Giardini) il cui piano terreno, pensato come ‘luogo pubblico’ e di passaggio sin dalla sua inaugurazione, si trasforma ogni domenica in una sorta di centro d’incontro della comunità delle colf filippine che, frammentandolo in microspazi con temporanei setti di cartone, attiva una straordinaria e pacifica varietà di attività sociali. In altro modo la riappropriazione di spazi urbani è rappresentata dal caso della Torre David a Caracas rappresentato dall’allestimento a cura di Urban Think Tank (Leone d’Oro quale miglior progetto della Mostra internazionale). Una torre per uffici rimasta incompleta è diventata una favela verticale nel centro urbano, simbolo del fallimento del neoliberismo e del self-empowerment delle classi povere, formando una nuova comunità spontanea, “modello ispiratore che riconosce la forza delle associazioni informali” (dalle motivazioni della Giuria), che ne ha trasformato gli spazi in una nuova casa collettiva con una propria identità. Valori di appartenenza restituiti dal progetto in mostra nella forma del ristorante di fantasia Gran Horizonte (punto d’incontro e di sosta lungo il percorso delle corderie) e dalla serie di fotografie di Iwan Baan che documentano momenti di vita della comunità spontanea. Partecipazione e tensione verso lo sviluppo urbano ‘dal basso’ sono testimoniati anche dalla ricerca di Elke Krasny, Hand –On Urbanism 1850-2012, e dal padiglione degli Stati Uniti d’America con il suo Spontaneous Interventions: Design Actions for the Common Good (menzione speciale della Giuria), dove una selezione di progetti ad opera di architetti, designer, urbanisti e semplici cittadini, configurano un mosaico di idee, proposte e realizzazioni, tese a “espandere la bellezza, il benessere, la funzionalità, la sicurezza e la sostenibilità delle città [dove] sperimentale, informale, alternativo, spontaneo, improvvisato, partecipativo, migliorativo, sono soltanto alcune delle parole che sono usate per descrivere questo movimento che si sta diffondendo sempre più a livello internazionale”. Ma dove forse al meglio si restituisce lo slogan del Commun Ground della Biennale veneziana è nell’Architecture possible here? Home-for-all del padiglione Giapponese (a cura di Toyo Ito, con allestimento di Akihisha Hirata, Sou Fujimoto, Kumiko Inui, Leone d’Oro per la migliore partecipazione nazionale), in cui la collaborazione e il confronto con la popolazione colpita dallo tsunami ha portato alla definizione di un nuovo centro d’incontro con la comunità locale, primo step di un programma in grado di generare la ‘voglia di casa’ in una regione devastata da una catastrofe nazionale. Tra uno sguardo alla storia e la ricerca di un confronto con il passato in termini attuali (l’omaggio alla magia compositiva dell’architetto barocco inglese Nicholas Hawksmoor, la bella mostra Facecity di Fulvio Irace dedicata al paesaggio urbano milanese del secondo dopoguerra, il Pasticcio di Caruso St. John teso a rintracciare una “continuità tra l’architettura contemporanea e quella antecedente al modernismo”, i ‘ritratti’ dei padiglioni della Biennale di Gabriele Basilico nell’allestimento di Diener & Diener, le radici storiche dichiarate da parte della ricerca sulla forma algoritmica di Zaha Hadid) i temi legati alla sostenibilità e al riuso sono emersi in più occasioni. Reduce/Reuse/Recycle – Architecture as Resource è il titolo-programma della Germania dove si dichiara apertamente che ogni costruzione è una risorsa con cui confrontarsi abbandonando la serialità tardo modernista della demolizione-progetto-ricostruzione; “secondo la logica di Reduce/Reuse/Recycle diverse strategie di ristrutturazione si possono classificare in base al rapporto fra vecchio e nuovo, fra l’intensità dell’intervento e il livello di modificazione. Trattando l’architettura edificata come una risorsa sostanziale e formale, si rende disponibile un’ampia gamma di possibilità e di approcci”. All’idea di sviluppo di una nuova consapevolezza rispetto al paesaggio urbano che ci circonda si riferisce anche la Svizzera, mentre la Russia, con i-city a cura di Sergei Tchoban (menzione speciale per l’allestimento e il tema trattato), dedica il suo padiglione, rivestito da pannelli metallici serigrafati da codici QR interattivi con tablet dati ai visitatori all’ingresso, al nuovo paesaggio in divenire del Centro d’innovazione di Skolkovo letto in rapporto alla storia delle città della scienza del Paese. Il verde, superata ogni dimensione semplicemente estetica, diventa fattore simbolico nel bosco di felci del Padiglione Italia di Luca Zevi che, oltre a sottolineare il valore dell’architettura per la produzione, emersa forse in modo inconsapevole dal solco della lezione di Adriano Olivetti, ci ricorda il valore del territorio e la necessità del suo mantenimento e gestione, oggi sempre più in abbandono anche in relazione alla flessione delle coltivazioni agricole (presidio di gestione del paesaggio in senso lato). Mentre ancora il verde (tradotto in piantumazioni di canne comuni) diventa strumento di riqualificazione strutturale nella prima partecipazione dell’Angola. In Beyond Entropy Angola, a cura di Stefano Rabolli Pansera e Paula Nascimento, si affronta il caso delle aree di conurbazione senza urbanità di Luanda, città ad alta densità senza avere però edifici a più livelli. In questa crescita esponenziale dell’occupazione del suolo, nella mancanza totale di infrastrutture basilari, l’idea di piantumare gli spazi interstiziali tra le costruzioni con la canna comune (Arundo Donax) che cresce anche lungo i nostri fiumi, permette di trasformare il ‘verde’ o meglio il paesaggio in strumento di riqualificazione operativo a breve periodo: la canna cresce con grande rapidità (raggiungerà a fine novembre il soffitto dello spazio all’isola di San Giorgio dove è ospitato l’allestimento) e i filamenti finissimi del suo rizoma alla radice filtrano in modo naturale le acque sporche, mentre il fusto rigido assorbe grandi quantità di CO2 rendendolo ideale per la biomassa. Quello proposto è un modello urbanistico sostenibile in grado di diventare esempio-guida per i Paesi sub-sahariani. Non mancano nella mostra allestimenti ‘hot spot’, emergenti dal punto di vista della presenza architettonica e scenica, tra cui la struttura metallica Arum di Zaha Hadid, e l’allestimento Copycat di Cino Zucchi (menzione d’onore) metafora di una sommatoria architettonica e allo stesso tempo luogo di memorie domestiche, di oggetti e immagini in grado di produrre efficaci rimandi di scala, di abitudini e usi. Nei pressi del Giardino delle Vergini si fronteggiano infine le due architetture di Alvaro Siza e di Eduardo Souto de Moura rapportate alla densità dell’ambiente urbano veneziano la prima e al paesaggio dell’intorno, incorniciato dalle sue aperture e rapporti di spazi, il secondo. Una mostra che racconta temi, che delinea possibili percorsi, più che mostrare la magnificenza e la spettacolarità di opere singole. D’altra parte come ci ricorda lo stesso Chipperfield “progettare architetture che siano parte di un panorama quotidiano è sicuramente una bella sfida, molto più rischiosa e affascinante della creazione di un maxigrattacielo”.
foto di sergio pirrone, matteo vercelloni
testo di matteo vercelloni - [gallery ids="7710,7711,7712,7713,7714,7715,7716,7717,7718,7719,7720,7721,7722,7723,7724"]Come, con la crisi economica si è detto basta agli eccessi finanziari è arrivato il momento di fermare anche gli eccessi degli architetti […] troppo spesso, ultimamente, gli architetti sono stati chiamati come maître patissier a preparare la torta di nozze del padrone di casa, ossia del committente. Che identifica nell’architetto lo specialista che, al meglio, attraverso un edificio può pubblicizzare il suo nome o il suo marchio. Che, di per sé, non è una colpa. Però quando a Michelangelo fu affidato l’incarico per la cupola di San Pietro era sì un’operazione di ‘promozione’ del papato, ma al contempo una renovatio urbis”. Le affermazioni di David Chipperfield, in parte rese esplicite dalla sua Biennale di Architettura, non lasciano spazio al dubbio: è tempo di ritornare a intendere l’architettura come una disciplina complessa che si confronta con la storia e la memoria, con le città e i suoi cittadini e che, come affermava Aldo Rossi è da assumere come “opera d’arte collettiva”. La 13a Biennale di architettura veneziana nella sua molteplice rassegna di punti di vista tende a consegnarci tale messaggio senza mortificare o ridurre le specifiche poetiche e le singole espressioni di ogni architetto che però cercano di offrirsi come occasione di confronto più che come momento di presentazione professionale. Molti sono i temi che si possono rintracciare nella visita alla mostra tra le Corderie e i Giardini, alcuni sottolineano le intenzioni iniziali: partecipazione civile, riuso e sostenibilità, presenza della storia, progetti condivisi, senso e uso della città e dei suoi spazi, valore del paesaggio come risorsa strategica. Non si tratta tuttavia della celebrazione del tramonto della figura dell’archistar, piuttosto di individuare percorsi che leghino il progetto di architettura al suo senso urbano, per estendersi a volte alla scala territoriale come macrostrutture abitate (è il caso del progetto dei ponti architettonici per Stoccolma, pensati da Jean Nouvel e Mia Hägg per unire il centro storico di Gamla Stan all’isola più a sud della città; o all’avveniristico Global Hub AIR+PORT dello studio BIG/ Bjarke Ingels Group, sperimentale sintesi tipologica tra un aeroporto galleggiante e un porto navale previsto tra i ghiacci della Groenlandia a Nuuk). In generale in tutta la mostra si respira aria di complessità e questo può indurre a rendere più difficile e sfuggente il messaggio che non vuole essere di tipo ‘spettacolare’, ma fondativo. La camera scura di Norman Foster, Gateway, che accoglie i visitatori alle spalle dell’ingresso funge in fondo da manifesto introduttivo con la ‘storia’ proiettata sul pavimento nero nella forma di disegni, nomi dei protagonisti della cultura architettonica, messaggi, che si confrontano con lo spazio storico e contemporaneo dei raduni collettivi offerto da un serrato ritmo di immagini proiettate che ci avvolgono in alto, sui quattro lati delle pareti. Ordine e disordine per capire l’uso dell’architettura che a volte appare ‘improprio’, ma allo stesso tempo inarrestabile e spontaneo. Come appunto quello che avviene in uno dei monumenti architettonici contemporanei di Hong Kong: la Bank of China dello stesso Foster (in mostra ai Giardini) il cui piano terreno, pensato come ‘luogo pubblico’ e di passaggio sin dalla sua inaugurazione, si trasforma ogni domenica in una sorta di centro d’incontro della comunità delle colf filippine che, frammentandolo in microspazi con temporanei setti di cartone, attiva una straordinaria e pacifica varietà di attività sociali. In altro modo la riappropriazione di spazi urbani è rappresentata dal caso della Torre David a Caracas rappresentato dall’allestimento a cura di Urban Think Tank (Leone d’Oro quale miglior progetto della Mostra internazionale). Una torre per uffici rimasta incompleta è diventata una favela verticale nel centro urbano, simbolo del fallimento del neoliberismo e del self-empowerment delle classi povere, formando una nuova comunità spontanea, “modello ispiratore che riconosce la forza delle associazioni informali” (dalle motivazioni della Giuria), che ne ha trasformato gli spazi in una nuova casa collettiva con una propria identità. Valori di appartenenza restituiti dal progetto in mostra nella forma del ristorante di fantasia Gran Horizonte (punto d’incontro e di sosta lungo il percorso delle corderie) e dalla serie di fotografie di Iwan Baan che documentano momenti di vita della comunità spontanea. Partecipazione e tensione verso lo sviluppo urbano ‘dal basso’ sono testimoniati anche dalla ricerca di Elke Krasny, Hand –On Urbanism 1850-2012, e dal padiglione degli Stati Uniti d’America con il suo Spontaneous Interventions: Design Actions for the Common Good (menzione speciale della Giuria), dove una selezione di progetti ad opera di architetti, designer, urbanisti e semplici cittadini, configurano un mosaico di idee, proposte e realizzazioni, tese a “espandere la bellezza, il benessere, la funzionalità, la sicurezza e la sostenibilità delle città [dove] sperimentale, informale, alternativo, spontaneo, improvvisato, partecipativo, migliorativo, sono soltanto alcune delle parole che sono usate per descrivere questo movimento che si sta diffondendo sempre più a livello internazionale”. Ma dove forse al meglio si restituisce lo slogan del Commun Ground della Biennale veneziana è nell’Architecture possible here? Home-for-all del padiglione Giapponese (a cura di Toyo Ito, con allestimento di Akihisha Hirata, Sou Fujimoto, Kumiko Inui, Leone d’Oro per la migliore partecipazione nazionale), in cui la collaborazione e il confronto con la popolazione colpita dallo tsunami ha portato alla definizione di un nuovo centro d’incontro con la comunità locale, primo step di un programma in grado di generare la ‘voglia di casa’ in una regione devastata da una catastrofe nazionale. Tra uno sguardo alla storia e la ricerca di un confronto con il passato in termini attuali (l’omaggio alla magia compositiva dell’architetto barocco inglese Nicholas Hawksmoor, la bella mostra Facecity di Fulvio Irace dedicata al paesaggio urbano milanese del secondo dopoguerra, il Pasticcio di Caruso St. John teso a rintracciare una “continuità tra l’architettura contemporanea e quella antecedente al modernismo”, i ‘ritratti’ dei padiglioni della Biennale di Gabriele Basilico nell’allestimento di Diener & Diener, le radici storiche dichiarate da parte della ricerca sulla forma algoritmica di Zaha Hadid) i temi legati alla sostenibilità e al riuso sono emersi in più occasioni. Reduce/Reuse/Recycle – Architecture as Resource è il titolo-programma della Germania dove si dichiara apertamente che ogni costruzione è una risorsa con cui confrontarsi abbandonando la serialità tardo modernista della demolizione-progetto-ricostruzione; “secondo la logica di Reduce/Reuse/Recycle diverse strategie di ristrutturazione si possono classificare in base al rapporto fra vecchio e nuovo, fra l’intensità dell’intervento e il livello di modificazione. Trattando l’architettura edificata come una risorsa sostanziale e formale, si rende disponibile un’ampia gamma di possibilità e di approcci”. All’idea di sviluppo di una nuova consapevolezza rispetto al paesaggio urbano che ci circonda si riferisce anche la Svizzera, mentre la Russia, con i-city a cura di Sergei Tchoban (menzione speciale per l’allestimento e il tema trattato), dedica il suo padiglione, rivestito da pannelli metallici serigrafati da codici QR interattivi con tablet dati ai visitatori all’ingresso, al nuovo paesaggio in divenire del Centro d’innovazione di Skolkovo letto in rapporto alla storia delle città della scienza del Paese. Il verde, superata ogni dimensione semplicemente estetica, diventa fattore simbolico nel bosco di felci del Padiglione Italia di Luca Zevi che, oltre a sottolineare il valore dell’architettura per la produzione, emersa forse in modo inconsapevole dal solco della lezione di Adriano Olivetti, ci ricorda il valore del territorio e la necessità del suo mantenimento e gestione, oggi sempre più in abbandono anche in relazione alla flessione delle coltivazioni agricole (presidio di gestione del paesaggio in senso lato). Mentre ancora il verde (tradotto in piantumazioni di canne comuni) diventa strumento di riqualificazione strutturale nella prima partecipazione dell’Angola. In Beyond Entropy Angola, a cura di Stefano Rabolli Pansera e Paula Nascimento, si affronta il caso delle aree di conurbazione senza urbanità di Luanda, città ad alta densità senza avere però edifici a più livelli. In questa crescita esponenziale dell’occupazione del suolo, nella mancanza totale di infrastrutture basilari, l’idea di piantumare gli spazi interstiziali tra le costruzioni con la canna comune (Arundo Donax) che cresce anche lungo i nostri fiumi, permette di trasformare il ‘verde’ o meglio il paesaggio in strumento di riqualificazione operativo a breve periodo: la canna cresce con grande rapidità (raggiungerà a fine novembre il soffitto dello spazio all’isola di San Giorgio dove è ospitato l’allestimento) e i filamenti finissimi del suo rizoma alla radice filtrano in modo naturale le acque sporche, mentre il fusto rigido assorbe grandi quantità di CO2 rendendolo ideale per la biomassa. Quello proposto è un modello urbanistico sostenibile in grado di diventare esempio-guida per i Paesi sub-sahariani. Non mancano nella mostra allestimenti ‘hot spot’, emergenti dal punto di vista della presenza architettonica e scenica, tra cui la struttura metallica Arum di Zaha Hadid, e l’allestimento Copycat di Cino Zucchi (menzione d’onore) metafora di una sommatoria architettonica e allo stesso tempo luogo di memorie domestiche, di oggetti e immagini in grado di produrre efficaci rimandi di scala, di abitudini e usi. Nei pressi del Giardino delle Vergini si fronteggiano infine le due architetture di Alvaro Siza e di Eduardo Souto de Moura rapportate alla densità dell’ambiente urbano veneziano la prima e al paesaggio dell’intorno, incorniciato dalle sue aperture e rapporti di spazi, il secondo. Una mostra che racconta temi, che delinea possibili percorsi, più che mostrare la magnificenza e la spettacolarità di opere singole. D’altra parte come ci ricorda lo stesso Chipperfield “progettare architetture che siano parte di un panorama quotidiano è sicuramente una bella sfida, molto più rischiosa e affascinante della creazione di un maxigrattacielo”.
foto di sergio pirrone, matteo vercelloni
testo di matteo vercelloni - [gallery ids="7710,7711,7712,7713,7714,7715,7716,7717,7718,7719,7720,7721,7722,7723,7724"]Come, con la crisi economica si è detto basta agli eccessi finanziari è arrivato il momento di fermare anche gli eccessi degli architetti […] troppo spesso, ultimamente, gli architetti sono stati chiamati come maître patissier a preparare la torta di nozze del padrone di casa, ossia del committente. Che identifica nell’architetto lo specialista che, al meglio, attraverso un edificio può pubblicizzare il suo nome o il suo marchio. Che, di per sé, non è una colpa. Però quando a Michelangelo fu affidato l’incarico per la cupola di San Pietro era sì un’operazione di ‘promozione’ del papato, ma al contempo una renovatio urbis”. Le affermazioni di David Chipperfield, in parte rese esplicite dalla sua Biennale di Architettura, non lasciano spazio al dubbio: è tempo di ritornare a intendere l’architettura come una disciplina complessa che si confronta con la storia e la memoria, con le città e i suoi cittadini e che, come affermava Aldo Rossi è da assumere come “opera d’arte collettiva”. La 13a Biennale di architettura veneziana nella sua molteplice rassegna di punti di vista tende a consegnarci tale messaggio senza mortificare o ridurre le specifiche poetiche e le singole espressioni di ogni architetto che però cercano di offrirsi come occasione di confronto più che come momento di presentazione professionale. Molti sono i temi che si possono rintracciare nella visita alla mostra tra le Corderie e i Giardini, alcuni sottolineano le intenzioni iniziali: partecipazione civile, riuso e sostenibilità, presenza della storia, progetti condivisi, senso e uso della città e dei suoi spazi, valore del paesaggio come risorsa strategica. Non si tratta tuttavia della celebrazione del tramonto della figura dell’archistar, piuttosto di individuare percorsi che leghino il progetto di architettura al suo senso urbano, per estendersi a volte alla scala territoriale come macrostrutture abitate (è il caso del progetto dei ponti architettonici per Stoccolma, pensati da Jean Nouvel e Mia Hägg per unire il centro storico di Gamla Stan all’isola più a sud della città; o all’avveniristico Global Hub AIR+PORT dello studio BIG/ Bjarke Ingels Group, sperimentale sintesi tipologica tra un aeroporto galleggiante e un porto navale previsto tra i ghiacci della Groenlandia a Nuuk). In generale in tutta la mostra si respira aria di complessità e questo può indurre a rendere più difficile e sfuggente il messaggio che non vuole essere di tipo ‘spettacolare’, ma fondativo. La camera scura di Norman Foster, Gateway, che accoglie i visitatori alle spalle dell’ingresso funge in fondo da manifesto introduttivo con la ‘storia’ proiettata sul pavimento nero nella forma di disegni, nomi dei protagonisti della cultura architettonica, messaggi, che si confrontano con lo spazio storico e contemporaneo dei raduni collettivi offerto da un serrato ritmo di immagini proiettate che ci avvolgono in alto, sui quattro lati delle pareti. Ordine e disordine per capire l’uso dell’architettura che a volte appare ‘improprio’, ma allo stesso tempo inarrestabile e spontaneo. Come appunto quello che avviene in uno dei monumenti architettonici contemporanei di Hong Kong: la Bank of China dello stesso Foster (in mostra ai Giardini) il cui piano terreno, pensato come ‘luogo pubblico’ e di passaggio sin dalla sua inaugurazione, si trasforma ogni domenica in una sorta di centro d’incontro della comunità delle colf filippine che, frammentandolo in microspazi con temporanei setti di cartone, attiva una straordinaria e pacifica varietà di attività sociali. In altro modo la riappropriazione di spazi urbani è rappresentata dal caso della Torre David a Caracas rappresentato dall’allestimento a cura di Urban Think Tank (Leone d’Oro quale miglior progetto della Mostra internazionale). Una torre per uffici rimasta incompleta è diventata una favela verticale nel centro urbano, simbolo del fallimento del neoliberismo e del self-empowerment delle classi povere, formando una nuova comunità spontanea, “modello ispiratore che riconosce la forza delle associazioni informali” (dalle motivazioni della Giuria), che ne ha trasformato gli spazi in una nuova casa collettiva con una propria identità. Valori di appartenenza restituiti dal progetto in mostra nella forma del ristorante di fantasia Gran Horizonte (punto d’incontro e di sosta lungo il percorso delle corderie) e dalla serie di fotografie di Iwan Baan che documentano momenti di vita della comunità spontanea. Partecipazione e tensione verso lo sviluppo urbano ‘dal basso’ sono testimoniati anche dalla ricerca di Elke Krasny, Hand –On Urbanism 1850-2012, e dal padiglione degli Stati Uniti d’America con il suo Spontaneous Interventions: Design Actions for the Common Good (menzione speciale della Giuria), dove una selezione di progetti ad opera di architetti, designer, urbanisti e semplici cittadini, configurano un mosaico di idee, proposte e realizzazioni, tese a “espandere la bellezza, il benessere, la funzionalità, la sicurezza e la sostenibilità delle città [dove] sperimentale, informale, alternativo, spontaneo, improvvisato, partecipativo, migliorativo, sono soltanto alcune delle parole che sono usate per descrivere questo movimento che si sta diffondendo sempre più a livello internazionale”. Ma dove forse al meglio si restituisce lo slogan del Commun Ground della Biennale veneziana è nell’Architecture possible here? Home-for-all del padiglione Giapponese (a cura di Toyo Ito, con allestimento di Akihisha Hirata, Sou Fujimoto, Kumiko Inui, Leone d’Oro per la migliore partecipazione nazionale), in cui la collaborazione e il confronto con la popolazione colpita dallo tsunami ha portato alla definizione di un nuovo centro d’incontro con la comunità locale, primo step di un programma in grado di generare la ‘voglia di casa’ in una regione devastata da una catastrofe nazionale. Tra uno sguardo alla storia e la ricerca di un confronto con il passato in termini attuali (l’omaggio alla magia compositiva dell’architetto barocco inglese Nicholas Hawksmoor, la bella mostra Facecity di Fulvio Irace dedicata al paesaggio urbano milanese del secondo dopoguerra, il Pasticcio di Caruso St. John teso a rintracciare una “continuità tra l’architettura contemporanea e quella antecedente al modernismo”, i ‘ritratti’ dei padiglioni della Biennale di Gabriele Basilico nell’allestimento di Diener & Diener, le radici storiche dichiarate da parte della ricerca sulla forma algoritmica di Zaha Hadid) i temi legati alla sostenibilità e al riuso sono emersi in più occasioni. Reduce/Reuse/Recycle – Architecture as Resource è il titolo-programma della Germania dove si dichiara apertamente che ogni costruzione è una risorsa con cui confrontarsi abbandonando la serialità tardo modernista della demolizione-progetto-ricostruzione; “secondo la logica di Reduce/Reuse/Recycle diverse strategie di ristrutturazione si possono classificare in base al rapporto fra vecchio e nuovo, fra l’intensità dell’intervento e il livello di modificazione. Trattando l’architettura edificata come una risorsa sostanziale e formale, si rende disponibile un’ampia gamma di possibilità e di approcci”. All’idea di sviluppo di una nuova consapevolezza rispetto al paesaggio urbano che ci circonda si riferisce anche la Svizzera, mentre la Russia, con i-city a cura di Sergei Tchoban (menzione speciale per l’allestimento e il tema trattato), dedica il suo padiglione, rivestito da pannelli metallici serigrafati da codici QR interattivi con tablet dati ai visitatori all’ingresso, al nuovo paesaggio in divenire del Centro d’innovazione di Skolkovo letto in rapporto alla storia delle città della scienza del Paese. Il verde, superata ogni dimensione semplicemente estetica, diventa fattore simbolico nel bosco di felci del Padiglione Italia di Luca Zevi che, oltre a sottolineare il valore dell’architettura per la produzione, emersa forse in modo inconsapevole dal solco della lezione di Adriano Olivetti, ci ricorda il valore del territorio e la necessità del suo mantenimento e gestione, oggi sempre più in abbandono anche in relazione alla flessione delle coltivazioni agricole (presidio di gestione del paesaggio in senso lato). Mentre ancora il verde (tradotto in piantumazioni di canne comuni) diventa strumento di riqualificazione strutturale nella prima partecipazione dell’Angola. In Beyond Entropy Angola, a cura di Stefano Rabolli Pansera e Paula Nascimento, si affronta il caso delle aree di conurbazione senza urbanità di Luanda, città ad alta densità senza avere però edifici a più livelli. In questa crescita esponenziale dell’occupazione del suolo, nella mancanza totale di infrastrutture basilari, l’idea di piantumare gli spazi interstiziali tra le costruzioni con la canna comune (Arundo Donax) che cresce anche lungo i nostri fiumi, permette di trasformare il ‘verde’ o meglio il paesaggio in strumento di riqualificazione operativo a breve periodo: la canna cresce con grande rapidità (raggiungerà a fine novembre il soffitto dello spazio all’isola di San Giorgio dove è ospitato l’allestimento) e i filamenti finissimi del suo rizoma alla radice filtrano in modo naturale le acque sporche, mentre il fusto rigido assorbe grandi quantità di CO2 rendendolo ideale per la biomassa. Quello proposto è un modello urbanistico sostenibile in grado di diventare esempio-guida per i Paesi sub-sahariani. Non mancano nella mostra allestimenti ‘hot spot’, emergenti dal punto di vista della presenza architettonica e scenica, tra cui la struttura metallica Arum di Zaha Hadid, e l’allestimento Copycat di Cino Zucchi (menzione d’onore) metafora di una sommatoria architettonica e allo stesso tempo luogo di memorie domestiche, di oggetti e immagini in grado di produrre efficaci rimandi di scala, di abitudini e usi. Nei pressi del Giardino delle Vergini si fronteggiano infine le due architetture di Alvaro Siza e di Eduardo Souto de Moura rapportate alla densità dell’ambiente urbano veneziano la prima e al paesaggio dell’intorno, incorniciato dalle sue aperture e rapporti di spazi, il secondo. Una mostra che racconta temi, che delinea possibili percorsi, più che mostrare la magnificenza e la spettacolarità di opere singole. D’altra parte come ci ricorda lo stesso Chipperfield “progettare architetture che siano parte di un panorama quotidiano è sicuramente una bella sfida, molto più rischiosa e affascinante della creazione di un maxigrattacielo”.
foto di sergio pirrone, matteo vercelloni
testo di matteo vercelloni - [gallery ids="7710,7711,7712,7713,7714,7715,7716,7717,7718,7719,7720,7721,7722,7723,7724"]Come, con la crisi economica si è detto basta agli eccessi finanziari è arrivato il momento di fermare anche gli eccessi degli architetti […] troppo spesso, ultimamente, gli architetti sono stati chiamati come maître patissier a preparare la torta di nozze del padrone di casa, ossia del committente. Che identifica nell’architetto lo specialista che, al meglio, attraverso un edificio può pubblicizzare il suo nome o il suo marchio. Che, di per sé, non è una colpa. Però quando a Michelangelo fu affidato l’incarico per la cupola di San Pietro era sì un’operazione di ‘promozione’ del papato, ma al contempo una renovatio urbis”. Le affermazioni di David Chipperfield, in parte rese esplicite dalla sua Biennale di Architettura, non lasciano spazio al dubbio: è tempo di ritornare a intendere l’architettura come una disciplina complessa che si confronta con la storia e la memoria, con le città e i suoi cittadini e che, come affermava Aldo Rossi è da assumere come “opera d’arte collettiva”. La 13a Biennale di architettura veneziana nella sua molteplice rassegna di punti di vista tende a consegnarci tale messaggio senza mortificare o ridurre le specifiche poetiche e le singole espressioni di ogni architetto che però cercano di offrirsi come occasione di confronto più che come momento di presentazione professionale. Molti sono i temi che si possono rintracciare nella visita alla mostra tra le Corderie e i Giardini, alcuni sottolineano le intenzioni iniziali: partecipazione civile, riuso e sostenibilità, presenza della storia, progetti condivisi, senso e uso della città e dei suoi spazi, valore del paesaggio come risorsa strategica. Non si tratta tuttavia della celebrazione del tramonto della figura dell’archistar, piuttosto di individuare percorsi che leghino il progetto di architettura al suo senso urbano, per estendersi a volte alla scala territoriale come macrostrutture abitate (è il caso del progetto dei ponti architettonici per Stoccolma, pensati da Jean Nouvel e Mia Hägg per unire il centro storico di Gamla Stan all’isola più a sud della città; o all’avveniristico Global Hub AIR+PORT dello studio BIG/ Bjarke Ingels Group, sperimentale sintesi tipologica tra un aeroporto galleggiante e un porto navale previsto tra i ghiacci della Groenlandia a Nuuk). In generale in tutta la mostra si respira aria di complessità e questo può indurre a rendere più difficile e sfuggente il messaggio che non vuole essere di tipo ‘spettacolare’, ma fondativo. La camera scura di Norman Foster, Gateway, che accoglie i visitatori alle spalle dell’ingresso funge in fondo da manifesto introduttivo con la ‘storia’ proiettata sul pavimento nero nella forma di disegni, nomi dei protagonisti della cultura architettonica, messaggi, che si confrontano con lo spazio storico e contemporaneo dei raduni collettivi offerto da un serrato ritmo di immagini proiettate che ci avvolgono in alto, sui quattro lati delle pareti. Ordine e disordine per capire l’uso dell’architettura che a volte appare ‘improprio’, ma allo stesso tempo inarrestabile e spontaneo. Come appunto quello che avviene in uno dei monumenti architettonici contemporanei di Hong Kong: la Bank of China dello stesso Foster (in mostra ai Giardini) il cui piano terreno, pensato come ‘luogo pubblico’ e di passaggio sin dalla sua inaugurazione, si trasforma ogni domenica in una sorta di centro d’incontro della comunità delle colf filippine che, frammentandolo in microspazi con temporanei setti di cartone, attiva una straordinaria e pacifica varietà di attività sociali. In altro modo la riappropriazione di spazi urbani è rappresentata dal caso della Torre David a Caracas rappresentato dall’allestimento a cura di Urban Think Tank (Leone d’Oro quale miglior progetto della Mostra internazionale). Una torre per uffici rimasta incompleta è diventata una favela verticale nel centro urbano, simbolo del fallimento del neoliberismo e del self-empowerment delle classi povere, formando una nuova comunità spontanea, “modello ispiratore che riconosce la forza delle associazioni informali” (dalle motivazioni della Giuria), che ne ha trasformato gli spazi in una nuova casa collettiva con una propria identità. Valori di appartenenza restituiti dal progetto in mostra nella forma del ristorante di fantasia Gran Horizonte (punto d’incontro e di sosta lungo il percorso delle corderie) e dalla serie di fotografie di Iwan Baan che documentano momenti di vita della comunità spontanea. Partecipazione e tensione verso lo sviluppo urbano ‘dal basso’ sono testimoniati anche dalla ricerca di Elke Krasny, Hand –On Urbanism 1850-2012, e dal padiglione degli Stati Uniti d’America con il suo Spontaneous Interventions: Design Actions for the Common Good (menzione speciale della Giuria), dove una selezione di progetti ad opera di architetti, designer, urbanisti e semplici cittadini, configurano un mosaico di idee, proposte e realizzazioni, tese a “espandere la bellezza, il benessere, la funzionalità, la sicurezza e la sostenibilità delle città [dove] sperimentale, informale, alternativo, spontaneo, improvvisato, partecipativo, migliorativo, sono soltanto alcune delle parole che sono usate per descrivere questo movimento che si sta diffondendo sempre più a livello internazionale”. Ma dove forse al meglio si restituisce lo slogan del Commun Ground della Biennale veneziana è nell’Architecture possible here? Home-for-all del padiglione Giapponese (a cura di Toyo Ito, con allestimento di Akihisha Hirata, Sou Fujimoto, Kumiko Inui, Leone d’Oro per la migliore partecipazione nazionale), in cui la collaborazione e il confronto con la popolazione colpita dallo tsunami ha portato alla definizione di un nuovo centro d’incontro con la comunità locale, primo step di un programma in grado di generare la ‘voglia di casa’ in una regione devastata da una catastrofe nazionale. Tra uno sguardo alla storia e la ricerca di un confronto con il passato in termini attuali (l’omaggio alla magia compositiva dell’architetto barocco inglese Nicholas Hawksmoor, la bella mostra Facecity di Fulvio Irace dedicata al paesaggio urbano milanese del secondo dopoguerra, il Pasticcio di Caruso St. John teso a rintracciare una “continuità tra l’architettura contemporanea e quella antecedente al modernismo”, i ‘ritratti’ dei padiglioni della Biennale di Gabriele Basilico nell’allestimento di Diener & Diener, le radici storiche dichiarate da parte della ricerca sulla forma algoritmica di Zaha Hadid) i temi legati alla sostenibilità e al riuso sono emersi in più occasioni. Reduce/Reuse/Recycle – Architecture as Resource è il titolo-programma della Germania dove si dichiara apertamente che ogni costruzione è una risorsa con cui confrontarsi abbandonando la serialità tardo modernista della demolizione-progetto-ricostruzione; “secondo la logica di Reduce/Reuse/Recycle diverse strategie di ristrutturazione si possono classificare in base al rapporto fra vecchio e nuovo, fra l’intensità dell’intervento e il livello di modificazione. Trattando l’architettura edificata come una risorsa sostanziale e formale, si rende disponibile un’ampia gamma di possibilità e di approcci”. All’idea di sviluppo di una nuova consapevolezza rispetto al paesaggio urbano che ci circonda si riferisce anche la Svizzera, mentre la Russia, con i-city a cura di Sergei Tchoban (menzione speciale per l’allestimento e il tema trattato), dedica il suo padiglione, rivestito da pannelli metallici serigrafati da codici QR interattivi con tablet dati ai visitatori all’ingresso, al nuovo paesaggio in divenire del Centro d’innovazione di Skolkovo letto in rapporto alla storia delle città della scienza del Paese. Il verde, superata ogni dimensione semplicemente estetica, diventa fattore simbolico nel bosco di felci del Padiglione Italia di Luca Zevi che, oltre a sottolineare il valore dell’architettura per la produzione, emersa forse in modo inconsapevole dal solco della lezione di Adriano Olivetti, ci ricorda il valore del territorio e la necessità del suo mantenimento e gestione, oggi sempre più in abbandono anche in relazione alla flessione delle coltivazioni agricole (presidio di gestione del paesaggio in senso lato). Mentre ancora il verde (tradotto in piantumazioni di canne comuni) diventa strumento di riqualificazione strutturale nella prima partecipazione dell’Angola. In Beyond Entropy Angola, a cura di Stefano Rabolli Pansera e Paula Nascimento, si affronta il caso delle aree di conurbazione senza urbanità di Luanda, città ad alta densità senza avere però edifici a più livelli. In questa crescita esponenziale dell’occupazione del suolo, nella mancanza totale di infrastrutture basilari, l’idea di piantumare gli spazi interstiziali tra le costruzioni con la canna comune (Arundo Donax) che cresce anche lungo i nostri fiumi, permette di trasformare il ‘verde’ o meglio il paesaggio in strumento di riqualificazione operativo a breve periodo: la canna cresce con grande rapidità (raggiungerà a fine novembre il soffitto dello spazio all’isola di San Giorgio dove è ospitato l’allestimento) e i filamenti finissimi del suo rizoma alla radice filtrano in modo naturale le acque sporche, mentre il fusto rigido assorbe grandi quantità di CO2 rendendolo ideale per la biomassa. Quello proposto è un modello urbanistico sostenibile in grado di diventare esempio-guida per i Paesi sub-sahariani. Non mancano nella mostra allestimenti ‘hot spot’, emergenti dal punto di vista della presenza architettonica e scenica, tra cui la struttura metallica Arum di Zaha Hadid, e l’allestimento Copycat di Cino Zucchi (menzione d’onore) metafora di una sommatoria architettonica e allo stesso tempo luogo di memorie domestiche, di oggetti e immagini in grado di produrre efficaci rimandi di scala, di abitudini e usi. Nei pressi del Giardino delle Vergini si fronteggiano infine le due architetture di Alvaro Siza e di Eduardo Souto de Moura rapportate alla densità dell’ambiente urbano veneziano la prima e al paesaggio dell’intorno, incorniciato dalle sue aperture e rapporti di spazi, il secondo. Una mostra che racconta temi, che delinea possibili percorsi, più che mostrare la magnificenza e la spettacolarità di opere singole. D’altra parte come ci ricorda lo stesso Chipperfield “progettare architetture che siano parte di un panorama quotidiano è sicuramente una bella sfida, molto più rischiosa e affascinante della creazione di un maxigrattacielo”.
foto di sergio pirrone, matteo vercelloni
testo di matteo vercelloni - [gallery ids="7710,7711,7712,7713,7714,7715,7716,7717,7718,7719,7720,7721,7722,7723,7724"]Come, con la crisi economica si è detto basta agli eccessi finanziari è arrivato il momento di fermare anche gli eccessi degli architetti […] troppo spesso, ultimamente, gli architetti sono stati chiamati come maître patissier a preparare la torta di nozze del padrone di casa, ossia del committente. Che identifica nell’architetto lo specialista che, al meglio, attraverso un edificio può pubblicizzare il suo nome o il suo marchio. Che, di per sé, non è una colpa. Però quando a Michelangelo fu affidato l’incarico per la cupola di San Pietro era sì un’operazione di ‘promozione’ del papato, ma al contempo una renovatio urbis”. Le affermazioni di David Chipperfield, in parte rese esplicite dalla sua Biennale di Architettura, non lasciano spazio al dubbio: è tempo di ritornare a intendere l’architettura come una disciplina complessa che si confronta con la storia e la memoria, con le città e i suoi cittadini e che, come affermava Aldo Rossi è da assumere come “opera d’arte collettiva”. La 13a Biennale di architettura veneziana nella sua molteplice rassegna di punti di vista tende a consegnarci tale messaggio senza mortificare o ridurre le specifiche poetiche e le singole espressioni di ogni architetto che però cercano di offrirsi come occasione di confronto più che come momento di presentazione professionale. Molti sono i temi che si possono rintracciare nella visita alla mostra tra le Corderie e i Giardini, alcuni sottolineano le intenzioni iniziali: partecipazione civile, riuso e sostenibilità, presenza della storia, progetti condivisi, senso e uso della città e dei suoi spazi, valore del paesaggio come risorsa strategica. Non si tratta tuttavia della celebrazione del tramonto della figura dell’archistar, piuttosto di individuare percorsi che leghino il progetto di architettura al suo senso urbano, per estendersi a volte alla scala territoriale come macrostrutture abitate (è il caso del progetto dei ponti architettonici per Stoccolma, pensati da Jean Nouvel e Mia Hägg per unire il centro storico di Gamla Stan all’isola più a sud della città; o all’avveniristico Global Hub AIR+PORT dello studio BIG/ Bjarke Ingels Group, sperimentale sintesi tipologica tra un aeroporto galleggiante e un porto navale previsto tra i ghiacci della Groenlandia a Nuuk). In generale in tutta la mostra si respira aria di complessità e questo può indurre a rendere più difficile e sfuggente il messaggio che non vuole essere di tipo ‘spettacolare’, ma fondativo. La camera scura di Norman Foster, Gateway, che accoglie i visitatori alle spalle dell’ingresso funge in fondo da manifesto introduttivo con la ‘storia’ proiettata sul pavimento nero nella forma di disegni, nomi dei protagonisti della cultura architettonica, messaggi, che si confrontano con lo spazio storico e contemporaneo dei raduni collettivi offerto da un serrato ritmo di immagini proiettate che ci avvolgono in alto, sui quattro lati delle pareti. Ordine e disordine per capire l’uso dell’architettura che a volte appare ‘improprio’, ma allo stesso tempo inarrestabile e spontaneo. Come appunto quello che avviene in uno dei monumenti architettonici contemporanei di Hong Kong: la Bank of China dello stesso Foster (in mostra ai Giardini) il cui piano terreno, pensato come ‘luogo pubblico’ e di passaggio sin dalla sua inaugurazione, si trasforma ogni domenica in una sorta di centro d’incontro della comunità delle colf filippine che, frammentandolo in microspazi con temporanei setti di cartone, attiva una straordinaria e pacifica varietà di attività sociali. In altro modo la riappropriazione di spazi urbani è rappresentata dal caso della Torre David a Caracas rappresentato dall’allestimento a cura di Urban Think Tank (Leone d’Oro quale miglior progetto della Mostra internazionale). Una torre per uffici rimasta incompleta è diventata una favela verticale nel centro urbano, simbolo del fallimento del neoliberismo e del self-empowerment delle classi povere, formando una nuova comunità spontanea, “modello ispiratore che riconosce la forza delle associazioni informali” (dalle motivazioni della Giuria), che ne ha trasformato gli spazi in una nuova casa collettiva con una propria identità. Valori di appartenenza restituiti dal progetto in mostra nella forma del ristorante di fantasia Gran Horizonte (punto d’incontro e di sosta lungo il percorso delle corderie) e dalla serie di fotografie di Iwan Baan che documentano momenti di vita della comunità spontanea. Partecipazione e tensione verso lo sviluppo urbano ‘dal basso’ sono testimoniati anche dalla ricerca di Elke Krasny, Hand –On Urbanism 1850-2012, e dal padiglione degli Stati Uniti d’America con il suo Spontaneous Interventions: Design Actions for the Common Good (menzione speciale della Giuria), dove una selezione di progetti ad opera di architetti, designer, urbanisti e semplici cittadini, configurano un mosaico di idee, proposte e realizzazioni, tese a “espandere la bellezza, il benessere, la funzionalità, la sicurezza e la sostenibilità delle città [dove] sperimentale, informale, alternativo, spontaneo, improvvisato, partecipativo, migliorativo, sono soltanto alcune delle parole che sono usate per descrivere questo movimento che si sta diffondendo sempre più a livello internazionale”. Ma dove forse al meglio si restituisce lo slogan del Commun Ground della Biennale veneziana è nell’Architecture possible here? Home-for-all del padiglione Giapponese (a cura di Toyo Ito, con allestimento di Akihisha Hirata, Sou Fujimoto, Kumiko Inui, Leone d’Oro per la migliore partecipazione nazionale), in cui la collaborazione e il confronto con la popolazione colpita dallo tsunami ha portato alla definizione di un nuovo centro d’incontro con la comunità locale, primo step di un programma in grado di generare la ‘voglia di casa’ in una regione devastata da una catastrofe nazionale. Tra uno sguardo alla storia e la ricerca di un confronto con il passato in termini attuali (l’omaggio alla magia compositiva dell’architetto barocco inglese Nicholas Hawksmoor, la bella mostra Facecity di Fulvio Irace dedicata al paesaggio urbano milanese del secondo dopoguerra, il Pasticcio di Caruso St. John teso a rintracciare una “continuità tra l’architettura contemporanea e quella antecedente al modernismo”, i ‘ritratti’ dei padiglioni della Biennale di Gabriele Basilico nell’allestimento di Diener & Diener, le radici storiche dichiarate da parte della ricerca sulla forma algoritmica di Zaha Hadid) i temi legati alla sostenibilità e al riuso sono emersi in più occasioni. Reduce/Reuse/Recycle – Architecture as Resource è il titolo-programma della Germania dove si dichiara apertamente che ogni costruzione è una risorsa con cui confrontarsi abbandonando la serialità tardo modernista della demolizione-progetto-ricostruzione; “secondo la logica di Reduce/Reuse/Recycle diverse strategie di ristrutturazione si possono classificare in base al rapporto fra vecchio e nuovo, fra l’intensità dell’intervento e il livello di modificazione. Trattando l’architettura edificata come una risorsa sostanziale e formale, si rende disponibile un’ampia gamma di possibilità e di approcci”. All’idea di sviluppo di una nuova consapevolezza rispetto al paesaggio urbano che ci circonda si riferisce anche la Svizzera, mentre la Russia, con i-city a cura di Sergei Tchoban (menzione speciale per l’allestimento e il tema trattato), dedica il suo padiglione, rivestito da pannelli metallici serigrafati da codici QR interattivi con tablet dati ai visitatori all’ingresso, al nuovo paesaggio in divenire del Centro d’innovazione di Skolkovo letto in rapporto alla storia delle città della scienza del Paese. Il verde, superata ogni dimensione semplicemente estetica, diventa fattore simbolico nel bosco di felci del Padiglione Italia di Luca Zevi che, oltre a sottolineare il valore dell’architettura per la produzione, emersa forse in modo inconsapevole dal solco della lezione di Adriano Olivetti, ci ricorda il valore del territorio e la necessità del suo mantenimento e gestione, oggi sempre più in abbandono anche in relazione alla flessione delle coltivazioni agricole (presidio di gestione del paesaggio in senso lato). Mentre ancora il verde (tradotto in piantumazioni di canne comuni) diventa strumento di riqualificazione strutturale nella prima partecipazione dell’Angola. In Beyond Entropy Angola, a cura di Stefano Rabolli Pansera e Paula Nascimento, si affronta il caso delle aree di conurbazione senza urbanità di Luanda, città ad alta densità senza avere però edifici a più livelli. In questa crescita esponenziale dell’occupazione del suolo, nella mancanza totale di infrastrutture basilari, l’idea di piantumare gli spazi interstiziali tra le costruzioni con la canna comune (Arundo Donax) che cresce anche lungo i nostri fiumi, permette di trasformare il ‘verde’ o meglio il paesaggio in strumento di riqualificazione operativo a breve periodo: la canna cresce con grande rapidità (raggiungerà a fine novembre il soffitto dello spazio all’isola di San Giorgio dove è ospitato l’allestimento) e i filamenti finissimi del suo rizoma alla radice filtrano in modo naturale le acque sporche, mentre il fusto rigido assorbe grandi quantità di CO2 rendendolo ideale per la biomassa. Quello proposto è un modello urbanistico sostenibile in grado di diventare esempio-guida per i Paesi sub-sahariani. Non mancano nella mostra allestimenti ‘hot spot’, emergenti dal punto di vista della presenza architettonica e scenica, tra cui la struttura metallica Arum di Zaha Hadid, e l’allestimento Copycat di Cino Zucchi (menzione d’onore) metafora di una sommatoria architettonica e allo stesso tempo luogo di memorie domestiche, di oggetti e immagini in grado di produrre efficaci rimandi di scala, di abitudini e usi. Nei pressi del Giardino delle Vergini si fronteggiano infine le due architetture di Alvaro Siza e di Eduardo Souto de Moura rapportate alla densità dell’ambiente urbano veneziano la prima e al paesaggio dell’intorno, incorniciato dalle sue aperture e rapporti di spazi, il secondo. Una mostra che racconta temi, che delinea possibili percorsi, più che mostrare la magnificenza e la spettacolarità di opere singole. D’altra parte come ci ricorda lo stesso Chipperfield “progettare architetture che siano parte di un panorama quotidiano è sicuramente una bella sfida, molto più rischiosa e affascinante della creazione di un maxigrattacielo”.
foto di sergio pirrone, matteo vercelloni
testo di matteo vercelloni - [gallery ids="7710,7711,7712,7713,7714,7715,7716,7717,7718,7719,7720,7721,7722,7723,7724"]Come, con la crisi economica si è detto basta agli eccessi finanziari è arrivato il momento di fermare anche gli eccessi degli architetti […] troppo spesso, ultimamente, gli architetti sono stati chiamati come maître patissier a preparare la torta di nozze del padrone di casa, ossia del committente. Che identifica nell’architetto lo specialista che, al meglio, attraverso un edificio può pubblicizzare il suo nome o il suo marchio. Che, di per sé, non è una colpa. Però quando a Michelangelo fu affidato l’incarico per la cupola di San Pietro era sì un’operazione di ‘promozione’ del papato, ma al contempo una renovatio urbis”. Le affermazioni di David Chipperfield, in parte rese esplicite dalla sua Biennale di Architettura, non lasciano spazio al dubbio: è tempo di ritornare a intendere l’architettura come una disciplina complessa che si confronta con la storia e la memoria, con le città e i suoi cittadini e che, come affermava Aldo Rossi è da assumere come “opera d’arte collettiva”. La 13a Biennale di architettura veneziana nella sua molteplice rassegna di punti di vista tende a consegnarci tale messaggio senza mortificare o ridurre le specifiche poetiche e le singole espressioni di ogni architetto che però cercano di offrirsi come occasione di confronto più che come momento di presentazione professionale. Molti sono i temi che si possono rintracciare nella visita alla mostra tra le Corderie e i Giardini, alcuni sottolineano le intenzioni iniziali: partecipazione civile, riuso e sostenibilità, presenza della storia, progetti condivisi, senso e uso della città e dei suoi spazi, valore del paesaggio come risorsa strategica. Non si tratta tuttavia della celebrazione del tramonto della figura dell’archistar, piuttosto di individuare percorsi che leghino il progetto di architettura al suo senso urbano, per estendersi a volte alla scala territoriale come macrostrutture abitate (è il caso del progetto dei ponti architettonici per Stoccolma, pensati da Jean Nouvel e Mia Hägg per unire il centro storico di Gamla Stan all’isola più a sud della città; o all’avveniristico Global Hub AIR+PORT dello studio BIG/ Bjarke Ingels Group, sperimentale sintesi tipologica tra un aeroporto galleggiante e un porto navale previsto tra i ghiacci della Groenlandia a Nuuk). In generale in tutta la mostra si respira aria di complessità e questo può indurre a rendere più difficile e sfuggente il messaggio che non vuole essere di tipo ‘spettacolare’, ma fondativo. La camera scura di Norman Foster, Gateway, che accoglie i visitatori alle spalle dell’ingresso funge in fondo da manifesto introduttivo con la ‘storia’ proiettata sul pavimento nero nella forma di disegni, nomi dei protagonisti della cultura architettonica, messaggi, che si confrontano con lo spazio storico e contemporaneo dei raduni collettivi offerto da un serrato ritmo di immagini proiettate che ci avvolgono in alto, sui quattro lati delle pareti. Ordine e disordine per capire l’uso dell’architettura che a volte appare ‘improprio’, ma allo stesso tempo inarrestabile e spontaneo. Come appunto quello che avviene in uno dei monumenti architettonici contemporanei di Hong Kong: la Bank of China dello stesso Foster (in mostra ai Giardini) il cui piano terreno, pensato come ‘luogo pubblico’ e di passaggio sin dalla sua inaugurazione, si trasforma ogni domenica in una sorta di centro d’incontro della comunità delle colf filippine che, frammentandolo in microspazi con temporanei setti di cartone, attiva una straordinaria e pacifica varietà di attività sociali. In altro modo la riappropriazione di spazi urbani è rappresentata dal caso della Torre David a Caracas rappresentato dall’allestimento a cura di Urban Think Tank (Leone d’Oro quale miglior progetto della Mostra internazionale). Una torre per uffici rimasta incompleta è diventata una favela verticale nel centro urbano, simbolo del fallimento del neoliberismo e del self-empowerment delle classi povere, formando una nuova comunità spontanea, “modello ispiratore che riconosce la forza delle associazioni informali” (dalle motivazioni della Giuria), che ne ha trasformato gli spazi in una nuova casa collettiva con una propria identità. Valori di appartenenza restituiti dal progetto in mostra nella forma del ristorante di fantasia Gran Horizonte (punto d’incontro e di sosta lungo il percorso delle corderie) e dalla serie di fotografie di Iwan Baan che documentano momenti di vita della comunità spontanea. Partecipazione e tensione verso lo sviluppo urbano ‘dal basso’ sono testimoniati anche dalla ricerca di Elke Krasny, Hand –On Urbanism 1850-2012, e dal padiglione degli Stati Uniti d’America con il suo Spontaneous Interventions: Design Actions for the Common Good (menzione speciale della Giuria), dove una selezione di progetti ad opera di architetti, designer, urbanisti e semplici cittadini, configurano un mosaico di idee, proposte e realizzazioni, tese a “espandere la bellezza, il benessere, la funzionalità, la sicurezza e la sostenibilità delle città [dove] sperimentale, informale, alternativo, spontaneo, improvvisato, partecipativo, migliorativo, sono soltanto alcune delle parole che sono usate per descrivere questo movimento che si sta diffondendo sempre più a livello internazionale”. Ma dove forse al meglio si restituisce lo slogan del Commun Ground della Biennale veneziana è nell’Architecture possible here? Home-for-all del padiglione Giapponese (a cura di Toyo Ito, con allestimento di Akihisha Hirata, Sou Fujimoto, Kumiko Inui, Leone d’Oro per la migliore partecipazione nazionale), in cui la collaborazione e il confronto con la popolazione colpita dallo tsunami ha portato alla definizione di un nuovo centro d’incontro con la comunità locale, primo step di un programma in grado di generare la ‘voglia di casa’ in una regione devastata da una catastrofe nazionale. Tra uno sguardo alla storia e la ricerca di un confronto con il passato in termini attuali (l’omaggio alla magia compositiva dell’architetto barocco inglese Nicholas Hawksmoor, la bella mostra Facecity di Fulvio Irace dedicata al paesaggio urbano milanese del secondo dopoguerra, il Pasticcio di Caruso St. John teso a rintracciare una “continuità tra l’architettura contemporanea e quella antecedente al modernismo”, i ‘ritratti’ dei padiglioni della Biennale di Gabriele Basilico nell’allestimento di Diener & Diener, le radici storiche dichiarate da parte della ricerca sulla forma algoritmica di Zaha Hadid) i temi legati alla sostenibilità e al riuso sono emersi in più occasioni. Reduce/Reuse/Recycle – Architecture as Resource è il titolo-programma della Germania dove si dichiara apertamente che ogni costruzione è una risorsa con cui confrontarsi abbandonando la serialità tardo modernista della demolizione-progetto-ricostruzione; “secondo la logica di Reduce/Reuse/Recycle diverse strategie di ristrutturazione si possono classificare in base al rapporto fra vecchio e nuovo, fra l’intensità dell’intervento e il livello di modificazione. Trattando l’architettura edificata come una risorsa sostanziale e formale, si rende disponibile un’ampia gamma di possibilità e di approcci”. All’idea di sviluppo di una nuova consapevolezza rispetto al paesaggio urbano che ci circonda si riferisce anche la Svizzera, mentre la Russia, con i-city a cura di Sergei Tchoban (menzione speciale per l’allestimento e il tema trattato), dedica il suo padiglione, rivestito da pannelli metallici serigrafati da codici QR interattivi con tablet dati ai visitatori all’ingresso, al nuovo paesaggio in divenire del Centro d’innovazione di Skolkovo letto in rapporto alla storia delle città della scienza del Paese. Il verde, superata ogni dimensione semplicemente estetica, diventa fattore simbolico nel bosco di felci del Padiglione Italia di Luca Zevi che, oltre a sottolineare il valore dell’architettura per la produzione, emersa forse in modo inconsapevole dal solco della lezione di Adriano Olivetti, ci ricorda il valore del territorio e la necessità del suo mantenimento e gestione, oggi sempre più in abbandono anche in relazione alla flessione delle coltivazioni agricole (presidio di gestione del paesaggio in senso lato). Mentre ancora il verde (tradotto in piantumazioni di canne comuni) diventa strumento di riqualificazione strutturale nella prima partecipazione dell’Angola. In Beyond Entropy Angola, a cura di Stefano Rabolli Pansera e Paula Nascimento, si affronta il caso delle aree di conurbazione senza urbanità di Luanda, città ad alta densità senza avere però edifici a più livelli. In questa crescita esponenziale dell’occupazione del suolo, nella mancanza totale di infrastrutture basilari, l’idea di piantumare gli spazi interstiziali tra le costruzioni con la canna comune (Arundo Donax) che cresce anche lungo i nostri fiumi, permette di trasformare il ‘verde’ o meglio il paesaggio in strumento di riqualificazione operativo a breve periodo: la canna cresce con grande rapidità (raggiungerà a fine novembre il soffitto dello spazio all’isola di San Giorgio dove è ospitato l’allestimento) e i filamenti finissimi del suo rizoma alla radice filtrano in modo naturale le acque sporche, mentre il fusto rigido assorbe grandi quantità di CO2 rendendolo ideale per la biomassa. Quello proposto è un modello urbanistico sostenibile in grado di diventare esempio-guida per i Paesi sub-sahariani. Non mancano nella mostra allestimenti ‘hot spot’, emergenti dal punto di vista della presenza architettonica e scenica, tra cui la struttura metallica Arum di Zaha Hadid, e l’allestimento Copycat di Cino Zucchi (menzione d’onore) metafora di una sommatoria architettonica e allo stesso tempo luogo di memorie domestiche, di oggetti e immagini in grado di produrre efficaci rimandi di scala, di abitudini e usi. Nei pressi del Giardino delle Vergini si fronteggiano infine le due architetture di Alvaro Siza e di Eduardo Souto de Moura rapportate alla densità dell’ambiente urbano veneziano la prima e al paesaggio dell’intorno, incorniciato dalle sue aperture e rapporti di spazi, il secondo. Una mostra che racconta temi, che delinea possibili percorsi, più che mostrare la magnificenza e la spettacolarità di opere singole. D’altra parte come ci ricorda lo stesso Chipperfield “progettare architetture che siano parte di un panorama quotidiano è sicuramente una bella sfida, molto più rischiosa e affascinante della creazione di un maxigrattacielo”.
foto di sergio pirrone, matteo vercelloni
testo di matteo vercelloni - [gallery ids="7710,7711,7712,7713,7714,7715,7716,7717,7718,7719,7720,7721,7722,7723,7724"]Come, con la crisi economica si è detto basta agli eccessi finanziari è arrivato il momento di fermare anche gli eccessi degli architetti […] troppo spesso, ultimamente, gli architetti sono stati chiamati come maître patissier a preparare la torta di nozze del padrone di casa, ossia del committente. Che identifica nell’architetto lo specialista che, al meglio, attraverso un edificio può pubblicizzare il suo nome o il suo marchio. Che, di per sé, non è una colpa. Però quando a Michelangelo fu affidato l’incarico per la cupola di San Pietro era sì un’operazione di ‘promozione’ del papato, ma al contempo una renovatio urbis”. Le affermazioni di David Chipperfield, in parte rese esplicite dalla sua Biennale di Architettura, non lasciano spazio al dubbio: è tempo di ritornare a intendere l’architettura come una disciplina complessa che si confronta con la storia e la memoria, con le città e i suoi cittadini e che, come affermava Aldo Rossi è da assumere come “opera d’arte collettiva”. La 13a Biennale di architettura veneziana nella sua molteplice rassegna di punti di vista tende a consegnarci tale messaggio senza mortificare o ridurre le specifiche poetiche e le singole espressioni di ogni architetto che però cercano di offrirsi come occasione di confronto più che come momento di presentazione professionale. Molti sono i temi che si possono rintracciare nella visita alla mostra tra le Corderie e i Giardini, alcuni sottolineano le intenzioni iniziali: partecipazione civile, riuso e sostenibilità, presenza della storia, progetti condivisi, senso e uso della città e dei suoi spazi, valore del paesaggio come risorsa strategica. Non si tratta tuttavia della celebrazione del tramonto della figura dell’archistar, piuttosto di individuare percorsi che leghino il progetto di architettura al suo senso urbano, per estendersi a volte alla scala territoriale come macrostrutture abitate (è il caso del progetto dei ponti architettonici per Stoccolma, pensati da Jean Nouvel e Mia Hägg per unire il centro storico di Gamla Stan all’isola più a sud della città; o all’avveniristico Global Hub AIR+PORT dello studio BIG/ Bjarke Ingels Group, sperimentale sintesi tipologica tra un aeroporto galleggiante e un porto navale previsto tra i ghiacci della Groenlandia a Nuuk). In generale in tutta la mostra si respira aria di complessità e questo può indurre a rendere più difficile e sfuggente il messaggio che non vuole essere di tipo ‘spettacolare’, ma fondativo. La camera scura di Norman Foster, Gateway, che accoglie i visitatori alle spalle dell’ingresso funge in fondo da manifesto introduttivo con la ‘storia’ proiettata sul pavimento nero nella forma di disegni, nomi dei protagonisti della cultura architettonica, messaggi, che si confrontano con lo spazio storico e contemporaneo dei raduni collettivi offerto da un serrato ritmo di immagini proiettate che ci avvolgono in alto, sui quattro lati delle pareti. Ordine e disordine per capire l’uso dell’architettura che a volte appare ‘improprio’, ma allo stesso tempo inarrestabile e spontaneo. Come appunto quello che avviene in uno dei monumenti architettonici contemporanei di Hong Kong: la Bank of China dello stesso Foster (in mostra ai Giardini) il cui piano terreno, pensato come ‘luogo pubblico’ e di passaggio sin dalla sua inaugurazione, si trasforma ogni domenica in una sorta di centro d’incontro della comunità delle colf filippine che, frammentandolo in microspazi con temporanei setti di cartone, attiva una straordinaria e pacifica varietà di attività sociali. In altro modo la riappropriazione di spazi urbani è rappresentata dal caso della Torre David a Caracas rappresentato dall’allestimento a cura di Urban Think Tank (Leone d’Oro quale miglior progetto della Mostra internazionale). Una torre per uffici rimasta incompleta è diventata una favela verticale nel centro urbano, simbolo del fallimento del neoliberismo e del self-empowerment delle classi povere, formando una nuova comunità spontanea, “modello ispiratore che riconosce la forza delle associazioni informali” (dalle motivazioni della Giuria), che ne ha trasformato gli spazi in una nuova casa collettiva con una propria identità. Valori di appartenenza restituiti dal progetto in mostra nella forma del ristorante di fantasia Gran Horizonte (punto d’incontro e di sosta lungo il percorso delle corderie) e dalla serie di fotografie di Iwan Baan che documentano momenti di vita della comunità spontanea. Partecipazione e tensione verso lo sviluppo urbano ‘dal basso’ sono testimoniati anche dalla ricerca di Elke Krasny, Hand –On Urbanism 1850-2012, e dal padiglione degli Stati Uniti d’America con il suo Spontaneous Interventions: Design Actions for the Common Good (menzione speciale della Giuria), dove una selezione di progetti ad opera di architetti, designer, urbanisti e semplici cittadini, configurano un mosaico di idee, proposte e realizzazioni, tese a “espandere la bellezza, il benessere, la funzionalità, la sicurezza e la sostenibilità delle città [dove] sperimentale, informale, alternativo, spontaneo, improvvisato, partecipativo, migliorativo, sono soltanto alcune delle parole che sono usate per descrivere questo movimento che si sta diffondendo sempre più a livello internazionale”. Ma dove forse al meglio si restituisce lo slogan del Commun Ground della Biennale veneziana è nell’Architecture possible here? Home-for-all del padiglione Giapponese (a cura di Toyo Ito, con allestimento di Akihisha Hirata, Sou Fujimoto, Kumiko Inui, Leone d’Oro per la migliore partecipazione nazionale), in cui la collaborazione e il confronto con la popolazione colpita dallo tsunami ha portato alla definizione di un nuovo centro d’incontro con la comunità locale, primo step di un programma in grado di generare la ‘voglia di casa’ in una regione devastata da una catastrofe nazionale. Tra uno sguardo alla storia e la ricerca di un confronto con il passato in termini attuali (l’omaggio alla magia compositiva dell’architetto barocco inglese Nicholas Hawksmoor, la bella mostra Facecity di Fulvio Irace dedicata al paesaggio urbano milanese del secondo dopoguerra, il Pasticcio di Caruso St. John teso a rintracciare una “continuità tra l’architettura contemporanea e quella antecedente al modernismo”, i ‘ritratti’ dei padiglioni della Biennale di Gabriele Basilico nell’allestimento di Diener & Diener, le radici storiche dichiarate da parte della ricerca sulla forma algoritmica di Zaha Hadid) i temi legati alla sostenibilità e al riuso sono emersi in più occasioni. Reduce/Reuse/Recycle – Architecture as Resource è il titolo-programma della Germania dove si dichiara apertamente che ogni costruzione è una risorsa con cui confrontarsi abbandonando la serialità tardo modernista della demolizione-progetto-ricostruzione; “secondo la logica di Reduce/Reuse/Recycle diverse strategie di ristrutturazione si possono classificare in base al rapporto fra vecchio e nuovo, fra l’intensità dell’intervento e il livello di modificazione. Trattando l’architettura edificata come una risorsa sostanziale e formale, si rende disponibile un’ampia gamma di possibilità e di approcci”. All’idea di sviluppo di una nuova consapevolezza rispetto al paesaggio urbano che ci circonda si riferisce anche la Svizzera, mentre la Russia, con i-city a cura di Sergei Tchoban (menzione speciale per l’allestimento e il tema trattato), dedica il suo padiglione, rivestito da pannelli metallici serigrafati da codici QR interattivi con tablet dati ai visitatori all’ingresso, al nuovo paesaggio in divenire del Centro d’innovazione di Skolkovo letto in rapporto alla storia delle città della scienza del Paese. Il verde, superata ogni dimensione semplicemente estetica, diventa fattore simbolico nel bosco di felci del Padiglione Italia di Luca Zevi che, oltre a sottolineare il valore dell’architettura per la produzione, emersa forse in modo inconsapevole dal solco della lezione di Adriano Olivetti, ci ricorda il valore del territorio e la necessità del suo mantenimento e gestione, oggi sempre più in abbandono anche in relazione alla flessione delle coltivazioni agricole (presidio di gestione del paesaggio in senso lato). Mentre ancora il verde (tradotto in piantumazioni di canne comuni) diventa strumento di riqualificazione strutturale nella prima partecipazione dell’Angola. In Beyond Entropy Angola, a cura di Stefano Rabolli Pansera e Paula Nascimento, si affronta il caso delle aree di conurbazione senza urbanità di Luanda, città ad alta densità senza avere però edifici a più livelli. In questa crescita esponenziale dell’occupazione del suolo, nella mancanza totale di infrastrutture basilari, l’idea di piantumare gli spazi interstiziali tra le costruzioni con la canna comune (Arundo Donax) che cresce anche lungo i nostri fiumi, permette di trasformare il ‘verde’ o meglio il paesaggio in strumento di riqualificazione operativo a breve periodo: la canna cresce con grande rapidità (raggiungerà a fine novembre il soffitto dello spazio all’isola di San Giorgio dove è ospitato l’allestimento) e i filamenti finissimi del suo rizoma alla radice filtrano in modo naturale le acque sporche, mentre il fusto rigido assorbe grandi quantità di CO2 rendendolo ideale per la biomassa. Quello proposto è un modello urbanistico sostenibile in grado di diventare esempio-guida per i Paesi sub-sahariani. Non mancano nella mostra allestimenti ‘hot spot’, emergenti dal punto di vista della presenza architettonica e scenica, tra cui la struttura metallica Arum di Zaha Hadid, e l’allestimento Copycat di Cino Zucchi (menzione d’onore) metafora di una sommatoria architettonica e allo stesso tempo luogo di memorie domestiche, di oggetti e immagini in grado di produrre efficaci rimandi di scala, di abitudini e usi. Nei pressi del Giardino delle Vergini si fronteggiano infine le due architetture di Alvaro Siza e di Eduardo Souto de Moura rapportate alla densità dell’ambiente urbano veneziano la prima e al paesaggio dell’intorno, incorniciato dalle sue aperture e rapporti di spazi, il secondo. Una mostra che racconta temi, che delinea possibili percorsi, più che mostrare la magnificenza e la spettacolarità di opere singole. D’altra parte come ci ricorda lo stesso Chipperfield “progettare architetture che siano parte di un panorama quotidiano è sicuramente una bella sfida, molto più rischiosa e affascinante della creazione di un maxigrattacielo”.
foto di sergio pirrone, matteo vercelloni
testo di matteo vercelloni - [gallery ids="7710,7711,7712,7713,7714,7715,7716,7717,7718,7719,7720,7721,7722,7723,7724"]Come, con la crisi economica si è detto basta agli eccessi finanziari è arrivato il momento di fermare anche gli eccessi degli architetti […] troppo spesso, ultimamente, gli architetti sono stati chiamati come maître patissier a preparare la torta di nozze del padrone di casa, ossia del committente. Che identifica nell’architetto lo specialista che, al meglio, attraverso un edificio può pubblicizzare il suo nome o il suo marchio. Che, di per sé, non è una colpa. Però quando a Michelangelo fu affidato l’incarico per la cupola di San Pietro era sì un’operazione di ‘promozione’ del papato, ma al contempo una renovatio urbis”. Le affermazioni di David Chipperfield, in parte rese esplicite dalla sua Biennale di Architettura, non lasciano spazio al dubbio: è tempo di ritornare a intendere l’architettura come una disciplina complessa che si confronta con la storia e la memoria, con le città e i suoi cittadini e che, come affermava Aldo Rossi è da assumere come “opera d’arte collettiva”. La 13a Biennale di architettura veneziana nella sua molteplice rassegna di punti di vista tende a consegnarci tale messaggio senza mortificare o ridurre le specifiche poetiche e le singole espressioni di ogni architetto che però cercano di offrirsi come occasione di confronto più che come momento di presentazione professionale. Molti sono i temi che si possono rintracciare nella visita alla mostra tra le Corderie e i Giardini, alcuni sottolineano le intenzioni iniziali: partecipazione civile, riuso e sostenibilità, presenza della storia, progetti condivisi, senso e uso della città e dei suoi spazi, valore del paesaggio come risorsa strategica. Non si tratta tuttavia della celebrazione del tramonto della figura dell’archistar, piuttosto di individuare percorsi che leghino il progetto di architettura al suo senso urbano, per estendersi a volte alla scala territoriale come macrostrutture abitate (è il caso del progetto dei ponti architettonici per Stoccolma, pensati da Jean Nouvel e Mia Hägg per unire il centro storico di Gamla Stan all’isola più a sud della città; o all’avveniristico Global Hub AIR+PORT dello studio BIG/ Bjarke Ingels Group, sperimentale sintesi tipologica tra un aeroporto galleggiante e un porto navale previsto tra i ghiacci della Groenlandia a Nuuk). In generale in tutta la mostra si respira aria di complessità e questo può indurre a rendere più difficile e sfuggente il messaggio che non vuole essere di tipo ‘spettacolare’, ma fondativo. La camera scura di Norman Foster, Gateway, che accoglie i visitatori alle spalle dell’ingresso funge in fondo da manifesto introduttivo con la ‘storia’ proiettata sul pavimento nero nella forma di disegni, nomi dei protagonisti della cultura architettonica, messaggi, che si confrontano con lo spazio storico e contemporaneo dei raduni collettivi offerto da un serrato ritmo di immagini proiettate che ci avvolgono in alto, sui quattro lati delle pareti. Ordine e disordine per capire l’uso dell’architettura che a volte appare ‘improprio’, ma allo stesso tempo inarrestabile e spontaneo. Come appunto quello che avviene in uno dei monumenti architettonici contemporanei di Hong Kong: la Bank of China dello stesso Foster (in mostra ai Giardini) il cui piano terreno, pensato come ‘luogo pubblico’ e di passaggio sin dalla sua inaugurazione, si trasforma ogni domenica in una sorta di centro d’incontro della comunità delle colf filippine che, frammentandolo in microspazi con temporanei setti di cartone, attiva una straordinaria e pacifica varietà di attività sociali. In altro modo la riappropriazione di spazi urbani è rappresentata dal caso della Torre David a Caracas rappresentato dall’allestimento a cura di Urban Think Tank (Leone d’Oro quale miglior progetto della Mostra internazionale). Una torre per uffici rimasta incompleta è diventata una favela verticale nel centro urbano, simbolo del fallimento del neoliberismo e del self-empowerment delle classi povere, formando una nuova comunità spontanea, “modello ispiratore che riconosce la forza delle associazioni informali” (dalle motivazioni della Giuria), che ne ha trasformato gli spazi in una nuova casa collettiva con una propria identità. Valori di appartenenza restituiti dal progetto in mostra nella forma del ristorante di fantasia Gran Horizonte (punto d’incontro e di sosta lungo il percorso delle corderie) e dalla serie di fotografie di Iwan Baan che documentano momenti di vita della comunità spontanea. Partecipazione e tensione verso lo sviluppo urbano ‘dal basso’ sono testimoniati anche dalla ricerca di Elke Krasny, Hand –On Urbanism 1850-2012, e dal padiglione degli Stati Uniti d’America con il suo Spontaneous Interventions: Design Actions for the Common Good (menzione speciale della Giuria), dove una selezione di progetti ad opera di architetti, designer, urbanisti e semplici cittadini, configurano un mosaico di idee, proposte e realizzazioni, tese a “espandere la bellezza, il benessere, la funzionalità, la sicurezza e la sostenibilità delle città [dove] sperimentale, informale, alternativo, spontaneo, improvvisato, partecipativo, migliorativo, sono soltanto alcune delle parole che sono usate per descrivere questo movimento che si sta diffondendo sempre più a livello internazionale”. Ma dove forse al meglio si restituisce lo slogan del Commun Ground della Biennale veneziana è nell’Architecture possible here? Home-for-all del padiglione Giapponese (a cura di Toyo Ito, con allestimento di Akihisha Hirata, Sou Fujimoto, Kumiko Inui, Leone d’Oro per la migliore partecipazione nazionale), in cui la collaborazione e il confronto con la popolazione colpita dallo tsunami ha portato alla definizione di un nuovo centro d’incontro con la comunità locale, primo step di un programma in grado di generare la ‘voglia di casa’ in una regione devastata da una catastrofe nazionale. Tra uno sguardo alla storia e la ricerca di un confronto con il passato in termini attuali (l’omaggio alla magia compositiva dell’architetto barocco inglese Nicholas Hawksmoor, la bella mostra Facecity di Fulvio Irace dedicata al paesaggio urbano milanese del secondo dopoguerra, il Pasticcio di Caruso St. John teso a rintracciare una “continuità tra l’architettura contemporanea e quella antecedente al modernismo”, i ‘ritratti’ dei padiglioni della Biennale di Gabriele Basilico nell’allestimento di Diener & Diener, le radici storiche dichiarate da parte della ricerca sulla forma algoritmica di Zaha Hadid) i temi legati alla sostenibilità e al riuso sono emersi in più occasioni. Reduce/Reuse/Recycle – Architecture as Resource è il titolo-programma della Germania dove si dichiara apertamente che ogni costruzione è una risorsa con cui confrontarsi abbandonando la serialità tardo modernista della demolizione-progetto-ricostruzione; “secondo la logica di Reduce/Reuse/Recycle diverse strategie di ristrutturazione si possono classificare in base al rapporto fra vecchio e nuovo, fra l’intensità dell’intervento e il livello di modificazione. Trattando l’architettura edificata come una risorsa sostanziale e formale, si rende disponibile un’ampia gamma di possibilità e di approcci”. All’idea di sviluppo di una nuova consapevolezza rispetto al paesaggio urbano che ci circonda si riferisce anche la Svizzera, mentre la Russia, con i-city a cura di Sergei Tchoban (menzione speciale per l’allestimento e il tema trattato), dedica il suo padiglione, rivestito da pannelli metallici serigrafati da codici QR interattivi con tablet dati ai visitatori all’ingresso, al nuovo paesaggio in divenire del Centro d’innovazione di Skolkovo letto in rapporto alla storia delle città della scienza del Paese. Il verde, superata ogni dimensione semplicemente estetica, diventa fattore simbolico nel bosco di felci del Padiglione Italia di Luca Zevi che, oltre a sottolineare il valore dell’architettura per la produzione, emersa forse in modo inconsapevole dal solco della lezione di Adriano Olivetti, ci ricorda il valore del territorio e la necessità del suo mantenimento e gestione, oggi sempre più in abbandono anche in relazione alla flessione delle coltivazioni agricole (presidio di gestione del paesaggio in senso lato). Mentre ancora il verde (tradotto in piantumazioni di canne comuni) diventa strumento di riqualificazione strutturale nella prima partecipazione dell’Angola. In Beyond Entropy Angola, a cura di Stefano Rabolli Pansera e Paula Nascimento, si affronta il caso delle aree di conurbazione senza urbanità di Luanda, città ad alta densità senza avere però edifici a più livelli. In questa crescita esponenziale dell’occupazione del suolo, nella mancanza totale di infrastrutture basilari, l’idea di piantumare gli spazi interstiziali tra le costruzioni con la canna comune (Arundo Donax) che cresce anche lungo i nostri fiumi, permette di trasformare il ‘verde’ o meglio il paesaggio in strumento di riqualificazione operativo a breve periodo: la canna cresce con grande rapidità (raggiungerà a fine novembre il soffitto dello spazio all’isola di San Giorgio dove è ospitato l’allestimento) e i filamenti finissimi del suo rizoma alla radice filtrano in modo naturale le acque sporche, mentre il fusto rigido assorbe grandi quantità di CO2 rendendolo ideale per la biomassa. Quello proposto è un modello urbanistico sostenibile in grado di diventare esempio-guida per i Paesi sub-sahariani. Non mancano nella mostra allestimenti ‘hot spot’, emergenti dal punto di vista della presenza architettonica e scenica, tra cui la struttura metallica Arum di Zaha Hadid, e l’allestimento Copycat di Cino Zucchi (menzione d’onore) metafora di una sommatoria architettonica e allo stesso tempo luogo di memorie domestiche, di oggetti e immagini in grado di produrre efficaci rimandi di scala, di abitudini e usi. Nei pressi del Giardino delle Vergini si fronteggiano infine le due architetture di Alvaro Siza e di Eduardo Souto de Moura rapportate alla densità dell’ambiente urbano veneziano la prima e al paesaggio dell’intorno, incorniciato dalle sue aperture e rapporti di spazi, il secondo. Una mostra che racconta temi, che delinea possibili percorsi, più che mostrare la magnificenza e la spettacolarità di opere singole. D’altra parte come ci ricorda lo stesso Chipperfield “progettare architetture che siano parte di un panorama quotidiano è sicuramente una bella sfida, molto più rischiosa e affascinante della creazione di un maxigrattacielo”.
foto di sergio pirrone, matteo vercelloni
testo di matteo vercelloni - [gallery ids="7710,7711,7712,7713,7714,7715,7716,7717,7718,7719,7720,7721,7722,7723,7724"]Come, con la crisi economica si è detto basta agli eccessi finanziari è arrivato il momento di fermare anche gli eccessi degli architetti […] troppo spesso, ultimamente, gli architetti sono stati chiamati come maître patissier a preparare la torta di nozze del padrone di casa, ossia del committente. Che identifica nell’architetto lo specialista che, al meglio, attraverso un edificio può pubblicizzare il suo nome o il suo marchio. Che, di per sé, non è una colpa. Però quando a Michelangelo fu affidato l’incarico per la cupola di San Pietro era sì un’operazione di ‘promozione’ del papato, ma al contempo una renovatio urbis”. Le affermazioni di David Chipperfield, in parte rese esplicite dalla sua Biennale di Architettura, non lasciano spazio al dubbio: è tempo di ritornare a intendere l’architettura come una disciplina complessa che si confronta con la storia e la memoria, con le città e i suoi cittadini e che, come affermava Aldo Rossi è da assumere come “opera d’arte collettiva”. La 13a Biennale di architettura veneziana nella sua molteplice rassegna di punti di vista tende a consegnarci tale messaggio senza mortificare o ridurre le specifiche poetiche e le singole espressioni di ogni architetto che però cercano di offrirsi come occasione di confronto più che come momento di presentazione professionale. Molti sono i temi che si possono rintracciare nella visita alla mostra tra le Corderie e i Giardini, alcuni sottolineano le intenzioni iniziali: partecipazione civile, riuso e sostenibilità, presenza della storia, progetti condivisi, senso e uso della città e dei suoi spazi, valore del paesaggio come risorsa strategica. Non si tratta tuttavia della celebrazione del tramonto della figura dell’archistar, piuttosto di individuare percorsi che leghino il progetto di architettura al suo senso urbano, per estendersi a volte alla scala territoriale come macrostrutture abitate (è il caso del progetto dei ponti architettonici per Stoccolma, pensati da Jean Nouvel e Mia Hägg per unire il centro storico di Gamla Stan all’isola più a sud della città; o all’avveniristico Global Hub AIR+PORT dello studio BIG/ Bjarke Ingels Group, sperimentale sintesi tipologica tra un aeroporto galleggiante e un porto navale previsto tra i ghiacci della Groenlandia a Nuuk). In generale in tutta la mostra si respira aria di complessità e questo può indurre a rendere più difficile e sfuggente il messaggio che non vuole essere di tipo ‘spettacolare’, ma fondativo. La camera scura di Norman Foster, Gateway, che accoglie i visitatori alle spalle dell’ingresso funge in fondo da manifesto introduttivo con la ‘storia’ proiettata sul pavimento nero nella forma di disegni, nomi dei protagonisti della cultura architettonica, messaggi, che si confrontano con lo spazio storico e contemporaneo dei raduni collettivi offerto da un serrato ritmo di immagini proiettate che ci avvolgono in alto, sui quattro lati delle pareti. Ordine e disordine per capire l’uso dell’architettura che a volte appare ‘improprio’, ma allo stesso tempo inarrestabile e spontaneo. Come appunto quello che avviene in uno dei monumenti architettonici contemporanei di Hong Kong: la Bank of China dello stesso Foster (in mostra ai Giardini) il cui piano terreno, pensato come ‘luogo pubblico’ e di passaggio sin dalla sua inaugurazione, si trasforma ogni domenica in una sorta di centro d’incontro della comunità delle colf filippine che, frammentandolo in microspazi con temporanei setti di cartone, attiva una straordinaria e pacifica varietà di attività sociali. In altro modo la riappropriazione di spazi urbani è rappresentata dal caso della Torre David a Caracas rappresentato dall’allestimento a cura di Urban Think Tank (Leone d’Oro quale miglior progetto della Mostra internazionale). Una torre per uffici rimasta incompleta è diventata una favela verticale nel centro urbano, simbolo del fallimento del neoliberismo e del self-empowerment delle classi povere, formando una nuova comunità spontanea, “modello ispiratore che riconosce la forza delle associazioni informali” (dalle motivazioni della Giuria), che ne ha trasformato gli spazi in una nuova casa collettiva con una propria identità. Valori di appartenenza restituiti dal progetto in mostra nella forma del ristorante di fantasia Gran Horizonte (punto d’incontro e di sosta lungo il percorso delle corderie) e dalla serie di fotografie di Iwan Baan che documentano momenti di vita della comunità spontanea. Partecipazione e tensione verso lo sviluppo urbano ‘dal basso’ sono testimoniati anche dalla ricerca di Elke Krasny, Hand –On Urbanism 1850-2012, e dal padiglione degli Stati Uniti d’America con il suo Spontaneous Interventions: Design Actions for the Common Good (menzione speciale della Giuria), dove una selezione di progetti ad opera di architetti, designer, urbanisti e semplici cittadini, configurano un mosaico di idee, proposte e realizzazioni, tese a “espandere la bellezza, il benessere, la funzionalità, la sicurezza e la sostenibilità delle città [dove] sperimentale, informale, alternativo, spontaneo, improvvisato, partecipativo, migliorativo, sono soltanto alcune delle parole che sono usate per descrivere questo movimento che si sta diffondendo sempre più a livello internazionale”. Ma dove forse al meglio si restituisce lo slogan del Commun Ground della Biennale veneziana è nell’Architecture possible here? Home-for-all del padiglione Giapponese (a cura di Toyo Ito, con allestimento di Akihisha Hirata, Sou Fujimoto, Kumiko Inui, Leone d’Oro per la migliore partecipazione nazionale), in cui la collaborazione e il confronto con la popolazione colpita dallo tsunami ha portato alla definizione di un nuovo centro d’incontro con la comunità locale, primo step di un programma in grado di generare la ‘voglia di casa’ in una regione devastata da una catastrofe nazionale. Tra uno sguardo alla storia e la ricerca di un confronto con il passato in termini attuali (l’omaggio alla magia compositiva dell’architetto barocco inglese Nicholas Hawksmoor, la bella mostra Facecity di Fulvio Irace dedicata al paesaggio urbano milanese del secondo dopoguerra, il Pasticcio di Caruso St. John teso a rintracciare una “continuità tra l’architettura contemporanea e quella antecedente al modernismo”, i ‘ritratti’ dei padiglioni della Biennale di Gabriele Basilico nell’allestimento di Diener & Diener, le radici storiche dichiarate da parte della ricerca sulla forma algoritmica di Zaha Hadid) i temi legati alla sostenibilità e al riuso sono emersi in più occasioni. Reduce/Reuse/Recycle – Architecture as Resource è il titolo-programma della Germania dove si dichiara apertamente che ogni costruzione è una risorsa con cui confrontarsi abbandonando la serialità tardo modernista della demolizione-progetto-ricostruzione; “secondo la logica di Reduce/Reuse/Recycle diverse strategie di ristrutturazione si possono classificare in base al rapporto fra vecchio e nuovo, fra l’intensità dell’intervento e il livello di modificazione. Trattando l’architettura edificata come una risorsa sostanziale e formale, si rende disponibile un’ampia gamma di possibilità e di approcci”. All’idea di sviluppo di una nuova consapevolezza rispetto al paesaggio urbano che ci circonda si riferisce anche la Svizzera, mentre la Russia, con i-city a cura di Sergei Tchoban (menzione speciale per l’allestimento e il tema trattato), dedica il suo padiglione, rivestito da pannelli metallici serigrafati da codici QR interattivi con tablet dati ai visitatori all’ingresso, al nuovo paesaggio in divenire del Centro d’innovazione di Skolkovo letto in rapporto alla storia delle città della scienza del Paese. Il verde, superata ogni dimensione semplicemente estetica, diventa fattore simbolico nel bosco di felci del Padiglione Italia di Luca Zevi che, oltre a sottolineare il valore dell’architettura per la produzione, emersa forse in modo inconsapevole dal solco della lezione di Adriano Olivetti, ci ricorda il valore del territorio e la necessità del suo mantenimento e gestione, oggi sempre più in abbandono anche in relazione alla flessione delle coltivazioni agricole (presidio di gestione del paesaggio in senso lato). Mentre ancora il verde (tradotto in piantumazioni di canne comuni) diventa strumento di riqualificazione strutturale nella prima partecipazione dell’Angola. In Beyond Entropy Angola, a cura di Stefano Rabolli Pansera e Paula Nascimento, si affronta il caso delle aree di conurbazione senza urbanità di Luanda, città ad alta densità senza avere però edifici a più livelli. In questa crescita esponenziale dell’occupazione del suolo, nella mancanza totale di infrastrutture basilari, l’idea di piantumare gli spazi interstiziali tra le costruzioni con la canna comune (Arundo Donax) che cresce anche lungo i nostri fiumi, permette di trasformare il ‘verde’ o meglio il paesaggio in strumento di riqualificazione operativo a breve periodo: la canna cresce con grande rapidità (raggiungerà a fine novembre il soffitto dello spazio all’isola di San Giorgio dove è ospitato l’allestimento) e i filamenti finissimi del suo rizoma alla radice filtrano in modo naturale le acque sporche, mentre il fusto rigido assorbe grandi quantità di CO2 rendendolo ideale per la biomassa. Quello proposto è un modello urbanistico sostenibile in grado di diventare esempio-guida per i Paesi sub-sahariani. Non mancano nella mostra allestimenti ‘hot spot’, emergenti dal punto di vista della presenza architettonica e scenica, tra cui la struttura metallica Arum di Zaha Hadid, e l’allestimento Copycat di Cino Zucchi (menzione d’onore) metafora di una sommatoria architettonica e allo stesso tempo luogo di memorie domestiche, di oggetti e immagini in grado di produrre efficaci rimandi di scala, di abitudini e usi. Nei pressi del Giardino delle Vergini si fronteggiano infine le due architetture di Alvaro Siza e di Eduardo Souto de Moura rapportate alla densità dell’ambiente urbano veneziano la prima e al paesaggio dell’intorno, incorniciato dalle sue aperture e rapporti di spazi, il secondo. Una mostra che racconta temi, che delinea possibili percorsi, più che mostrare la magnificenza e la spettacolarità di opere singole. D’altra parte come ci ricorda lo stesso Chipperfield “progettare architetture che siano parte di un panorama quotidiano è sicuramente una bella sfida, molto più rischiosa e affascinante della creazione di un maxigrattacielo”.
foto di sergio pirrone, matteo vercelloni
testo di matteo vercelloni - [gallery ids="7710,7711,7712,7713,7714,7715,7716,7717,7718,7719,7720,7721,7722,7723,7724"]Come, con la crisi economica si è detto basta agli eccessi finanziari è arrivato il momento di fermare anche gli eccessi degli architetti […] troppo spesso, ultimamente, gli architetti sono stati chiamati come maître patissier a preparare la torta di nozze del padrone di casa, ossia del committente. Che identifica nell’architetto lo specialista che, al meglio, attraverso un edificio può pubblicizzare il suo nome o il suo marchio. Che, di per sé, non è una colpa. Però quando a Michelangelo fu affidato l’incarico per la cupola di San Pietro era sì un’operazione di ‘promozione’ del papato, ma al contempo una renovatio urbis”. Le affermazioni di David Chipperfield, in parte rese esplicite dalla sua Biennale di Architettura, non lasciano spazio al dubbio: è tempo di ritornare a intendere l’architettura come una disciplina complessa che si confronta con la storia e la memoria, con le città e i suoi cittadini e che, come affermava Aldo Rossi è da assumere come “opera d’arte collettiva”. La 13a Biennale di architettura veneziana nella sua molteplice rassegna di punti di vista tende a consegnarci tale messaggio senza mortificare o ridurre le specifiche poetiche e le singole espressioni di ogni architetto che però cercano di offrirsi come occasione di confronto più che come momento di presentazione professionale. Molti sono i temi che si possono rintracciare nella visita alla mostra tra le Corderie e i Giardini, alcuni sottolineano le intenzioni iniziali: partecipazione civile, riuso e sostenibilità, presenza della storia, progetti condivisi, senso e uso della città e dei suoi spazi, valore del paesaggio come risorsa strategica. Non si tratta tuttavia della celebrazione del tramonto della figura dell’archistar, piuttosto di individuare percorsi che leghino il progetto di architettura al suo senso urbano, per estendersi a volte alla scala territoriale come macrostrutture abitate (è il caso del progetto dei ponti architettonici per Stoccolma, pensati da Jean Nouvel e Mia Hägg per unire il centro storico di Gamla Stan all’isola più a sud della città; o all’avveniristico Global Hub AIR+PORT dello studio BIG/ Bjarke Ingels Group, sperimentale sintesi tipologica tra un aeroporto galleggiante e un porto navale previsto tra i ghiacci della Groenlandia a Nuuk). In generale in tutta la mostra si respira aria di complessità e questo può indurre a rendere più difficile e sfuggente il messaggio che non vuole essere di tipo ‘spettacolare’, ma fondativo. La camera scura di Norman Foster, Gateway, che accoglie i visitatori alle spalle dell’ingresso funge in fondo da manifesto introduttivo con la ‘storia’ proiettata sul pavimento nero nella forma di disegni, nomi dei protagonisti della cultura architettonica, messaggi, che si confrontano con lo spazio storico e contemporaneo dei raduni collettivi offerto da un serrato ritmo di immagini proiettate che ci avvolgono in alto, sui quattro lati delle pareti. Ordine e disordine per capire l’uso dell’architettura che a volte appare ‘improprio’, ma allo stesso tempo inarrestabile e spontaneo. Come appunto quello che avviene in uno dei monumenti architettonici contemporanei di Hong Kong: la Bank of China dello stesso Foster (in mostra ai Giardini) il cui piano terreno, pensato come ‘luogo pubblico’ e di passaggio sin dalla sua inaugurazione, si trasforma ogni domenica in una sorta di centro d’incontro della comunità delle colf filippine che, frammentandolo in microspazi con temporanei setti di cartone, attiva una straordinaria e pacifica varietà di attività sociali. In altro modo la riappropriazione di spazi urbani è rappresentata dal caso della Torre David a Caracas rappresentato dall’allestimento a cura di Urban Think Tank (Leone d’Oro quale miglior progetto della Mostra internazionale). Una torre per uffici rimasta incompleta è diventata una favela verticale nel centro urbano, simbolo del fallimento del neoliberismo e del self-empowerment delle classi povere, formando una nuova comunità spontanea, “modello ispiratore che riconosce la forza delle associazioni informali” (dalle motivazioni della Giuria), che ne ha trasformato gli spazi in una nuova casa collettiva con una propria identità. Valori di appartenenza restituiti dal progetto in mostra nella forma del ristorante di fantasia Gran Horizonte (punto d’incontro e di sosta lungo il percorso delle corderie) e dalla serie di fotografie di Iwan Baan che documentano momenti di vita della comunità spontanea. Partecipazione e tensione verso lo sviluppo urbano ‘dal basso’ sono testimoniati anche dalla ricerca di Elke Krasny, Hand –On Urbanism 1850-2012, e dal padiglione degli Stati Uniti d’America con il suo Spontaneous Interventions: Design Actions for the Common Good (menzione speciale della Giuria), dove una selezione di progetti ad opera di architetti, designer, urbanisti e semplici cittadini, configurano un mosaico di idee, proposte e realizzazioni, tese a “espandere la bellezza, il benessere, la funzionalità, la sicurezza e la sostenibilità delle città [dove] sperimentale, informale, alternativo, spontaneo, improvvisato, partecipativo, migliorativo, sono soltanto alcune delle parole che sono usate per descrivere questo movimento che si sta diffondendo sempre più a livello internazionale”. Ma dove forse al meglio si restituisce lo slogan del Commun Ground della Biennale veneziana è nell’Architecture possible here? Home-for-all del padiglione Giapponese (a cura di Toyo Ito, con allestimento di Akihisha Hirata, Sou Fujimoto, Kumiko Inui, Leone d’Oro per la migliore partecipazione nazionale), in cui la collaborazione e il confronto con la popolazione colpita dallo tsunami ha portato alla definizione di un nuovo centro d’incontro con la comunità locale, primo step di un programma in grado di generare la ‘voglia di casa’ in una regione devastata da una catastrofe nazionale. Tra uno sguardo alla storia e la ricerca di un confronto con il passato in termini attuali (l’omaggio alla magia compositiva dell’architetto barocco inglese Nicholas Hawksmoor, la bella mostra Facecity di Fulvio Irace dedicata al paesaggio urbano milanese del secondo dopoguerra, il Pasticcio di Caruso St. John teso a rintracciare una “continuità tra l’architettura contemporanea e quella antecedente al modernismo”, i ‘ritratti’ dei padiglioni della Biennale di Gabriele Basilico nell’allestimento di Diener & Diener, le radici storiche dichiarate da parte della ricerca sulla forma algoritmica di Zaha Hadid) i temi legati alla sostenibilità e al riuso sono emersi in più occasioni. Reduce/Reuse/Recycle – Architecture as Resource è il titolo-programma della Germania dove si dichiara apertamente che ogni costruzione è una risorsa con cui confrontarsi abbandonando la serialità tardo modernista della demolizione-progetto-ricostruzione; “secondo la logica di Reduce/Reuse/Recycle diverse strategie di ristrutturazione si possono classificare in base al rapporto fra vecchio e nuovo, fra l’intensità dell’intervento e il livello di modificazione. Trattando l’architettura edificata come una risorsa sostanziale e formale, si rende disponibile un’ampia gamma di possibilità e di approcci”. All’idea di sviluppo di una nuova consapevolezza rispetto al paesaggio urbano che ci circonda si riferisce anche la Svizzera, mentre la Russia, con i-city a cura di Sergei Tchoban (menzione speciale per l’allestimento e il tema trattato), dedica il suo padiglione, rivestito da pannelli metallici serigrafati da codici QR interattivi con tablet dati ai visitatori all’ingresso, al nuovo paesaggio in divenire del Centro d’innovazione di Skolkovo letto in rapporto alla storia delle città della scienza del Paese. Il verde, superata ogni dimensione semplicemente estetica, diventa fattore simbolico nel bosco di felci del Padiglione Italia di Luca Zevi che, oltre a sottolineare il valore dell’architettura per la produzione, emersa forse in modo inconsapevole dal solco della lezione di Adriano Olivetti, ci ricorda il valore del territorio e la necessità del suo mantenimento e gestione, oggi sempre più in abbandono anche in relazione alla flessione delle coltivazioni agricole (presidio di gestione del paesaggio in senso lato). Mentre ancora il verde (tradotto in piantumazioni di canne comuni) diventa strumento di riqualificazione strutturale nella prima partecipazione dell’Angola. In Beyond Entropy Angola, a cura di Stefano Rabolli Pansera e Paula Nascimento, si affronta il caso delle aree di conurbazione senza urbanità di Luanda, città ad alta densità senza avere però edifici a più livelli. In questa crescita esponenziale dell’occupazione del suolo, nella mancanza totale di infrastrutture basilari, l’idea di piantumare gli spazi interstiziali tra le costruzioni con la canna comune (Arundo Donax) che cresce anche lungo i nostri fiumi, permette di trasformare il ‘verde’ o meglio il paesaggio in strumento di riqualificazione operativo a breve periodo: la canna cresce con grande rapidità (raggiungerà a fine novembre il soffitto dello spazio all’isola di San Giorgio dove è ospitato l’allestimento) e i filamenti finissimi del suo rizoma alla radice filtrano in modo naturale le acque sporche, mentre il fusto rigido assorbe grandi quantità di CO2 rendendolo ideale per la biomassa. Quello proposto è un modello urbanistico sostenibile in grado di diventare esempio-guida per i Paesi sub-sahariani. Non mancano nella mostra allestimenti ‘hot spot’, emergenti dal punto di vista della presenza architettonica e scenica, tra cui la struttura metallica Arum di Zaha Hadid, e l’allestimento Copycat di Cino Zucchi (menzione d’onore) metafora di una sommatoria architettonica e allo stesso tempo luogo di memorie domestiche, di oggetti e immagini in grado di produrre efficaci rimandi di scala, di abitudini e usi. Nei pressi del Giardino delle Vergini si fronteggiano infine le due architetture di Alvaro Siza e di Eduardo Souto de Moura rapportate alla densità dell’ambiente urbano veneziano la prima e al paesaggio dell’intorno, incorniciato dalle sue aperture e rapporti di spazi, il secondo. Una mostra che racconta temi, che delinea possibili percorsi, più che mostrare la magnificenza e la spettacolarità di opere singole. D’altra parte come ci ricorda lo stesso Chipperfield “progettare architetture che siano parte di un panorama quotidiano è sicuramente una bella sfida, molto più rischiosa e affascinante della creazione di un maxigrattacielo”.
foto di sergio pirrone, matteo vercelloni
testo di matteo vercelloni -
foto di sergio pirrone, matteo vercelloni
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Le affermazioni di David Chipperfield, in parte rese esplicite dalla sua Biennale di Architettura, non lasciano spazio al dubbio: è tempo di ritornare a intendere l’architettura come una disciplina complessa che si confronta con la storia e la memoria, con le città e i suoi cittadini e che, come affermava Aldo Rossi è da assumere come “opera d’arte collettiva”. La 13a Biennale di architettura veneziana nella sua molteplice rassegna di punti di vista tende a consegnarci tale messaggio senza mortificare o ridurre le specifiche poetiche e le singole espressioni di ogni architetto che però cercano di offrirsi come occasione di confronto più che come momento di presentazione professionale. Molti sono i temi che si possono rintracciare nella visita alla mostra tra le Corderie e i Giardini, alcuni sottolineano le intenzioni iniziali: partecipazione civile, riuso e sostenibilità, presenza della storia, progetti condivisi, senso e uso della città e dei suoi spazi, valore del paesaggio come risorsa strategica. Non si tratta tuttavia della celebrazione del tramonto della figura dell’archistar, piuttosto di individuare percorsi che leghino il progetto di architettura al suo senso urbano, per estendersi a volte alla scala territoriale come macrostrutture abitate (è il caso del progetto dei ponti architettonici per Stoccolma, pensati da Jean Nouvel e Mia Hägg per unire il centro storico di Gamla Stan all’isola più a sud della città; o all’avveniristico Global Hub AIR+PORT dello studio BIG/ Bjarke Ingels Group, sperimentale sintesi tipologica tra un aeroporto galleggiante e un porto navale previsto tra i ghiacci della Groenlandia a Nuuk). In generale in tutta la mostra si respira aria di complessità e questo può indurre a rendere più difficile e sfuggente il messaggio che non vuole essere di tipo ‘spettacolare’, ma fondativo. La camera scura di Norman Foster, Gateway, che accoglie i visitatori alle spalle dell’ingresso funge in fondo da manifesto introduttivo con la ‘storia’ proiettata sul pavimento nero nella forma di disegni, nomi dei protagonisti della cultura architettonica, messaggi, che si confrontano con lo spazio storico e contemporaneo dei raduni collettivi offerto da un serrato ritmo di immagini proiettate che ci avvolgono in alto, sui quattro lati delle pareti. Ordine e disordine per capire l’uso dell’architettura che a volte appare ‘improprio’, ma allo stesso tempo inarrestabile e spontaneo. Come appunto quello che avviene in uno dei monumenti architettonici contemporanei di Hong Kong: la Bank of China dello stesso Foster (in mostra ai Giardini) il cui piano terreno, pensato come ‘luogo pubblico’ e di passaggio sin dalla sua inaugurazione, si trasforma ogni domenica in una sorta di centro d’incontro della comunità delle colf filippine che, frammentandolo in microspazi con temporanei setti di cartone, attiva una straordinaria e pacifica varietà di attività sociali. In altro modo la riappropriazione di spazi urbani è rappresentata dal caso della Torre David a Caracas rappresentato dall’allestimento a cura di Urban Think Tank (Leone d’Oro quale miglior progetto della Mostra internazionale). Una torre per uffici rimasta incompleta è diventata una favela verticale nel centro urbano, simbolo del fallimento del neoliberismo e del self-empowerment delle classi povere, formando una nuova comunità spontanea, “modello ispiratore che riconosce la forza delle associazioni informali” (dalle motivazioni della Giuria), che ne ha trasformato gli spazi in una nuova casa collettiva con una propria identità. Valori di appartenenza restituiti dal progetto in mostra nella forma del ristorante di fantasia Gran Horizonte (punto d’incontro e di sosta lungo il percorso delle corderie) e dalla serie di fotografie di Iwan Baan che documentano momenti di vita della comunità spontanea. Partecipazione e tensione verso lo sviluppo urbano ‘dal basso’ sono testimoniati anche dalla ricerca di Elke Krasny, Hand –On Urbanism 1850-2012, e dal padiglione degli Stati Uniti d’America con il suo Spontaneous Interventions: Design Actions for the Common Good (menzione speciale della Giuria), dove una selezione di progetti ad opera di architetti, designer, urbanisti e semplici cittadini, configurano un mosaico di idee, proposte e realizzazioni, tese a “espandere la bellezza, il benessere, la funzionalità, la sicurezza e la sostenibilità delle città [dove] sperimentale, informale, alternativo, spontaneo, improvvisato, partecipativo, migliorativo, sono soltanto alcune delle parole che sono usate per descrivere questo movimento che si sta diffondendo sempre più a livello internazionale”. Ma dove forse al meglio si restituisce lo slogan del Commun Ground della Biennale veneziana è nell’Architecture possible here? Home-for-all del padiglione Giapponese (a cura di Toyo Ito, con allestimento di Akihisha Hirata, Sou Fujimoto, Kumiko Inui, Leone d’Oro per la migliore partecipazione nazionale), in cui la collaborazione e il confronto con la popolazione colpita dallo tsunami ha portato alla definizione di un nuovo centro d’incontro con la comunità locale, primo step di un programma in grado di generare la ‘voglia di casa’ in una regione devastata da una catastrofe nazionale. Tra uno sguardo alla storia e la ricerca di un confronto con il passato in termini attuali (l’omaggio alla magia compositiva dell’architetto barocco inglese Nicholas Hawksmoor, la bella mostra Facecity di Fulvio Irace dedicata al paesaggio urbano milanese del secondo dopoguerra, il Pasticcio di Caruso St. John teso a rintracciare una “continuità tra l’architettura contemporanea e quella antecedente al modernismo”, i ‘ritratti’ dei padiglioni della Biennale di Gabriele Basilico nell’allestimento di Diener & Diener, le radici storiche dichiarate da parte della ricerca sulla forma algoritmica di Zaha Hadid) i temi legati alla sostenibilità e al riuso sono emersi in più occasioni. Reduce/Reuse/Recycle – Architecture as Resource è il titolo-programma della Germania dove si dichiara apertamente che ogni costruzione è una risorsa con cui confrontarsi abbandonando la serialità tardo modernista della demolizione-progetto-ricostruzione; “secondo la logica di Reduce/Reuse/Recycle diverse strategie di ristrutturazione si possono classificare in base al rapporto fra vecchio e nuovo, fra l’intensità dell’intervento e il livello di modificazione. Trattando l’architettura edificata come una risorsa sostanziale e formale, si rende disponibile un’ampia gamma di possibilità e di approcci”. All’idea di sviluppo di una nuova consapevolezza rispetto al paesaggio urbano che ci circonda si riferisce anche la Svizzera, mentre la Russia, con i-city a cura di Sergei Tchoban (menzione speciale per l’allestimento e il tema trattato), dedica il suo padiglione, rivestito da pannelli metallici serigrafati da codici QR interattivi con tablet dati ai visitatori all’ingresso, al nuovo paesaggio in divenire del Centro d’innovazione di Skolkovo letto in rapporto alla storia delle città della scienza del Paese. Il verde, superata ogni dimensione semplicemente estetica, diventa fattore simbolico nel bosco di felci del Padiglione Italia di Luca Zevi che, oltre a sottolineare il valore dell’architettura per la produzione, emersa forse in modo inconsapevole dal solco della lezione di Adriano Olivetti, ci ricorda il valore del territorio e la necessità del suo mantenimento e gestione, oggi sempre più in abbandono anche in relazione alla flessione delle coltivazioni agricole (presidio di gestione del paesaggio in senso lato). Mentre ancora il verde (tradotto in piantumazioni di canne comuni) diventa strumento di riqualificazione strutturale nella prima partecipazione dell’Angola. In Beyond Entropy Angola, a cura di Stefano Rabolli Pansera e Paula Nascimento, si affronta il caso delle aree di conurbazione senza urbanità di Luanda, città ad alta densità senza avere però edifici a più livelli. In questa crescita esponenziale dell’occupazione del suolo, nella mancanza totale di infrastrutture basilari, l’idea di piantumare gli spazi interstiziali tra le costruzioni con la canna comune (Arundo Donax) che cresce anche lungo i nostri fiumi, permette di trasformare il ‘verde’ o meglio il paesaggio in strumento di riqualificazione operativo a breve periodo: la canna cresce con grande rapidità (raggiungerà a fine novembre il soffitto dello spazio all’isola di San Giorgio dove è ospitato l’allestimento) e i filamenti finissimi del suo rizoma alla radice filtrano in modo naturale le acque sporche, mentre il fusto rigido assorbe grandi quantità di CO2 rendendolo ideale per la biomassa. Quello proposto è un modello urbanistico sostenibile in grado di diventare esempio-guida per i Paesi sub-sahariani. Non mancano nella mostra allestimenti ‘hot spot’, emergenti dal punto di vista della presenza architettonica e scenica, tra cui la struttura metallica Arum di Zaha Hadid, e l’allestimento Copycat di Cino Zucchi (menzione d’onore) metafora di una sommatoria architettonica e allo stesso tempo luogo di memorie domestiche, di oggetti e immagini in grado di produrre efficaci rimandi di scala, di abitudini e usi. Nei pressi del Giardino delle Vergini si fronteggiano infine le due architetture di Alvaro Siza e di Eduardo Souto de Moura rapportate alla densità dell’ambiente urbano veneziano la prima e al paesaggio dell’intorno, incorniciato dalle sue aperture e rapporti di spazi, il secondo. Una mostra che racconta temi, che delinea possibili percorsi, più che mostrare la magnificenza e la spettacolarità di opere singole. D’altra parte come ci ricorda lo stesso Chipperfield “progettare architetture che siano parte di un panorama quotidiano è sicuramente una bella sfida, molto più rischiosa e affascinante della creazione di un maxigrattacielo”.
foto di sergio pirrone, matteo vercelloni
testo di matteo vercelloni - [gallery ids="7710,7711,7712,7713,7714,7715,7716,7717,7718,7719,7720,7721,7722,7723,7724"]Come, con la crisi economica si è detto basta agli eccessi finanziari è arrivato il momento di fermare anche gli eccessi degli architetti […] troppo spesso, ultimamente, gli architetti sono stati chiamati come maître patissier a preparare la torta di nozze del padrone di casa, ossia del committente. Che identifica nell’architetto lo specialista che, al meglio, attraverso un edificio può pubblicizzare il suo nome o il suo marchio. Che, di per sé, non è una colpa. Però quando a Michelangelo fu affidato l’incarico per la cupola di San Pietro era sì un’operazione di ‘promozione’ del papato, ma al contempo una renovatio urbis”. Le affermazioni di David Chipperfield, in parte rese esplicite dalla sua Biennale di Architettura, non lasciano spazio al dubbio: è tempo di ritornare a intendere l’architettura come una disciplina complessa che si confronta con la storia e la memoria, con le città e i suoi cittadini e che, come affermava Aldo Rossi è da assumere come “opera d’arte collettiva”. La 13a Biennale di architettura veneziana nella sua molteplice rassegna di punti di vista tende a consegnarci tale messaggio senza mortificare o ridurre le specifiche poetiche e le singole espressioni di ogni architetto che però cercano di offrirsi come occasione di confronto più che come momento di presentazione professionale. Molti sono i temi che si possono rintracciare nella visita alla mostra tra le Corderie e i Giardini, alcuni sottolineano le intenzioni iniziali: partecipazione civile, riuso e sostenibilità, presenza della storia, progetti condivisi, senso e uso della città e dei suoi spazi, valore del paesaggio come risorsa strategica. Non si tratta tuttavia della celebrazione del tramonto della figura dell’archistar, piuttosto di individuare percorsi che leghino il progetto di architettura al suo senso urbano, per estendersi a volte alla scala territoriale come macrostrutture abitate (è il caso del progetto dei ponti architettonici per Stoccolma, pensati da Jean Nouvel e Mia Hägg per unire il centro storico di Gamla Stan all’isola più a sud della città; o all’avveniristico Global Hub AIR+PORT dello studio BIG/ Bjarke Ingels Group, sperimentale sintesi tipologica tra un aeroporto galleggiante e un porto navale previsto tra i ghiacci della Groenlandia a Nuuk). In generale in tutta la mostra si respira aria di complessità e questo può indurre a rendere più difficile e sfuggente il messaggio che non vuole essere di tipo ‘spettacolare’, ma fondativo. La camera scura di Norman Foster, Gateway, che accoglie i visitatori alle spalle dell’ingresso funge in fondo da manifesto introduttivo con la ‘storia’ proiettata sul pavimento nero nella forma di disegni, nomi dei protagonisti della cultura architettonica, messaggi, che si confrontano con lo spazio storico e contemporaneo dei raduni collettivi offerto da un serrato ritmo di immagini proiettate che ci avvolgono in alto, sui quattro lati delle pareti. Ordine e disordine per capire l’uso dell’architettura che a volte appare ‘improprio’, ma allo stesso tempo inarrestabile e spontaneo. Come appunto quello che avviene in uno dei monumenti architettonici contemporanei di Hong Kong: la Bank of China dello stesso Foster (in mostra ai Giardini) il cui piano terreno, pensato come ‘luogo pubblico’ e di passaggio sin dalla sua inaugurazione, si trasforma ogni domenica in una sorta di centro d’incontro della comunità delle colf filippine che, frammentandolo in microspazi con temporanei setti di cartone, attiva una straordinaria e pacifica varietà di attività sociali. In altro modo la riappropriazione di spazi urbani è rappresentata dal caso della Torre David a Caracas rappresentato dall’allestimento a cura di Urban Think Tank (Leone d’Oro quale miglior progetto della Mostra internazionale). Una torre per uffici rimasta incompleta è diventata una favela verticale nel centro urbano, simbolo del fallimento del neoliberismo e del self-empowerment delle classi povere, formando una nuova comunità spontanea, “modello ispiratore che riconosce la forza delle associazioni informali” (dalle motivazioni della Giuria), che ne ha trasformato gli spazi in una nuova casa collettiva con una propria identità. Valori di appartenenza restituiti dal progetto in mostra nella forma del ristorante di fantasia Gran Horizonte (punto d’incontro e di sosta lungo il percorso delle corderie) e dalla serie di fotografie di Iwan Baan che documentano momenti di vita della comunità spontanea. Partecipazione e tensione verso lo sviluppo urbano ‘dal basso’ sono testimoniati anche dalla ricerca di Elke Krasny, Hand –On Urbanism 1850-2012, e dal padiglione degli Stati Uniti d’America con il suo Spontaneous Interventions: Design Actions for the Common Good (menzione speciale della Giuria), dove una selezione di progetti ad opera di architetti, designer, urbanisti e semplici cittadini, configurano un mosaico di idee, proposte e realizzazioni, tese a “espandere la bellezza, il benessere, la funzionalità, la sicurezza e la sostenibilità delle città [dove] sperimentale, informale, alternativo, spontaneo, improvvisato, partecipativo, migliorativo, sono soltanto alcune delle parole che sono usate per descrivere questo movimento che si sta diffondendo sempre più a livello internazionale”. Ma dove forse al meglio si restituisce lo slogan del Commun Ground della Biennale veneziana è nell’Architecture possible here? Home-for-all del padiglione Giapponese (a cura di Toyo Ito, con allestimento di Akihisha Hirata, Sou Fujimoto, Kumiko Inui, Leone d’Oro per la migliore partecipazione nazionale), in cui la collaborazione e il confronto con la popolazione colpita dallo tsunami ha portato alla definizione di un nuovo centro d’incontro con la comunità locale, primo step di un programma in grado di generare la ‘voglia di casa’ in una regione devastata da una catastrofe nazionale. Tra uno sguardo alla storia e la ricerca di un confronto con il passato in termini attuali (l’omaggio alla magia compositiva dell’architetto barocco inglese Nicholas Hawksmoor, la bella mostra Facecity di Fulvio Irace dedicata al paesaggio urbano milanese del secondo dopoguerra, il Pasticcio di Caruso St. John teso a rintracciare una “continuità tra l’architettura contemporanea e quella antecedente al modernismo”, i ‘ritratti’ dei padiglioni della Biennale di Gabriele Basilico nell’allestimento di Diener & Diener, le radici storiche dichiarate da parte della ricerca sulla forma algoritmica di Zaha Hadid) i temi legati alla sostenibilità e al riuso sono emersi in più occasioni. Reduce/Reuse/Recycle – Architecture as Resource è il titolo-programma della Germania dove si dichiara apertamente che ogni costruzione è una risorsa con cui confrontarsi abbandonando la serialità tardo modernista della demolizione-progetto-ricostruzione; “secondo la logica di Reduce/Reuse/Recycle diverse strategie di ristrutturazione si possono classificare in base al rapporto fra vecchio e nuovo, fra l’intensità dell’intervento e il livello di modificazione. Trattando l’architettura edificata come una risorsa sostanziale e formale, si rende disponibile un’ampia gamma di possibilità e di approcci”. All’idea di sviluppo di una nuova consapevolezza rispetto al paesaggio urbano che ci circonda si riferisce anche la Svizzera, mentre la Russia, con i-city a cura di Sergei Tchoban (menzione speciale per l’allestimento e il tema trattato), dedica il suo padiglione, rivestito da pannelli metallici serigrafati da codici QR interattivi con tablet dati ai visitatori all’ingresso, al nuovo paesaggio in divenire del Centro d’innovazione di Skolkovo letto in rapporto alla storia delle città della scienza del Paese. Il verde, superata ogni dimensione semplicemente estetica, diventa fattore simbolico nel bosco di felci del Padiglione Italia di Luca Zevi che, oltre a sottolineare il valore dell’architettura per la produzione, emersa forse in modo inconsapevole dal solco della lezione di Adriano Olivetti, ci ricorda il valore del territorio e la necessità del suo mantenimento e gestione, oggi sempre più in abbandono anche in relazione alla flessione delle coltivazioni agricole (presidio di gestione del paesaggio in senso lato). Mentre ancora il verde (tradotto in piantumazioni di canne comuni) diventa strumento di riqualificazione strutturale nella prima partecipazione dell’Angola. In Beyond Entropy Angola, a cura di Stefano Rabolli Pansera e Paula Nascimento, si affronta il caso delle aree di conurbazione senza urbanità di Luanda, città ad alta densità senza avere però edifici a più livelli. In questa crescita esponenziale dell’occupazione del suolo, nella mancanza totale di infrastrutture basilari, l’idea di piantumare gli spazi interstiziali tra le costruzioni con la canna comune (Arundo Donax) che cresce anche lungo i nostri fiumi, permette di trasformare il ‘verde’ o meglio il paesaggio in strumento di riqualificazione operativo a breve periodo: la canna cresce con grande rapidità (raggiungerà a fine novembre il soffitto dello spazio all’isola di San Giorgio dove è ospitato l’allestimento) e i filamenti finissimi del suo rizoma alla radice filtrano in modo naturale le acque sporche, mentre il fusto rigido assorbe grandi quantità di CO2 rendendolo ideale per la biomassa. Quello proposto è un modello urbanistico sostenibile in grado di diventare esempio-guida per i Paesi sub-sahariani. Non mancano nella mostra allestimenti ‘hot spot’, emergenti dal punto di vista della presenza architettonica e scenica, tra cui la struttura metallica Arum di Zaha Hadid, e l’allestimento Copycat di Cino Zucchi (menzione d’onore) metafora di una sommatoria architettonica e allo stesso tempo luogo di memorie domestiche, di oggetti e immagini in grado di produrre efficaci rimandi di scala, di abitudini e usi. Nei pressi del Giardino delle Vergini si fronteggiano infine le due architetture di Alvaro Siza e di Eduardo Souto de Moura rapportate alla densità dell’ambiente urbano veneziano la prima e al paesaggio dell’intorno, incorniciato dalle sue aperture e rapporti di spazi, il secondo. Una mostra che racconta temi, che delinea possibili percorsi, più che mostrare la magnificenza e la spettacolarità di opere singole. D’altra parte come ci ricorda lo stesso Chipperfield “progettare architetture che siano parte di un panorama quotidiano è sicuramente una bella sfida, molto più rischiosa e affascinante della creazione di un maxigrattacielo”.
foto di sergio pirrone, matteo vercelloni
testo di matteo vercelloni - [gallery ids="7710,7711,7712,7713,7714,7715,7716,7717,7718,7719,7720,7721,7722,7723,7724"]Come, con la crisi economica si è detto basta agli eccessi finanziari è arrivato il momento di fermare anche gli eccessi degli architetti […] troppo spesso, ultimamente, gli architetti sono stati chiamati come maître patissier a preparare la torta di nozze del padrone di casa, ossia del committente. Che identifica nell’architetto lo specialista che, al meglio, attraverso un edificio può pubblicizzare il suo nome o il suo marchio. Che, di per sé, non è una colpa. Però quando a Michelangelo fu affidato l’incarico per la cupola di San Pietro era sì un’operazione di ‘promozione’ del papato, ma al contempo una renovatio urbis”. Le affermazioni di David Chipperfield, in parte rese esplicite dalla sua Biennale di Architettura, non lasciano spazio al dubbio: è tempo di ritornare a intendere l’architettura come una disciplina complessa che si confronta con la storia e la memoria, con le città e i suoi cittadini e che, come affermava Aldo Rossi è da assumere come “opera d’arte collettiva”. La 13a Biennale di architettura veneziana nella sua molteplice rassegna di punti di vista tende a consegnarci tale messaggio senza mortificare o ridurre le specifiche poetiche e le singole espressioni di ogni architetto che però cercano di offrirsi come occasione di confronto più che come momento di presentazione professionale. Molti sono i temi che si possono rintracciare nella visita alla mostra tra le Corderie e i Giardini, alcuni sottolineano le intenzioni iniziali: partecipazione civile, riuso e sostenibilità, presenza della storia, progetti condivisi, senso e uso della città e dei suoi spazi, valore del paesaggio come risorsa strategica. Non si tratta tuttavia della celebrazione del tramonto della figura dell’archistar, piuttosto di individuare percorsi che leghino il progetto di architettura al suo senso urbano, per estendersi a volte alla scala territoriale come macrostrutture abitate (è il caso del progetto dei ponti architettonici per Stoccolma, pensati da Jean Nouvel e Mia Hägg per unire il centro storico di Gamla Stan all’isola più a sud della città; o all’avveniristico Global Hub AIR+PORT dello studio BIG/ Bjarke Ingels Group, sperimentale sintesi tipologica tra un aeroporto galleggiante e un porto navale previsto tra i ghiacci della Groenlandia a Nuuk). In generale in tutta la mostra si respira aria di complessità e questo può indurre a rendere più difficile e sfuggente il messaggio che non vuole essere di tipo ‘spettacolare’, ma fondativo. La camera scura di Norman Foster, Gateway, che accoglie i visitatori alle spalle dell’ingresso funge in fondo da manifesto introduttivo con la ‘storia’ proiettata sul pavimento nero nella forma di disegni, nomi dei protagonisti della cultura architettonica, messaggi, che si confrontano con lo spazio storico e contemporaneo dei raduni collettivi offerto da un serrato ritmo di immagini proiettate che ci avvolgono in alto, sui quattro lati delle pareti. Ordine e disordine per capire l’uso dell’architettura che a volte appare ‘improprio’, ma allo stesso tempo inarrestabile e spontaneo. Come appunto quello che avviene in uno dei monumenti architettonici contemporanei di Hong Kong: la Bank of China dello stesso Foster (in mostra ai Giardini) il cui piano terreno, pensato come ‘luogo pubblico’ e di passaggio sin dalla sua inaugurazione, si trasforma ogni domenica in una sorta di centro d’incontro della comunità delle colf filippine che, frammentandolo in microspazi con temporanei setti di cartone, attiva una straordinaria e pacifica varietà di attività sociali. In altro modo la riappropriazione di spazi urbani è rappresentata dal caso della Torre David a Caracas rappresentato dall’allestimento a cura di Urban Think Tank (Leone d’Oro quale miglior progetto della Mostra internazionale). Una torre per uffici rimasta incompleta è diventata una favela verticale nel centro urbano, simbolo del fallimento del neoliberismo e del self-empowerment delle classi povere, formando una nuova comunità spontanea, “modello ispiratore che riconosce la forza delle associazioni informali” (dalle motivazioni della Giuria), che ne ha trasformato gli spazi in una nuova casa collettiva con una propria identità. Valori di appartenenza restituiti dal progetto in mostra nella forma del ristorante di fantasia Gran Horizonte (punto d’incontro e di sosta lungo il percorso delle corderie) e dalla serie di fotografie di Iwan Baan che documentano momenti di vita della comunità spontanea. Partecipazione e tensione verso lo sviluppo urbano ‘dal basso’ sono testimoniati anche dalla ricerca di Elke Krasny, Hand –On Urbanism 1850-2012, e dal padiglione degli Stati Uniti d’America con il suo Spontaneous Interventions: Design Actions for the Common Good (menzione speciale della Giuria), dove una selezione di progetti ad opera di architetti, designer, urbanisti e semplici cittadini, configurano un mosaico di idee, proposte e realizzazioni, tese a “espandere la bellezza, il benessere, la funzionalità, la sicurezza e la sostenibilità delle città [dove] sperimentale, informale, alternativo, spontaneo, improvvisato, partecipativo, migliorativo, sono soltanto alcune delle parole che sono usate per descrivere questo movimento che si sta diffondendo sempre più a livello internazionale”. Ma dove forse al meglio si restituisce lo slogan del Commun Ground della Biennale veneziana è nell’Architecture possible here? Home-for-all del padiglione Giapponese (a cura di Toyo Ito, con allestimento di Akihisha Hirata, Sou Fujimoto, Kumiko Inui, Leone d’Oro per la migliore partecipazione nazionale), in cui la collaborazione e il confronto con la popolazione colpita dallo tsunami ha portato alla definizione di un nuovo centro d’incontro con la comunità locale, primo step di un programma in grado di generare la ‘voglia di casa’ in una regione devastata da una catastrofe nazionale. Tra uno sguardo alla storia e la ricerca di un confronto con il passato in termini attuali (l’omaggio alla magia compositiva dell’architetto barocco inglese Nicholas Hawksmoor, la bella mostra Facecity di Fulvio Irace dedicata al paesaggio urbano milanese del secondo dopoguerra, il Pasticcio di Caruso St. John teso a rintracciare una “continuità tra l’architettura contemporanea e quella antecedente al modernismo”, i ‘ritratti’ dei padiglioni della Biennale di Gabriele Basilico nell’allestimento di Diener & Diener, le radici storiche dichiarate da parte della ricerca sulla forma algoritmica di Zaha Hadid) i temi legati alla sostenibilità e al riuso sono emersi in più occasioni. Reduce/Reuse/Recycle – Architecture as Resource è il titolo-programma della Germania dove si dichiara apertamente che ogni costruzione è una risorsa con cui confrontarsi abbandonando la serialità tardo modernista della demolizione-progetto-ricostruzione; “secondo la logica di Reduce/Reuse/Recycle diverse strategie di ristrutturazione si possono classificare in base al rapporto fra vecchio e nuovo, fra l’intensità dell’intervento e il livello di modificazione. Trattando l’architettura edificata come una risorsa sostanziale e formale, si rende disponibile un’ampia gamma di possibilità e di approcci”. All’idea di sviluppo di una nuova consapevolezza rispetto al paesaggio urbano che ci circonda si riferisce anche la Svizzera, mentre la Russia, con i-city a cura di Sergei Tchoban (menzione speciale per l’allestimento e il tema trattato), dedica il suo padiglione, rivestito da pannelli metallici serigrafati da codici QR interattivi con tablet dati ai visitatori all’ingresso, al nuovo paesaggio in divenire del Centro d’innovazione di Skolkovo letto in rapporto alla storia delle città della scienza del Paese. Il verde, superata ogni dimensione semplicemente estetica, diventa fattore simbolico nel bosco di felci del Padiglione Italia di Luca Zevi che, oltre a sottolineare il valore dell’architettura per la produzione, emersa forse in modo inconsapevole dal solco della lezione di Adriano Olivetti, ci ricorda il valore del territorio e la necessità del suo mantenimento e gestione, oggi sempre più in abbandono anche in relazione alla flessione delle coltivazioni agricole (presidio di gestione del paesaggio in senso lato). Mentre ancora il verde (tradotto in piantumazioni di canne comuni) diventa strumento di riqualificazione strutturale nella prima partecipazione dell’Angola. In Beyond Entropy Angola, a cura di Stefano Rabolli Pansera e Paula Nascimento, si affronta il caso delle aree di conurbazione senza urbanità di Luanda, città ad alta densità senza avere però edifici a più livelli. In questa crescita esponenziale dell’occupazione del suolo, nella mancanza totale di infrastrutture basilari, l’idea di piantumare gli spazi interstiziali tra le costruzioni con la canna comune (Arundo Donax) che cresce anche lungo i nostri fiumi, permette di trasformare il ‘verde’ o meglio il paesaggio in strumento di riqualificazione operativo a breve periodo: la canna cresce con grande rapidità (raggiungerà a fine novembre il soffitto dello spazio all’isola di San Giorgio dove è ospitato l’allestimento) e i filamenti finissimi del suo rizoma alla radice filtrano in modo naturale le acque sporche, mentre il fusto rigido assorbe grandi quantità di CO2 rendendolo ideale per la biomassa. Quello proposto è un modello urbanistico sostenibile in grado di diventare esempio-guida per i Paesi sub-sahariani. Non mancano nella mostra allestimenti ‘hot spot’, emergenti dal punto di vista della presenza architettonica e scenica, tra cui la struttura metallica Arum di Zaha Hadid, e l’allestimento Copycat di Cino Zucchi (menzione d’onore) metafora di una sommatoria architettonica e allo stesso tempo luogo di memorie domestiche, di oggetti e immagini in grado di produrre efficaci rimandi di scala, di abitudini e usi. Nei pressi del Giardino delle Vergini si fronteggiano infine le due architetture di Alvaro Siza e di Eduardo Souto de Moura rapportate alla densità dell’ambiente urbano veneziano la prima e al paesaggio dell’intorno, incorniciato dalle sue aperture e rapporti di spazi, il secondo. Una mostra che racconta temi, che delinea possibili percorsi, più che mostrare la magnificenza e la spettacolarità di opere singole. D’altra parte come ci ricorda lo stesso Chipperfield “progettare architetture che siano parte di un panorama quotidiano è sicuramente una bella sfida, molto più rischiosa e affascinante della creazione di un maxigrattacielo”.
foto di sergio pirrone, matteo vercelloni
testo di matteo vercelloni - [gallery ids="7710,7711,7712,7713,7714,7715,7716,7717,7718,7719,7720,7721,7722,7723,7724"]Come, con la crisi economica si è detto basta agli eccessi finanziari è arrivato il momento di fermare anche gli eccessi degli architetti […] troppo spesso, ultimamente, gli architetti sono stati chiamati come maître patissier a preparare la torta di nozze del padrone di casa, ossia del committente. Che identifica nell’architetto lo specialista che, al meglio, attraverso un edificio può pubblicizzare il suo nome o il suo marchio. Che, di per sé, non è una colpa. Però quando a Michelangelo fu affidato l’incarico per la cupola di San Pietro era sì un’operazione di ‘promozione’ del papato, ma al contempo una renovatio urbis”. Le affermazioni di David Chipperfield, in parte rese esplicite dalla sua Biennale di Architettura, non lasciano spazio al dubbio: è tempo di ritornare a intendere l’architettura come una disciplina complessa che si confronta con la storia e la memoria, con le città e i suoi cittadini e che, come affermava Aldo Rossi è da assumere come “opera d’arte collettiva”. La 13a Biennale di architettura veneziana nella sua molteplice rassegna di punti di vista tende a consegnarci tale messaggio senza mortificare o ridurre le specifiche poetiche e le singole espressioni di ogni architetto che però cercano di offrirsi come occasione di confronto più che come momento di presentazione professionale. Molti sono i temi che si possono rintracciare nella visita alla mostra tra le Corderie e i Giardini, alcuni sottolineano le intenzioni iniziali: partecipazione civile, riuso e sostenibilità, presenza della storia, progetti condivisi, senso e uso della città e dei suoi spazi, valore del paesaggio come risorsa strategica. Non si tratta tuttavia della celebrazione del tramonto della figura dell’archistar, piuttosto di individuare percorsi che leghino il progetto di architettura al suo senso urbano, per estendersi a volte alla scala territoriale come macrostrutture abitate (è il caso del progetto dei ponti architettonici per Stoccolma, pensati da Jean Nouvel e Mia Hägg per unire il centro storico di Gamla Stan all’isola più a sud della città; o all’avveniristico Global Hub AIR+PORT dello studio BIG/ Bjarke Ingels Group, sperimentale sintesi tipologica tra un aeroporto galleggiante e un porto navale previsto tra i ghiacci della Groenlandia a Nuuk). In generale in tutta la mostra si respira aria di complessità e questo può indurre a rendere più difficile e sfuggente il messaggio che non vuole essere di tipo ‘spettacolare’, ma fondativo. La camera scura di Norman Foster, Gateway, che accoglie i visitatori alle spalle dell’ingresso funge in fondo da manifesto introduttivo con la ‘storia’ proiettata sul pavimento nero nella forma di disegni, nomi dei protagonisti della cultura architettonica, messaggi, che si confrontano con lo spazio storico e contemporaneo dei raduni collettivi offerto da un serrato ritmo di immagini proiettate che ci avvolgono in alto, sui quattro lati delle pareti. Ordine e disordine per capire l’uso dell’architettura che a volte appare ‘improprio’, ma allo stesso tempo inarrestabile e spontaneo. Come appunto quello che avviene in uno dei monumenti architettonici contemporanei di Hong Kong: la Bank of China dello stesso Foster (in mostra ai Giardini) il cui piano terreno, pensato come ‘luogo pubblico’ e di passaggio sin dalla sua inaugurazione, si trasforma ogni domenica in una sorta di centro d’incontro della comunità delle colf filippine che, frammentandolo in microspazi con temporanei setti di cartone, attiva una straordinaria e pacifica varietà di attività sociali. In altro modo la riappropriazione di spazi urbani è rappresentata dal caso della Torre David a Caracas rappresentato dall’allestimento a cura di Urban Think Tank (Leone d’Oro quale miglior progetto della Mostra internazionale). Una torre per uffici rimasta incompleta è diventata una favela verticale nel centro urbano, simbolo del fallimento del neoliberismo e del self-empowerment delle classi povere, formando una nuova comunità spontanea, “modello ispiratore che riconosce la forza delle associazioni informali” (dalle motivazioni della Giuria), che ne ha trasformato gli spazi in una nuova casa collettiva con una propria identità. Valori di appartenenza restituiti dal progetto in mostra nella forma del ristorante di fantasia Gran Horizonte (punto d’incontro e di sosta lungo il percorso delle corderie) e dalla serie di fotografie di Iwan Baan che documentano momenti di vita della comunità spontanea. Partecipazione e tensione verso lo sviluppo urbano ‘dal basso’ sono testimoniati anche dalla ricerca di Elke Krasny, Hand –On Urbanism 1850-2012, e dal padiglione degli Stati Uniti d’America con il suo Spontaneous Interventions: Design Actions for the Common Good (menzione speciale della Giuria), dove una selezione di progetti ad opera di architetti, designer, urbanisti e semplici cittadini, configurano un mosaico di idee, proposte e realizzazioni, tese a “espandere la bellezza, il benessere, la funzionalità, la sicurezza e la sostenibilità delle città [dove] sperimentale, informale, alternativo, spontaneo, improvvisato, partecipativo, migliorativo, sono soltanto alcune delle parole che sono usate per descrivere questo movimento che si sta diffondendo sempre più a livello internazionale”. Ma dove forse al meglio si restituisce lo slogan del Commun Ground della Biennale veneziana è nell’Architecture possible here? Home-for-all del padiglione Giapponese (a cura di Toyo Ito, con allestimento di Akihisha Hirata, Sou Fujimoto, Kumiko Inui, Leone d’Oro per la migliore partecipazione nazionale), in cui la collaborazione e il confronto con la popolazione colpita dallo tsunami ha portato alla definizione di un nuovo centro d’incontro con la comunità locale, primo step di un programma in grado di generare la ‘voglia di casa’ in una regione devastata da una catastrofe nazionale. Tra uno sguardo alla storia e la ricerca di un confronto con il passato in termini attuali (l’omaggio alla magia compositiva dell’architetto barocco inglese Nicholas Hawksmoor, la bella mostra Facecity di Fulvio Irace dedicata al paesaggio urbano milanese del secondo dopoguerra, il Pasticcio di Caruso St. John teso a rintracciare una “continuità tra l’architettura contemporanea e quella antecedente al modernismo”, i ‘ritratti’ dei padiglioni della Biennale di Gabriele Basilico nell’allestimento di Diener & Diener, le radici storiche dichiarate da parte della ricerca sulla forma algoritmica di Zaha Hadid) i temi legati alla sostenibilità e al riuso sono emersi in più occasioni. Reduce/Reuse/Recycle – Architecture as Resource è il titolo-programma della Germania dove si dichiara apertamente che ogni costruzione è una risorsa con cui confrontarsi abbandonando la serialità tardo modernista della demolizione-progetto-ricostruzione; “secondo la logica di Reduce/Reuse/Recycle diverse strategie di ristrutturazione si possono classificare in base al rapporto fra vecchio e nuovo, fra l’intensità dell’intervento e il livello di modificazione. Trattando l’architettura edificata come una risorsa sostanziale e formale, si rende disponibile un’ampia gamma di possibilità e di approcci”. All’idea di sviluppo di una nuova consapevolezza rispetto al paesaggio urbano che ci circonda si riferisce anche la Svizzera, mentre la Russia, con i-city a cura di Sergei Tchoban (menzione speciale per l’allestimento e il tema trattato), dedica il suo padiglione, rivestito da pannelli metallici serigrafati da codici QR interattivi con tablet dati ai visitatori all’ingresso, al nuovo paesaggio in divenire del Centro d’innovazione di Skolkovo letto in rapporto alla storia delle città della scienza del Paese. Il verde, superata ogni dimensione semplicemente estetica, diventa fattore simbolico nel bosco di felci del Padiglione Italia di Luca Zevi che, oltre a sottolineare il valore dell’architettura per la produzione, emersa forse in modo inconsapevole dal solco della lezione di Adriano Olivetti, ci ricorda il valore del territorio e la necessità del suo mantenimento e gestione, oggi sempre più in abbandono anche in relazione alla flessione delle coltivazioni agricole (presidio di gestione del paesaggio in senso lato). Mentre ancora il verde (tradotto in piantumazioni di canne comuni) diventa strumento di riqualificazione strutturale nella prima partecipazione dell’Angola. In Beyond Entropy Angola, a cura di Stefano Rabolli Pansera e Paula Nascimento, si affronta il caso delle aree di conurbazione senza urbanità di Luanda, città ad alta densità senza avere però edifici a più livelli. In questa crescita esponenziale dell’occupazione del suolo, nella mancanza totale di infrastrutture basilari, l’idea di piantumare gli spazi interstiziali tra le costruzioni con la canna comune (Arundo Donax) che cresce anche lungo i nostri fiumi, permette di trasformare il ‘verde’ o meglio il paesaggio in strumento di riqualificazione operativo a breve periodo: la canna cresce con grande rapidità (raggiungerà a fine novembre il soffitto dello spazio all’isola di San Giorgio dove è ospitato l’allestimento) e i filamenti finissimi del suo rizoma alla radice filtrano in modo naturale le acque sporche, mentre il fusto rigido assorbe grandi quantità di CO2 rendendolo ideale per la biomassa. Quello proposto è un modello urbanistico sostenibile in grado di diventare esempio-guida per i Paesi sub-sahariani. Non mancano nella mostra allestimenti ‘hot spot’, emergenti dal punto di vista della presenza architettonica e scenica, tra cui la struttura metallica Arum di Zaha Hadid, e l’allestimento Copycat di Cino Zucchi (menzione d’onore) metafora di una sommatoria architettonica e allo stesso tempo luogo di memorie domestiche, di oggetti e immagini in grado di produrre efficaci rimandi di scala, di abitudini e usi. Nei pressi del Giardino delle Vergini si fronteggiano infine le due architetture di Alvaro Siza e di Eduardo Souto de Moura rapportate alla densità dell’ambiente urbano veneziano la prima e al paesaggio dell’intorno, incorniciato dalle sue aperture e rapporti di spazi, il secondo. Una mostra che racconta temi, che delinea possibili percorsi, più che mostrare la magnificenza e la spettacolarità di opere singole. D’altra parte come ci ricorda lo stesso Chipperfield “progettare architetture che siano parte di un panorama quotidiano è sicuramente una bella sfida, molto più rischiosa e affascinante della creazione di un maxigrattacielo”.
foto di sergio pirrone, matteo vercelloni
testo di matteo vercelloni - [gallery ids="7710,7711,7712,7713,7714,7715,7716,7717,7718,7719,7720,7721,7722,7723,7724"]Come, con la crisi economica si è detto basta agli eccessi finanziari è arrivato il momento di fermare anche gli eccessi degli architetti […] troppo spesso, ultimamente, gli architetti sono stati chiamati come maître patissier a preparare la torta di nozze del padrone di casa, ossia del committente. Che identifica nell’architetto lo specialista che, al meglio, attraverso un edificio può pubblicizzare il suo nome o il suo marchio. Che, di per sé, non è una colpa. Però quando a Michelangelo fu affidato l’incarico per la cupola di San Pietro era sì un’operazione di ‘promozione’ del papato, ma al contempo una renovatio urbis”. Le affermazioni di David Chipperfield, in parte rese esplicite dalla sua Biennale di Architettura, non lasciano spazio al dubbio: è tempo di ritornare a intendere l’architettura come una disciplina complessa che si confronta con la storia e la memoria, con le città e i suoi cittadini e che, come affermava Aldo Rossi è da assumere come “opera d’arte collettiva”. La 13a Biennale di architettura veneziana nella sua molteplice rassegna di punti di vista tende a consegnarci tale messaggio senza mortificare o ridurre le specifiche poetiche e le singole espressioni di ogni architetto che però cercano di offrirsi come occasione di confronto più che come momento di presentazione professionale. Molti sono i temi che si possono rintracciare nella visita alla mostra tra le Corderie e i Giardini, alcuni sottolineano le intenzioni iniziali: partecipazione civile, riuso e sostenibilità, presenza della storia, progetti condivisi, senso e uso della città e dei suoi spazi, valore del paesaggio come risorsa strategica. Non si tratta tuttavia della celebrazione del tramonto della figura dell’archistar, piuttosto di individuare percorsi che leghino il progetto di architettura al suo senso urbano, per estendersi a volte alla scala territoriale come macrostrutture abitate (è il caso del progetto dei ponti architettonici per Stoccolma, pensati da Jean Nouvel e Mia Hägg per unire il centro storico di Gamla Stan all’isola più a sud della città; o all’avveniristico Global Hub AIR+PORT dello studio BIG/ Bjarke Ingels Group, sperimentale sintesi tipologica tra un aeroporto galleggiante e un porto navale previsto tra i ghiacci della Groenlandia a Nuuk). In generale in tutta la mostra si respira aria di complessità e questo può indurre a rendere più difficile e sfuggente il messaggio che non vuole essere di tipo ‘spettacolare’, ma fondativo. La camera scura di Norman Foster, Gateway, che accoglie i visitatori alle spalle dell’ingresso funge in fondo da manifesto introduttivo con la ‘storia’ proiettata sul pavimento nero nella forma di disegni, nomi dei protagonisti della cultura architettonica, messaggi, che si confrontano con lo spazio storico e contemporaneo dei raduni collettivi offerto da un serrato ritmo di immagini proiettate che ci avvolgono in alto, sui quattro lati delle pareti. Ordine e disordine per capire l’uso dell’architettura che a volte appare ‘improprio’, ma allo stesso tempo inarrestabile e spontaneo. Come appunto quello che avviene in uno dei monumenti architettonici contemporanei di Hong Kong: la Bank of China dello stesso Foster (in mostra ai Giardini) il cui piano terreno, pensato come ‘luogo pubblico’ e di passaggio sin dalla sua inaugurazione, si trasforma ogni domenica in una sorta di centro d’incontro della comunità delle colf filippine che, frammentandolo in microspazi con temporanei setti di cartone, attiva una straordinaria e pacifica varietà di attività sociali. In altro modo la riappropriazione di spazi urbani è rappresentata dal caso della Torre David a Caracas rappresentato dall’allestimento a cura di Urban Think Tank (Leone d’Oro quale miglior progetto della Mostra internazionale). Una torre per uffici rimasta incompleta è diventata una favela verticale nel centro urbano, simbolo del fallimento del neoliberismo e del self-empowerment delle classi povere, formando una nuova comunità spontanea, “modello ispiratore che riconosce la forza delle associazioni informali” (dalle motivazioni della Giuria), che ne ha trasformato gli spazi in una nuova casa collettiva con una propria identità. Valori di appartenenza restituiti dal progetto in mostra nella forma del ristorante di fantasia Gran Horizonte (punto d’incontro e di sosta lungo il percorso delle corderie) e dalla serie di fotografie di Iwan Baan che documentano momenti di vita della comunità spontanea. Partecipazione e tensione verso lo sviluppo urbano ‘dal basso’ sono testimoniati anche dalla ricerca di Elke Krasny, Hand –On Urbanism 1850-2012, e dal padiglione degli Stati Uniti d’America con il suo Spontaneous Interventions: Design Actions for the Common Good (menzione speciale della Giuria), dove una selezione di progetti ad opera di architetti, designer, urbanisti e semplici cittadini, configurano un mosaico di idee, proposte e realizzazioni, tese a “espandere la bellezza, il benessere, la funzionalità, la sicurezza e la sostenibilità delle città [dove] sperimentale, informale, alternativo, spontaneo, improvvisato, partecipativo, migliorativo, sono soltanto alcune delle parole che sono usate per descrivere questo movimento che si sta diffondendo sempre più a livello internazionale”. Ma dove forse al meglio si restituisce lo slogan del Commun Ground della Biennale veneziana è nell’Architecture possible here? Home-for-all del padiglione Giapponese (a cura di Toyo Ito, con allestimento di Akihisha Hirata, Sou Fujimoto, Kumiko Inui, Leone d’Oro per la migliore partecipazione nazionale), in cui la collaborazione e il confronto con la popolazione colpita dallo tsunami ha portato alla definizione di un nuovo centro d’incontro con la comunità locale, primo step di un programma in grado di generare la ‘voglia di casa’ in una regione devastata da una catastrofe nazionale. Tra uno sguardo alla storia e la ricerca di un confronto con il passato in termini attuali (l’omaggio alla magia compositiva dell’architetto barocco inglese Nicholas Hawksmoor, la bella mostra Facecity di Fulvio Irace dedicata al paesaggio urbano milanese del secondo dopoguerra, il Pasticcio di Caruso St. John teso a rintracciare una “continuità tra l’architettura contemporanea e quella antecedente al modernismo”, i ‘ritratti’ dei padiglioni della Biennale di Gabriele Basilico nell’allestimento di Diener & Diener, le radici storiche dichiarate da parte della ricerca sulla forma algoritmica di Zaha Hadid) i temi legati alla sostenibilità e al riuso sono emersi in più occasioni. Reduce/Reuse/Recycle – Architecture as Resource è il titolo-programma della Germania dove si dichiara apertamente che ogni costruzione è una risorsa con cui confrontarsi abbandonando la serialità tardo modernista della demolizione-progetto-ricostruzione; “secondo la logica di Reduce/Reuse/Recycle diverse strategie di ristrutturazione si possono classificare in base al rapporto fra vecchio e nuovo, fra l’intensità dell’intervento e il livello di modificazione. Trattando l’architettura edificata come una risorsa sostanziale e formale, si rende disponibile un’ampia gamma di possibilità e di approcci”. All’idea di sviluppo di una nuova consapevolezza rispetto al paesaggio urbano che ci circonda si riferisce anche la Svizzera, mentre la Russia, con i-city a cura di Sergei Tchoban (menzione speciale per l’allestimento e il tema trattato), dedica il suo padiglione, rivestito da pannelli metallici serigrafati da codici QR interattivi con tablet dati ai visitatori all’ingresso, al nuovo paesaggio in divenire del Centro d’innovazione di Skolkovo letto in rapporto alla storia delle città della scienza del Paese. Il verde, superata ogni dimensione semplicemente estetica, diventa fattore simbolico nel bosco di felci del Padiglione Italia di Luca Zevi che, oltre a sottolineare il valore dell’architettura per la produzione, emersa forse in modo inconsapevole dal solco della lezione di Adriano Olivetti, ci ricorda il valore del territorio e la necessità del suo mantenimento e gestione, oggi sempre più in abbandono anche in relazione alla flessione delle coltivazioni agricole (presidio di gestione del paesaggio in senso lato). Mentre ancora il verde (tradotto in piantumazioni di canne comuni) diventa strumento di riqualificazione strutturale nella prima partecipazione dell’Angola. In Beyond Entropy Angola, a cura di Stefano Rabolli Pansera e Paula Nascimento, si affronta il caso delle aree di conurbazione senza urbanità di Luanda, città ad alta densità senza avere però edifici a più livelli. In questa crescita esponenziale dell’occupazione del suolo, nella mancanza totale di infrastrutture basilari, l’idea di piantumare gli spazi interstiziali tra le costruzioni con la canna comune (Arundo Donax) che cresce anche lungo i nostri fiumi, permette di trasformare il ‘verde’ o meglio il paesaggio in strumento di riqualificazione operativo a breve periodo: la canna cresce con grande rapidità (raggiungerà a fine novembre il soffitto dello spazio all’isola di San Giorgio dove è ospitato l’allestimento) e i filamenti finissimi del suo rizoma alla radice filtrano in modo naturale le acque sporche, mentre il fusto rigido assorbe grandi quantità di CO2 rendendolo ideale per la biomassa. Quello proposto è un modello urbanistico sostenibile in grado di diventare esempio-guida per i Paesi sub-sahariani. Non mancano nella mostra allestimenti ‘hot spot’, emergenti dal punto di vista della presenza architettonica e scenica, tra cui la struttura metallica Arum di Zaha Hadid, e l’allestimento Copycat di Cino Zucchi (menzione d’onore) metafora di una sommatoria architettonica e allo stesso tempo luogo di memorie domestiche, di oggetti e immagini in grado di produrre efficaci rimandi di scala, di abitudini e usi. Nei pressi del Giardino delle Vergini si fronteggiano infine le due architetture di Alvaro Siza e di Eduardo Souto de Moura rapportate alla densità dell’ambiente urbano veneziano la prima e al paesaggio dell’intorno, incorniciato dalle sue aperture e rapporti di spazi, il secondo. Una mostra che racconta temi, che delinea possibili percorsi, più che mostrare la magnificenza e la spettacolarità di opere singole. D’altra parte come ci ricorda lo stesso Chipperfield “progettare architetture che siano parte di un panorama quotidiano è sicuramente una bella sfida, molto più rischiosa e affascinante della creazione di un maxigrattacielo”.
foto di sergio pirrone, matteo vercelloni
testo di matteo vercelloni - [gallery ids="7710,7711,7712,7713,7714,7715,7716,7717,7718,7719,7720,7721,7722,7723,7724"]Come, con la crisi economica si è detto basta agli eccessi finanziari è arrivato il momento di fermare anche gli eccessi degli architetti […] troppo spesso, ultimamente, gli architetti sono stati chiamati come maître patissier a preparare la torta di nozze del padrone di casa, ossia del committente. Che identifica nell’architetto lo specialista che, al meglio, attraverso un edificio può pubblicizzare il suo nome o il suo marchio. Che, di per sé, non è una colpa. Però quando a Michelangelo fu affidato l’incarico per la cupola di San Pietro era sì un’operazione di ‘promozione’ del papato, ma al contempo una renovatio urbis”. Le affermazioni di David Chipperfield, in parte rese esplicite dalla sua Biennale di Architettura, non lasciano spazio al dubbio: è tempo di ritornare a intendere l’architettura come una disciplina complessa che si confronta con la storia e la memoria, con le città e i suoi cittadini e che, come affermava Aldo Rossi è da assumere come “opera d’arte collettiva”. La 13a Biennale di architettura veneziana nella sua molteplice rassegna di punti di vista tende a consegnarci tale messaggio senza mortificare o ridurre le specifiche poetiche e le singole espressioni di ogni architetto che però cercano di offrirsi come occasione di confronto più che come momento di presentazione professionale. Molti sono i temi che si possono rintracciare nella visita alla mostra tra le Corderie e i Giardini, alcuni sottolineano le intenzioni iniziali: partecipazione civile, riuso e sostenibilità, presenza della storia, progetti condivisi, senso e uso della città e dei suoi spazi, valore del paesaggio come risorsa strategica. Non si tratta tuttavia della celebrazione del tramonto della figura dell’archistar, piuttosto di individuare percorsi che leghino il progetto di architettura al suo senso urbano, per estendersi a volte alla scala territoriale come macrostrutture abitate (è il caso del progetto dei ponti architettonici per Stoccolma, pensati da Jean Nouvel e Mia Hägg per unire il centro storico di Gamla Stan all’isola più a sud della città; o all’avveniristico Global Hub AIR+PORT dello studio BIG/ Bjarke Ingels Group, sperimentale sintesi tipologica tra un aeroporto galleggiante e un porto navale previsto tra i ghiacci della Groenlandia a Nuuk). In generale in tutta la mostra si respira aria di complessità e questo può indurre a rendere più difficile e sfuggente il messaggio che non vuole essere di tipo ‘spettacolare’, ma fondativo. La camera scura di Norman Foster, Gateway, che accoglie i visitatori alle spalle dell’ingresso funge in fondo da manifesto introduttivo con la ‘storia’ proiettata sul pavimento nero nella forma di disegni, nomi dei protagonisti della cultura architettonica, messaggi, che si confrontano con lo spazio storico e contemporaneo dei raduni collettivi offerto da un serrato ritmo di immagini proiettate che ci avvolgono in alto, sui quattro lati delle pareti. Ordine e disordine per capire l’uso dell’architettura che a volte appare ‘improprio’, ma allo stesso tempo inarrestabile e spontaneo. Come appunto quello che avviene in uno dei monumenti architettonici contemporanei di Hong Kong: la Bank of China dello stesso Foster (in mostra ai Giardini) il cui piano terreno, pensato come ‘luogo pubblico’ e di passaggio sin dalla sua inaugurazione, si trasforma ogni domenica in una sorta di centro d’incontro della comunità delle colf filippine che, frammentandolo in microspazi con temporanei setti di cartone, attiva una straordinaria e pacifica varietà di attività sociali. In altro modo la riappropriazione di spazi urbani è rappresentata dal caso della Torre David a Caracas rappresentato dall’allestimento a cura di Urban Think Tank (Leone d’Oro quale miglior progetto della Mostra internazionale). Una torre per uffici rimasta incompleta è diventata una favela verticale nel centro urbano, simbolo del fallimento del neoliberismo e del self-empowerment delle classi povere, formando una nuova comunità spontanea, “modello ispiratore che riconosce la forza delle associazioni informali” (dalle motivazioni della Giuria), che ne ha trasformato gli spazi in una nuova casa collettiva con una propria identità. Valori di appartenenza restituiti dal progetto in mostra nella forma del ristorante di fantasia Gran Horizonte (punto d’incontro e di sosta lungo il percorso delle corderie) e dalla serie di fotografie di Iwan Baan che documentano momenti di vita della comunità spontanea. Partecipazione e tensione verso lo sviluppo urbano ‘dal basso’ sono testimoniati anche dalla ricerca di Elke Krasny, Hand –On Urbanism 1850-2012, e dal padiglione degli Stati Uniti d’America con il suo Spontaneous Interventions: Design Actions for the Common Good (menzione speciale della Giuria), dove una selezione di progetti ad opera di architetti, designer, urbanisti e semplici cittadini, configurano un mosaico di idee, proposte e realizzazioni, tese a “espandere la bellezza, il benessere, la funzionalità, la sicurezza e la sostenibilità delle città [dove] sperimentale, informale, alternativo, spontaneo, improvvisato, partecipativo, migliorativo, sono soltanto alcune delle parole che sono usate per descrivere questo movimento che si sta diffondendo sempre più a livello internazionale”. Ma dove forse al meglio si restituisce lo slogan del Commun Ground della Biennale veneziana è nell’Architecture possible here? Home-for-all del padiglione Giapponese (a cura di Toyo Ito, con allestimento di Akihisha Hirata, Sou Fujimoto, Kumiko Inui, Leone d’Oro per la migliore partecipazione nazionale), in cui la collaborazione e il confronto con la popolazione colpita dallo tsunami ha portato alla definizione di un nuovo centro d’incontro con la comunità locale, primo step di un programma in grado di generare la ‘voglia di casa’ in una regione devastata da una catastrofe nazionale. Tra uno sguardo alla storia e la ricerca di un confronto con il passato in termini attuali (l’omaggio alla magia compositiva dell’architetto barocco inglese Nicholas Hawksmoor, la bella mostra Facecity di Fulvio Irace dedicata al paesaggio urbano milanese del secondo dopoguerra, il Pasticcio di Caruso St. John teso a rintracciare una “continuità tra l’architettura contemporanea e quella antecedente al modernismo”, i ‘ritratti’ dei padiglioni della Biennale di Gabriele Basilico nell’allestimento di Diener & Diener, le radici storiche dichiarate da parte della ricerca sulla forma algoritmica di Zaha Hadid) i temi legati alla sostenibilità e al riuso sono emersi in più occasioni. Reduce/Reuse/Recycle – Architecture as Resource è il titolo-programma della Germania dove si dichiara apertamente che ogni costruzione è una risorsa con cui confrontarsi abbandonando la serialità tardo modernista della demolizione-progetto-ricostruzione; “secondo la logica di Reduce/Reuse/Recycle diverse strategie di ristrutturazione si possono classificare in base al rapporto fra vecchio e nuovo, fra l’intensità dell’intervento e il livello di modificazione. Trattando l’architettura edificata come una risorsa sostanziale e formale, si rende disponibile un’ampia gamma di possibilità e di approcci”. All’idea di sviluppo di una nuova consapevolezza rispetto al paesaggio urbano che ci circonda si riferisce anche la Svizzera, mentre la Russia, con i-city a cura di Sergei Tchoban (menzione speciale per l’allestimento e il tema trattato), dedica il suo padiglione, rivestito da pannelli metallici serigrafati da codici QR interattivi con tablet dati ai visitatori all’ingresso, al nuovo paesaggio in divenire del Centro d’innovazione di Skolkovo letto in rapporto alla storia delle città della scienza del Paese. Il verde, superata ogni dimensione semplicemente estetica, diventa fattore simbolico nel bosco di felci del Padiglione Italia di Luca Zevi che, oltre a sottolineare il valore dell’architettura per la produzione, emersa forse in modo inconsapevole dal solco della lezione di Adriano Olivetti, ci ricorda il valore del territorio e la necessità del suo mantenimento e gestione, oggi sempre più in abbandono anche in relazione alla flessione delle coltivazioni agricole (presidio di gestione del paesaggio in senso lato). Mentre ancora il verde (tradotto in piantumazioni di canne comuni) diventa strumento di riqualificazione strutturale nella prima partecipazione dell’Angola. In Beyond Entropy Angola, a cura di Stefano Rabolli Pansera e Paula Nascimento, si affronta il caso delle aree di conurbazione senza urbanità di Luanda, città ad alta densità senza avere però edifici a più livelli. In questa crescita esponenziale dell’occupazione del suolo, nella mancanza totale di infrastrutture basilari, l’idea di piantumare gli spazi interstiziali tra le costruzioni con la canna comune (Arundo Donax) che cresce anche lungo i nostri fiumi, permette di trasformare il ‘verde’ o meglio il paesaggio in strumento di riqualificazione operativo a breve periodo: la canna cresce con grande rapidità (raggiungerà a fine novembre il soffitto dello spazio all’isola di San Giorgio dove è ospitato l’allestimento) e i filamenti finissimi del suo rizoma alla radice filtrano in modo naturale le acque sporche, mentre il fusto rigido assorbe grandi quantità di CO2 rendendolo ideale per la biomassa. Quello proposto è un modello urbanistico sostenibile in grado di diventare esempio-guida per i Paesi sub-sahariani. Non mancano nella mostra allestimenti ‘hot spot’, emergenti dal punto di vista della presenza architettonica e scenica, tra cui la struttura metallica Arum di Zaha Hadid, e l’allestimento Copycat di Cino Zucchi (menzione d’onore) metafora di una sommatoria architettonica e allo stesso tempo luogo di memorie domestiche, di oggetti e immagini in grado di produrre efficaci rimandi di scala, di abitudini e usi. Nei pressi del Giardino delle Vergini si fronteggiano infine le due architetture di Alvaro Siza e di Eduardo Souto de Moura rapportate alla densità dell’ambiente urbano veneziano la prima e al paesaggio dell’intorno, incorniciato dalle sue aperture e rapporti di spazi, il secondo. Una mostra che racconta temi, che delinea possibili percorsi, più che mostrare la magnificenza e la spettacolarità di opere singole. D’altra parte come ci ricorda lo stesso Chipperfield “progettare architetture che siano parte di un panorama quotidiano è sicuramente una bella sfida, molto più rischiosa e affascinante della creazione di un maxigrattacielo”.
foto di sergio pirrone, matteo vercelloni
testo di matteo vercelloni - [gallery ids="7710,7711,7712,7713,7714,7715,7716,7717,7718,7719,7720,7721,7722,7723,7724"]Come, con la crisi economica si è detto basta agli eccessi finanziari è arrivato il momento di fermare anche gli eccessi degli architetti […] troppo spesso, ultimamente, gli architetti sono stati chiamati come maître patissier a preparare la torta di nozze del padrone di casa, ossia del committente. Che identifica nell’architetto lo specialista che, al meglio, attraverso un edificio può pubblicizzare il suo nome o il suo marchio. Che, di per sé, non è una colpa. Però quando a Michelangelo fu affidato l’incarico per la cupola di San Pietro era sì un’operazione di ‘promozione’ del papato, ma al contempo una renovatio urbis”. Le affermazioni di David Chipperfield, in parte rese esplicite dalla sua Biennale di Architettura, non lasciano spazio al dubbio: è tempo di ritornare a intendere l’architettura come una disciplina complessa che si confronta con la storia e la memoria, con le città e i suoi cittadini e che, come affermava Aldo Rossi è da assumere come “opera d’arte collettiva”. La 13a Biennale di architettura veneziana nella sua molteplice rassegna di punti di vista tende a consegnarci tale messaggio senza mortificare o ridurre le specifiche poetiche e le singole espressioni di ogni architetto che però cercano di offrirsi come occasione di confronto più che come momento di presentazione professionale. Molti sono i temi che si possono rintracciare nella visita alla mostra tra le Corderie e i Giardini, alcuni sottolineano le intenzioni iniziali: partecipazione civile, riuso e sostenibilità, presenza della storia, progetti condivisi, senso e uso della città e dei suoi spazi, valore del paesaggio come risorsa strategica. Non si tratta tuttavia della celebrazione del tramonto della figura dell’archistar, piuttosto di individuare percorsi che leghino il progetto di architettura al suo senso urbano, per estendersi a volte alla scala territoriale come macrostrutture abitate (è il caso del progetto dei ponti architettonici per Stoccolma, pensati da Jean Nouvel e Mia Hägg per unire il centro storico di Gamla Stan all’isola più a sud della città; o all’avveniristico Global Hub AIR+PORT dello studio BIG/ Bjarke Ingels Group, sperimentale sintesi tipologica tra un aeroporto galleggiante e un porto navale previsto tra i ghiacci della Groenlandia a Nuuk). In generale in tutta la mostra si respira aria di complessità e questo può indurre a rendere più difficile e sfuggente il messaggio che non vuole essere di tipo ‘spettacolare’, ma fondativo. La camera scura di Norman Foster, Gateway, che accoglie i visitatori alle spalle dell’ingresso funge in fondo da manifesto introduttivo con la ‘storia’ proiettata sul pavimento nero nella forma di disegni, nomi dei protagonisti della cultura architettonica, messaggi, che si confrontano con lo spazio storico e contemporaneo dei raduni collettivi offerto da un serrato ritmo di immagini proiettate che ci avvolgono in alto, sui quattro lati delle pareti. Ordine e disordine per capire l’uso dell’architettura che a volte appare ‘improprio’, ma allo stesso tempo inarrestabile e spontaneo. Come appunto quello che avviene in uno dei monumenti architettonici contemporanei di Hong Kong: la Bank of China dello stesso Foster (in mostra ai Giardini) il cui piano terreno, pensato come ‘luogo pubblico’ e di passaggio sin dalla sua inaugurazione, si trasforma ogni domenica in una sorta di centro d’incontro della comunità delle colf filippine che, frammentandolo in microspazi con temporanei setti di cartone, attiva una straordinaria e pacifica varietà di attività sociali. In altro modo la riappropriazione di spazi urbani è rappresentata dal caso della Torre David a Caracas rappresentato dall’allestimento a cura di Urban Think Tank (Leone d’Oro quale miglior progetto della Mostra internazionale). Una torre per uffici rimasta incompleta è diventata una favela verticale nel centro urbano, simbolo del fallimento del neoliberismo e del self-empowerment delle classi povere, formando una nuova comunità spontanea, “modello ispiratore che riconosce la forza delle associazioni informali” (dalle motivazioni della Giuria), che ne ha trasformato gli spazi in una nuova casa collettiva con una propria identità. Valori di appartenenza restituiti dal progetto in mostra nella forma del ristorante di fantasia Gran Horizonte (punto d’incontro e di sosta lungo il percorso delle corderie) e dalla serie di fotografie di Iwan Baan che documentano momenti di vita della comunità spontanea. Partecipazione e tensione verso lo sviluppo urbano ‘dal basso’ sono testimoniati anche dalla ricerca di Elke Krasny, Hand –On Urbanism 1850-2012, e dal padiglione degli Stati Uniti d’America con il suo Spontaneous Interventions: Design Actions for the Common Good (menzione speciale della Giuria), dove una selezione di progetti ad opera di architetti, designer, urbanisti e semplici cittadini, configurano un mosaico di idee, proposte e realizzazioni, tese a “espandere la bellezza, il benessere, la funzionalità, la sicurezza e la sostenibilità delle città [dove] sperimentale, informale, alternativo, spontaneo, improvvisato, partecipativo, migliorativo, sono soltanto alcune delle parole che sono usate per descrivere questo movimento che si sta diffondendo sempre più a livello internazionale”. Ma dove forse al meglio si restituisce lo slogan del Commun Ground della Biennale veneziana è nell’Architecture possible here? Home-for-all del padiglione Giapponese (a cura di Toyo Ito, con allestimento di Akihisha Hirata, Sou Fujimoto, Kumiko Inui, Leone d’Oro per la migliore partecipazione nazionale), in cui la collaborazione e il confronto con la popolazione colpita dallo tsunami ha portato alla definizione di un nuovo centro d’incontro con la comunità locale, primo step di un programma in grado di generare la ‘voglia di casa’ in una regione devastata da una catastrofe nazionale. Tra uno sguardo alla storia e la ricerca di un confronto con il passato in termini attuali (l’omaggio alla magia compositiva dell’architetto barocco inglese Nicholas Hawksmoor, la bella mostra Facecity di Fulvio Irace dedicata al paesaggio urbano milanese del secondo dopoguerra, il Pasticcio di Caruso St. John teso a rintracciare una “continuità tra l’architettura contemporanea e quella antecedente al modernismo”, i ‘ritratti’ dei padiglioni della Biennale di Gabriele Basilico nell’allestimento di Diener & Diener, le radici storiche dichiarate da parte della ricerca sulla forma algoritmica di Zaha Hadid) i temi legati alla sostenibilità e al riuso sono emersi in più occasioni. Reduce/Reuse/Recycle – Architecture as Resource è il titolo-programma della Germania dove si dichiara apertamente che ogni costruzione è una risorsa con cui confrontarsi abbandonando la serialità tardo modernista della demolizione-progetto-ricostruzione; “secondo la logica di Reduce/Reuse/Recycle diverse strategie di ristrutturazione si possono classificare in base al rapporto fra vecchio e nuovo, fra l’intensità dell’intervento e il livello di modificazione. Trattando l’architettura edificata come una risorsa sostanziale e formale, si rende disponibile un’ampia gamma di possibilità e di approcci”. All’idea di sviluppo di una nuova consapevolezza rispetto al paesaggio urbano che ci circonda si riferisce anche la Svizzera, mentre la Russia, con i-city a cura di Sergei Tchoban (menzione speciale per l’allestimento e il tema trattato), dedica il suo padiglione, rivestito da pannelli metallici serigrafati da codici QR interattivi con tablet dati ai visitatori all’ingresso, al nuovo paesaggio in divenire del Centro d’innovazione di Skolkovo letto in rapporto alla storia delle città della scienza del Paese. Il verde, superata ogni dimensione semplicemente estetica, diventa fattore simbolico nel bosco di felci del Padiglione Italia di Luca Zevi che, oltre a sottolineare il valore dell’architettura per la produzione, emersa forse in modo inconsapevole dal solco della lezione di Adriano Olivetti, ci ricorda il valore del territorio e la necessità del suo mantenimento e gestione, oggi sempre più in abbandono anche in relazione alla flessione delle coltivazioni agricole (presidio di gestione del paesaggio in senso lato). Mentre ancora il verde (tradotto in piantumazioni di canne comuni) diventa strumento di riqualificazione strutturale nella prima partecipazione dell’Angola. In Beyond Entropy Angola, a cura di Stefano Rabolli Pansera e Paula Nascimento, si affronta il caso delle aree di conurbazione senza urbanità di Luanda, città ad alta densità senza avere però edifici a più livelli. In questa crescita esponenziale dell’occupazione del suolo, nella mancanza totale di infrastrutture basilari, l’idea di piantumare gli spazi interstiziali tra le costruzioni con la canna comune (Arundo Donax) che cresce anche lungo i nostri fiumi, permette di trasformare il ‘verde’ o meglio il paesaggio in strumento di riqualificazione operativo a breve periodo: la canna cresce con grande rapidità (raggiungerà a fine novembre il soffitto dello spazio all’isola di San Giorgio dove è ospitato l’allestimento) e i filamenti finissimi del suo rizoma alla radice filtrano in modo naturale le acque sporche, mentre il fusto rigido assorbe grandi quantità di CO2 rendendolo ideale per la biomassa. Quello proposto è un modello urbanistico sostenibile in grado di diventare esempio-guida per i Paesi sub-sahariani. Non mancano nella mostra allestimenti ‘hot spot’, emergenti dal punto di vista della presenza architettonica e scenica, tra cui la struttura metallica Arum di Zaha Hadid, e l’allestimento Copycat di Cino Zucchi (menzione d’onore) metafora di una sommatoria architettonica e allo stesso tempo luogo di memorie domestiche, di oggetti e immagini in grado di produrre efficaci rimandi di scala, di abitudini e usi. Nei pressi del Giardino delle Vergini si fronteggiano infine le due architetture di Alvaro Siza e di Eduardo Souto de Moura rapportate alla densità dell’ambiente urbano veneziano la prima e al paesaggio dell’intorno, incorniciato dalle sue aperture e rapporti di spazi, il secondo. Una mostra che racconta temi, che delinea possibili percorsi, più che mostrare la magnificenza e la spettacolarità di opere singole. D’altra parte come ci ricorda lo stesso Chipperfield “progettare architetture che siano parte di un panorama quotidiano è sicuramente una bella sfida, molto più rischiosa e affascinante della creazione di un maxigrattacielo”.
foto di sergio pirrone, matteo vercelloni
testo di matteo vercelloni - [gallery ids="7710,7711,7712,7713,7714,7715,7716,7717,7718,7719,7720,7721,7722,7723,7724"]Come, con la crisi economica si è detto basta agli eccessi finanziari è arrivato il momento di fermare anche gli eccessi degli architetti […] troppo spesso, ultimamente, gli architetti sono stati chiamati come maître patissier a preparare la torta di nozze del padrone di casa, ossia del committente. Che identifica nell’architetto lo specialista che, al meglio, attraverso un edificio può pubblicizzare il suo nome o il suo marchio. Che, di per sé, non è una colpa. Però quando a Michelangelo fu affidato l’incarico per la cupola di San Pietro era sì un’operazione di ‘promozione’ del papato, ma al contempo una renovatio urbis”. Le affermazioni di David Chipperfield, in parte rese esplicite dalla sua Biennale di Architettura, non lasciano spazio al dubbio: è tempo di ritornare a intendere l’architettura come una disciplina complessa che si confronta con la storia e la memoria, con le città e i suoi cittadini e che, come affermava Aldo Rossi è da assumere come “opera d’arte collettiva”. La 13a Biennale di architettura veneziana nella sua molteplice rassegna di punti di vista tende a consegnarci tale messaggio senza mortificare o ridurre le specifiche poetiche e le singole espressioni di ogni architetto che però cercano di offrirsi come occasione di confronto più che come momento di presentazione professionale. Molti sono i temi che si possono rintracciare nella visita alla mostra tra le Corderie e i Giardini, alcuni sottolineano le intenzioni iniziali: partecipazione civile, riuso e sostenibilità, presenza della storia, progetti condivisi, senso e uso della città e dei suoi spazi, valore del paesaggio come risorsa strategica. Non si tratta tuttavia della celebrazione del tramonto della figura dell’archistar, piuttosto di individuare percorsi che leghino il progetto di architettura al suo senso urbano, per estendersi a volte alla scala territoriale come macrostrutture abitate (è il caso del progetto dei ponti architettonici per Stoccolma, pensati da Jean Nouvel e Mia Hägg per unire il centro storico di Gamla Stan all’isola più a sud della città; o all’avveniristico Global Hub AIR+PORT dello studio BIG/ Bjarke Ingels Group, sperimentale sintesi tipologica tra un aeroporto galleggiante e un porto navale previsto tra i ghiacci della Groenlandia a Nuuk). In generale in tutta la mostra si respira aria di complessità e questo può indurre a rendere più difficile e sfuggente il messaggio che non vuole essere di tipo ‘spettacolare’, ma fondativo. La camera scura di Norman Foster, Gateway, che accoglie i visitatori alle spalle dell’ingresso funge in fondo da manifesto introduttivo con la ‘storia’ proiettata sul pavimento nero nella forma di disegni, nomi dei protagonisti della cultura architettonica, messaggi, che si confrontano con lo spazio storico e contemporaneo dei raduni collettivi offerto da un serrato ritmo di immagini proiettate che ci avvolgono in alto, sui quattro lati delle pareti. Ordine e disordine per capire l’uso dell’architettura che a volte appare ‘improprio’, ma allo stesso tempo inarrestabile e spontaneo. Come appunto quello che avviene in uno dei monumenti architettonici contemporanei di Hong Kong: la Bank of China dello stesso Foster (in mostra ai Giardini) il cui piano terreno, pensato come ‘luogo pubblico’ e di passaggio sin dalla sua inaugurazione, si trasforma ogni domenica in una sorta di centro d’incontro della comunità delle colf filippine che, frammentandolo in microspazi con temporanei setti di cartone, attiva una straordinaria e pacifica varietà di attività sociali. In altro modo la riappropriazione di spazi urbani è rappresentata dal caso della Torre David a Caracas rappresentato dall’allestimento a cura di Urban Think Tank (Leone d’Oro quale miglior progetto della Mostra internazionale). Una torre per uffici rimasta incompleta è diventata una favela verticale nel centro urbano, simbolo del fallimento del neoliberismo e del self-empowerment delle classi povere, formando una nuova comunità spontanea, “modello ispiratore che riconosce la forza delle associazioni informali” (dalle motivazioni della Giuria), che ne ha trasformato gli spazi in una nuova casa collettiva con una propria identità. Valori di appartenenza restituiti dal progetto in mostra nella forma del ristorante di fantasia Gran Horizonte (punto d’incontro e di sosta lungo il percorso delle corderie) e dalla serie di fotografie di Iwan Baan che documentano momenti di vita della comunità spontanea. Partecipazione e tensione verso lo sviluppo urbano ‘dal basso’ sono testimoniati anche dalla ricerca di Elke Krasny, Hand –On Urbanism 1850-2012, e dal padiglione degli Stati Uniti d’America con il suo Spontaneous Interventions: Design Actions for the Common Good (menzione speciale della Giuria), dove una selezione di progetti ad opera di architetti, designer, urbanisti e semplici cittadini, configurano un mosaico di idee, proposte e realizzazioni, tese a “espandere la bellezza, il benessere, la funzionalità, la sicurezza e la sostenibilità delle città [dove] sperimentale, informale, alternativo, spontaneo, improvvisato, partecipativo, migliorativo, sono soltanto alcune delle parole che sono usate per descrivere questo movimento che si sta diffondendo sempre più a livello internazionale”. Ma dove forse al meglio si restituisce lo slogan del Commun Ground della Biennale veneziana è nell’Architecture possible here? Home-for-all del padiglione Giapponese (a cura di Toyo Ito, con allestimento di Akihisha Hirata, Sou Fujimoto, Kumiko Inui, Leone d’Oro per la migliore partecipazione nazionale), in cui la collaborazione e il confronto con la popolazione colpita dallo tsunami ha portato alla definizione di un nuovo centro d’incontro con la comunità locale, primo step di un programma in grado di generare la ‘voglia di casa’ in una regione devastata da una catastrofe nazionale. Tra uno sguardo alla storia e la ricerca di un confronto con il passato in termini attuali (l’omaggio alla magia compositiva dell’architetto barocco inglese Nicholas Hawksmoor, la bella mostra Facecity di Fulvio Irace dedicata al paesaggio urbano milanese del secondo dopoguerra, il Pasticcio di Caruso St. John teso a rintracciare una “continuità tra l’architettura contemporanea e quella antecedente al modernismo”, i ‘ritratti’ dei padiglioni della Biennale di Gabriele Basilico nell’allestimento di Diener & Diener, le radici storiche dichiarate da parte della ricerca sulla forma algoritmica di Zaha Hadid) i temi legati alla sostenibilità e al riuso sono emersi in più occasioni. Reduce/Reuse/Recycle – Architecture as Resource è il titolo-programma della Germania dove si dichiara apertamente che ogni costruzione è una risorsa con cui confrontarsi abbandonando la serialità tardo modernista della demolizione-progetto-ricostruzione; “secondo la logica di Reduce/Reuse/Recycle diverse strategie di ristrutturazione si possono classificare in base al rapporto fra vecchio e nuovo, fra l’intensità dell’intervento e il livello di modificazione. Trattando l’architettura edificata come una risorsa sostanziale e formale, si rende disponibile un’ampia gamma di possibilità e di approcci”. All’idea di sviluppo di una nuova consapevolezza rispetto al paesaggio urbano che ci circonda si riferisce anche la Svizzera, mentre la Russia, con i-city a cura di Sergei Tchoban (menzione speciale per l’allestimento e il tema trattato), dedica il suo padiglione, rivestito da pannelli metallici serigrafati da codici QR interattivi con tablet dati ai visitatori all’ingresso, al nuovo paesaggio in divenire del Centro d’innovazione di Skolkovo letto in rapporto alla storia delle città della scienza del Paese. Il verde, superata ogni dimensione semplicemente estetica, diventa fattore simbolico nel bosco di felci del Padiglione Italia di Luca Zevi che, oltre a sottolineare il valore dell’architettura per la produzione, emersa forse in modo inconsapevole dal solco della lezione di Adriano Olivetti, ci ricorda il valore del territorio e la necessità del suo mantenimento e gestione, oggi sempre più in abbandono anche in relazione alla flessione delle coltivazioni agricole (presidio di gestione del paesaggio in senso lato). Mentre ancora il verde (tradotto in piantumazioni di canne comuni) diventa strumento di riqualificazione strutturale nella prima partecipazione dell’Angola. In Beyond Entropy Angola, a cura di Stefano Rabolli Pansera e Paula Nascimento, si affronta il caso delle aree di conurbazione senza urbanità di Luanda, città ad alta densità senza avere però edifici a più livelli. In questa crescita esponenziale dell’occupazione del suolo, nella mancanza totale di infrastrutture basilari, l’idea di piantumare gli spazi interstiziali tra le costruzioni con la canna comune (Arundo Donax) che cresce anche lungo i nostri fiumi, permette di trasformare il ‘verde’ o meglio il paesaggio in strumento di riqualificazione operativo a breve periodo: la canna cresce con grande rapidità (raggiungerà a fine novembre il soffitto dello spazio all’isola di San Giorgio dove è ospitato l’allestimento) e i filamenti finissimi del suo rizoma alla radice filtrano in modo naturale le acque sporche, mentre il fusto rigido assorbe grandi quantità di CO2 rendendolo ideale per la biomassa. Quello proposto è un modello urbanistico sostenibile in grado di diventare esempio-guida per i Paesi sub-sahariani. Non mancano nella mostra allestimenti ‘hot spot’, emergenti dal punto di vista della presenza architettonica e scenica, tra cui la struttura metallica Arum di Zaha Hadid, e l’allestimento Copycat di Cino Zucchi (menzione d’onore) metafora di una sommatoria architettonica e allo stesso tempo luogo di memorie domestiche, di oggetti e immagini in grado di produrre efficaci rimandi di scala, di abitudini e usi. Nei pressi del Giardino delle Vergini si fronteggiano infine le due architetture di Alvaro Siza e di Eduardo Souto de Moura rapportate alla densità dell’ambiente urbano veneziano la prima e al paesaggio dell’intorno, incorniciato dalle sue aperture e rapporti di spazi, il secondo. Una mostra che racconta temi, che delinea possibili percorsi, più che mostrare la magnificenza e la spettacolarità di opere singole. D’altra parte come ci ricorda lo stesso Chipperfield “progettare architetture che siano parte di un panorama quotidiano è sicuramente una bella sfida, molto più rischiosa e affascinante della creazione di un maxigrattacielo”.
foto di sergio pirrone, matteo vercelloni
testo di matteo vercelloni - [gallery ids="7710,7711,7712,7713,7714,7715,7716,7717,7718,7719,7720,7721,7722,7723,7724"]Come, con la crisi economica si è detto basta agli eccessi finanziari è arrivato il momento di fermare anche gli eccessi degli architetti […] troppo spesso, ultimamente, gli architetti sono stati chiamati come maître patissier a preparare la torta di nozze del padrone di casa, ossia del committente. Che identifica nell’architetto lo specialista che, al meglio, attraverso un edificio può pubblicizzare il suo nome o il suo marchio. Che, di per sé, non è una colpa. Però quando a Michelangelo fu affidato l’incarico per la cupola di San Pietro era sì un’operazione di ‘promozione’ del papato, ma al contempo una renovatio urbis”. Le affermazioni di David Chipperfield, in parte rese esplicite dalla sua Biennale di Architettura, non lasciano spazio al dubbio: è tempo di ritornare a intendere l’architettura come una disciplina complessa che si confronta con la storia e la memoria, con le città e i suoi cittadini e che, come affermava Aldo Rossi è da assumere come “opera d’arte collettiva”. La 13a Biennale di architettura veneziana nella sua molteplice rassegna di punti di vista tende a consegnarci tale messaggio senza mortificare o ridurre le specifiche poetiche e le singole espressioni di ogni architetto che però cercano di offrirsi come occasione di confronto più che come momento di presentazione professionale. Molti sono i temi che si possono rintracciare nella visita alla mostra tra le Corderie e i Giardini, alcuni sottolineano le intenzioni iniziali: partecipazione civile, riuso e sostenibilità, presenza della storia, progetti condivisi, senso e uso della città e dei suoi spazi, valore del paesaggio come risorsa strategica. Non si tratta tuttavia della celebrazione del tramonto della figura dell’archistar, piuttosto di individuare percorsi che leghino il progetto di architettura al suo senso urbano, per estendersi a volte alla scala territoriale come macrostrutture abitate (è il caso del progetto dei ponti architettonici per Stoccolma, pensati da Jean Nouvel e Mia Hägg per unire il centro storico di Gamla Stan all’isola più a sud della città; o all’avveniristico Global Hub AIR+PORT dello studio BIG/ Bjarke Ingels Group, sperimentale sintesi tipologica tra un aeroporto galleggiante e un porto navale previsto tra i ghiacci della Groenlandia a Nuuk). In generale in tutta la mostra si respira aria di complessità e questo può indurre a rendere più difficile e sfuggente il messaggio che non vuole essere di tipo ‘spettacolare’, ma fondativo. La camera scura di Norman Foster, Gateway, che accoglie i visitatori alle spalle dell’ingresso funge in fondo da manifesto introduttivo con la ‘storia’ proiettata sul pavimento nero nella forma di disegni, nomi dei protagonisti della cultura architettonica, messaggi, che si confrontano con lo spazio storico e contemporaneo dei raduni collettivi offerto da un serrato ritmo di immagini proiettate che ci avvolgono in alto, sui quattro lati delle pareti. Ordine e disordine per capire l’uso dell’architettura che a volte appare ‘improprio’, ma allo stesso tempo inarrestabile e spontaneo. Come appunto quello che avviene in uno dei monumenti architettonici contemporanei di Hong Kong: la Bank of China dello stesso Foster (in mostra ai Giardini) il cui piano terreno, pensato come ‘luogo pubblico’ e di passaggio sin dalla sua inaugurazione, si trasforma ogni domenica in una sorta di centro d’incontro della comunità delle colf filippine che, frammentandolo in microspazi con temporanei setti di cartone, attiva una straordinaria e pacifica varietà di attività sociali. In altro modo la riappropriazione di spazi urbani è rappresentata dal caso della Torre David a Caracas rappresentato dall’allestimento a cura di Urban Think Tank (Leone d’Oro quale miglior progetto della Mostra internazionale). Una torre per uffici rimasta incompleta è diventata una favela verticale nel centro urbano, simbolo del fallimento del neoliberismo e del self-empowerment delle classi povere, formando una nuova comunità spontanea, “modello ispiratore che riconosce la forza delle associazioni informali” (dalle motivazioni della Giuria), che ne ha trasformato gli spazi in una nuova casa collettiva con una propria identità. Valori di appartenenza restituiti dal progetto in mostra nella forma del ristorante di fantasia Gran Horizonte (punto d’incontro e di sosta lungo il percorso delle corderie) e dalla serie di fotografie di Iwan Baan che documentano momenti di vita della comunità spontanea. Partecipazione e tensione verso lo sviluppo urbano ‘dal basso’ sono testimoniati anche dalla ricerca di Elke Krasny, Hand –On Urbanism 1850-2012, e dal padiglione degli Stati Uniti d’America con il suo Spontaneous Interventions: Design Actions for the Common Good (menzione speciale della Giuria), dove una selezione di progetti ad opera di architetti, designer, urbanisti e semplici cittadini, configurano un mosaico di idee, proposte e realizzazioni, tese a “espandere la bellezza, il benessere, la funzionalità, la sicurezza e la sostenibilità delle città [dove] sperimentale, informale, alternativo, spontaneo, improvvisato, partecipativo, migliorativo, sono soltanto alcune delle parole che sono usate per descrivere questo movimento che si sta diffondendo sempre più a livello internazionale”. Ma dove forse al meglio si restituisce lo slogan del Commun Ground della Biennale veneziana è nell’Architecture possible here? Home-for-all del padiglione Giapponese (a cura di Toyo Ito, con allestimento di Akihisha Hirata, Sou Fujimoto, Kumiko Inui, Leone d’Oro per la migliore partecipazione nazionale), in cui la collaborazione e il confronto con la popolazione colpita dallo tsunami ha portato alla definizione di un nuovo centro d’incontro con la comunità locale, primo step di un programma in grado di generare la ‘voglia di casa’ in una regione devastata da una catastrofe nazionale. Tra uno sguardo alla storia e la ricerca di un confronto con il passato in termini attuali (l’omaggio alla magia compositiva dell’architetto barocco inglese Nicholas Hawksmoor, la bella mostra Facecity di Fulvio Irace dedicata al paesaggio urbano milanese del secondo dopoguerra, il Pasticcio di Caruso St. John teso a rintracciare una “continuità tra l’architettura contemporanea e quella antecedente al modernismo”, i ‘ritratti’ dei padiglioni della Biennale di Gabriele Basilico nell’allestimento di Diener & Diener, le radici storiche dichiarate da parte della ricerca sulla forma algoritmica di Zaha Hadid) i temi legati alla sostenibilità e al riuso sono emersi in più occasioni. Reduce/Reuse/Recycle – Architecture as Resource è il titolo-programma della Germania dove si dichiara apertamente che ogni costruzione è una risorsa con cui confrontarsi abbandonando la serialità tardo modernista della demolizione-progetto-ricostruzione; “secondo la logica di Reduce/Reuse/Recycle diverse strategie di ristrutturazione si possono classificare in base al rapporto fra vecchio e nuovo, fra l’intensità dell’intervento e il livello di modificazione. Trattando l’architettura edificata come una risorsa sostanziale e formale, si rende disponibile un’ampia gamma di possibilità e di approcci”. All’idea di sviluppo di una nuova consapevolezza rispetto al paesaggio urbano che ci circonda si riferisce anche la Svizzera, mentre la Russia, con i-city a cura di Sergei Tchoban (menzione speciale per l’allestimento e il tema trattato), dedica il suo padiglione, rivestito da pannelli metallici serigrafati da codici QR interattivi con tablet dati ai visitatori all’ingresso, al nuovo paesaggio in divenire del Centro d’innovazione di Skolkovo letto in rapporto alla storia delle città della scienza del Paese. Il verde, superata ogni dimensione semplicemente estetica, diventa fattore simbolico nel bosco di felci del Padiglione Italia di Luca Zevi che, oltre a sottolineare il valore dell’architettura per la produzione, emersa forse in modo inconsapevole dal solco della lezione di Adriano Olivetti, ci ricorda il valore del territorio e la necessità del suo mantenimento e gestione, oggi sempre più in abbandono anche in relazione alla flessione delle coltivazioni agricole (presidio di gestione del paesaggio in senso lato). Mentre ancora il verde (tradotto in piantumazioni di canne comuni) diventa strumento di riqualificazione strutturale nella prima partecipazione dell’Angola. In Beyond Entropy Angola, a cura di Stefano Rabolli Pansera e Paula Nascimento, si affronta il caso delle aree di conurbazione senza urbanità di Luanda, città ad alta densità senza avere però edifici a più livelli. In questa crescita esponenziale dell’occupazione del suolo, nella mancanza totale di infrastrutture basilari, l’idea di piantumare gli spazi interstiziali tra le costruzioni con la canna comune (Arundo Donax) che cresce anche lungo i nostri fiumi, permette di trasformare il ‘verde’ o meglio il paesaggio in strumento di riqualificazione operativo a breve periodo: la canna cresce con grande rapidità (raggiungerà a fine novembre il soffitto dello spazio all’isola di San Giorgio dove è ospitato l’allestimento) e i filamenti finissimi del suo rizoma alla radice filtrano in modo naturale le acque sporche, mentre il fusto rigido assorbe grandi quantità di CO2 rendendolo ideale per la biomassa. Quello proposto è un modello urbanistico sostenibile in grado di diventare esempio-guida per i Paesi sub-sahariani. Non mancano nella mostra allestimenti ‘hot spot’, emergenti dal punto di vista della presenza architettonica e scenica, tra cui la struttura metallica Arum di Zaha Hadid, e l’allestimento Copycat di Cino Zucchi (menzione d’onore) metafora di una sommatoria architettonica e allo stesso tempo luogo di memorie domestiche, di oggetti e immagini in grado di produrre efficaci rimandi di scala, di abitudini e usi. Nei pressi del Giardino delle Vergini si fronteggiano infine le due architetture di Alvaro Siza e di Eduardo Souto de Moura rapportate alla densità dell’ambiente urbano veneziano la prima e al paesaggio dell’intorno, incorniciato dalle sue aperture e rapporti di spazi, il secondo. Una mostra che racconta temi, che delinea possibili percorsi, più che mostrare la magnificenza e la spettacolarità di opere singole. D’altra parte come ci ricorda lo stesso Chipperfield “progettare architetture che siano parte di un panorama quotidiano è sicuramente una bella sfida, molto più rischiosa e affascinante della creazione di un maxigrattacielo”.
foto di sergio pirrone, matteo vercelloni
testo di matteo vercelloni - [gallery ids="7710,7711,7712,7713,7714,7715,7716,7717,7718,7719,7720,7721,7722,7723,7724"]Come, con la crisi economica si è detto basta agli eccessi finanziari è arrivato il momento di fermare anche gli eccessi degli architetti […] troppo spesso, ultimamente, gli architetti sono stati chiamati come maître patissier a preparare la torta di nozze del padrone di casa, ossia del committente. Che identifica nell’architetto lo specialista che, al meglio, attraverso un edificio può pubblicizzare il suo nome o il suo marchio. Che, di per sé, non è una colpa. Però quando a Michelangelo fu affidato l’incarico per la cupola di San Pietro era sì un’operazione di ‘promozione’ del papato, ma al contempo una renovatio urbis”. Le affermazioni di David Chipperfield, in parte rese esplicite dalla sua Biennale di Architettura, non lasciano spazio al dubbio: è tempo di ritornare a intendere l’architettura come una disciplina complessa che si confronta con la storia e la memoria, con le città e i suoi cittadini e che, come affermava Aldo Rossi è da assumere come “opera d’arte collettiva”. La 13a Biennale di architettura veneziana nella sua molteplice rassegna di punti di vista tende a consegnarci tale messaggio senza mortificare o ridurre le specifiche poetiche e le singole espressioni di ogni architetto che però cercano di offrirsi come occasione di confronto più che come momento di presentazione professionale. Molti sono i temi che si possono rintracciare nella visita alla mostra tra le Corderie e i Giardini, alcuni sottolineano le intenzioni iniziali: partecipazione civile, riuso e sostenibilità, presenza della storia, progetti condivisi, senso e uso della città e dei suoi spazi, valore del paesaggio come risorsa strategica. Non si tratta tuttavia della celebrazione del tramonto della figura dell’archistar, piuttosto di individuare percorsi che leghino il progetto di architettura al suo senso urbano, per estendersi a volte alla scala territoriale come macrostrutture abitate (è il caso del progetto dei ponti architettonici per Stoccolma, pensati da Jean Nouvel e Mia Hägg per unire il centro storico di Gamla Stan all’isola più a sud della città; o all’avveniristico Global Hub AIR+PORT dello studio BIG/ Bjarke Ingels Group, sperimentale sintesi tipologica tra un aeroporto galleggiante e un porto navale previsto tra i ghiacci della Groenlandia a Nuuk). In generale in tutta la mostra si respira aria di complessità e questo può indurre a rendere più difficile e sfuggente il messaggio che non vuole essere di tipo ‘spettacolare’, ma fondativo. La camera scura di Norman Foster, Gateway, che accoglie i visitatori alle spalle dell’ingresso funge in fondo da manifesto introduttivo con la ‘storia’ proiettata sul pavimento nero nella forma di disegni, nomi dei protagonisti della cultura architettonica, messaggi, che si confrontano con lo spazio storico e contemporaneo dei raduni collettivi offerto da un serrato ritmo di immagini proiettate che ci avvolgono in alto, sui quattro lati delle pareti. Ordine e disordine per capire l’uso dell’architettura che a volte appare ‘improprio’, ma allo stesso tempo inarrestabile e spontaneo. Come appunto quello che avviene in uno dei monumenti architettonici contemporanei di Hong Kong: la Bank of China dello stesso Foster (in mostra ai Giardini) il cui piano terreno, pensato come ‘luogo pubblico’ e di passaggio sin dalla sua inaugurazione, si trasforma ogni domenica in una sorta di centro d’incontro della comunità delle colf filippine che, frammentandolo in microspazi con temporanei setti di cartone, attiva una straordinaria e pacifica varietà di attività sociali. In altro modo la riappropriazione di spazi urbani è rappresentata dal caso della Torre David a Caracas rappresentato dall’allestimento a cura di Urban Think Tank (Leone d’Oro quale miglior progetto della Mostra internazionale). Una torre per uffici rimasta incompleta è diventata una favela verticale nel centro urbano, simbolo del fallimento del neoliberismo e del self-empowerment delle classi povere, formando una nuova comunità spontanea, “modello ispiratore che riconosce la forza delle associazioni informali” (dalle motivazioni della Giuria), che ne ha trasformato gli spazi in una nuova casa collettiva con una propria identità. Valori di appartenenza restituiti dal progetto in mostra nella forma del ristorante di fantasia Gran Horizonte (punto d’incontro e di sosta lungo il percorso delle corderie) e dalla serie di fotografie di Iwan Baan che documentano momenti di vita della comunità spontanea. Partecipazione e tensione verso lo sviluppo urbano ‘dal basso’ sono testimoniati anche dalla ricerca di Elke Krasny, Hand –On Urbanism 1850-2012, e dal padiglione degli Stati Uniti d’America con il suo Spontaneous Interventions: Design Actions for the Common Good (menzione speciale della Giuria), dove una selezione di progetti ad opera di architetti, designer, urbanisti e semplici cittadini, configurano un mosaico di idee, proposte e realizzazioni, tese a “espandere la bellezza, il benessere, la funzionalità, la sicurezza e la sostenibilità delle città [dove] sperimentale, informale, alternativo, spontaneo, improvvisato, partecipativo, migliorativo, sono soltanto alcune delle parole che sono usate per descrivere questo movimento che si sta diffondendo sempre più a livello internazionale”. Ma dove forse al meglio si restituisce lo slogan del Commun Ground della Biennale veneziana è nell’Architecture possible here? Home-for-all del padiglione Giapponese (a cura di Toyo Ito, con allestimento di Akihisha Hirata, Sou Fujimoto, Kumiko Inui, Leone d’Oro per la migliore partecipazione nazionale), in cui la collaborazione e il confronto con la popolazione colpita dallo tsunami ha portato alla definizione di un nuovo centro d’incontro con la comunità locale, primo step di un programma in grado di generare la ‘voglia di casa’ in una regione devastata da una catastrofe nazionale. Tra uno sguardo alla storia e la ricerca di un confronto con il passato in termini attuali (l’omaggio alla magia compositiva dell’architetto barocco inglese Nicholas Hawksmoor, la bella mostra Facecity di Fulvio Irace dedicata al paesaggio urbano milanese del secondo dopoguerra, il Pasticcio di Caruso St. John teso a rintracciare una “continuità tra l’architettura contemporanea e quella antecedente al modernismo”, i ‘ritratti’ dei padiglioni della Biennale di Gabriele Basilico nell’allestimento di Diener & Diener, le radici storiche dichiarate da parte della ricerca sulla forma algoritmica di Zaha Hadid) i temi legati alla sostenibilità e al riuso sono emersi in più occasioni. Reduce/Reuse/Recycle – Architecture as Resource è il titolo-programma della Germania dove si dichiara apertamente che ogni costruzione è una risorsa con cui confrontarsi abbandonando la serialità tardo modernista della demolizione-progetto-ricostruzione; “secondo la logica di Reduce/Reuse/Recycle diverse strategie di ristrutturazione si possono classificare in base al rapporto fra vecchio e nuovo, fra l’intensità dell’intervento e il livello di modificazione. Trattando l’architettura edificata come una risorsa sostanziale e formale, si rende disponibile un’ampia gamma di possibilità e di approcci”. All’idea di sviluppo di una nuova consapevolezza rispetto al paesaggio urbano che ci circonda si riferisce anche la Svizzera, mentre la Russia, con i-city a cura di Sergei Tchoban (menzione speciale per l’allestimento e il tema trattato), dedica il suo padiglione, rivestito da pannelli metallici serigrafati da codici QR interattivi con tablet dati ai visitatori all’ingresso, al nuovo paesaggio in divenire del Centro d’innovazione di Skolkovo letto in rapporto alla storia delle città della scienza del Paese. Il verde, superata ogni dimensione semplicemente estetica, diventa fattore simbolico nel bosco di felci del Padiglione Italia di Luca Zevi che, oltre a sottolineare il valore dell’architettura per la produzione, emersa forse in modo inconsapevole dal solco della lezione di Adriano Olivetti, ci ricorda il valore del territorio e la necessità del suo mantenimento e gestione, oggi sempre più in abbandono anche in relazione alla flessione delle coltivazioni agricole (presidio di gestione del paesaggio in senso lato). Mentre ancora il verde (tradotto in piantumazioni di canne comuni) diventa strumento di riqualificazione strutturale nella prima partecipazione dell’Angola. In Beyond Entropy Angola, a cura di Stefano Rabolli Pansera e Paula Nascimento, si affronta il caso delle aree di conurbazione senza urbanità di Luanda, città ad alta densità senza avere però edifici a più livelli. In questa crescita esponenziale dell’occupazione del suolo, nella mancanza totale di infrastrutture basilari, l’idea di piantumare gli spazi interstiziali tra le costruzioni con la canna comune (Arundo Donax) che cresce anche lungo i nostri fiumi, permette di trasformare il ‘verde’ o meglio il paesaggio in strumento di riqualificazione operativo a breve periodo: la canna cresce con grande rapidità (raggiungerà a fine novembre il soffitto dello spazio all’isola di San Giorgio dove è ospitato l’allestimento) e i filamenti finissimi del suo rizoma alla radice filtrano in modo naturale le acque sporche, mentre il fusto rigido assorbe grandi quantità di CO2 rendendolo ideale per la biomassa. Quello proposto è un modello urbanistico sostenibile in grado di diventare esempio-guida per i Paesi sub-sahariani. Non mancano nella mostra allestimenti ‘hot spot’, emergenti dal punto di vista della presenza architettonica e scenica, tra cui la struttura metallica Arum di Zaha Hadid, e l’allestimento Copycat di Cino Zucchi (menzione d’onore) metafora di una sommatoria architettonica e allo stesso tempo luogo di memorie domestiche, di oggetti e immagini in grado di produrre efficaci rimandi di scala, di abitudini e usi. Nei pressi del Giardino delle Vergini si fronteggiano infine le due architetture di Alvaro Siza e di Eduardo Souto de Moura rapportate alla densità dell’ambiente urbano veneziano la prima e al paesaggio dell’intorno, incorniciato dalle sue aperture e rapporti di spazi, il secondo. Una mostra che racconta temi, che delinea possibili percorsi, più che mostrare la magnificenza e la spettacolarità di opere singole. D’altra parte come ci ricorda lo stesso Chipperfield “progettare architetture che siano parte di un panorama quotidiano è sicuramente una bella sfida, molto più rischiosa e affascinante della creazione di un maxigrattacielo”.
foto di sergio pirrone, matteo vercelloni
testo di matteo vercelloni - [gallery ids="7710,7711,7712,7713,7714,7715,7716,7717,7718,7719,7720,7721,7722,7723,7724"]Come, con la crisi economica si è detto basta agli eccessi finanziari è arrivato il momento di fermare anche gli eccessi degli architetti […] troppo spesso, ultimamente, gli architetti sono stati chiamati come maître patissier a preparare la torta di nozze del padrone di casa, ossia del committente. Che identifica nell’architetto lo specialista che, al meglio, attraverso un edificio può pubblicizzare il suo nome o il suo marchio. Che, di per sé, non è una colpa. Però quando a Michelangelo fu affidato l’incarico per la cupola di San Pietro era sì un’operazione di ‘promozione’ del papato, ma al contempo una renovatio urbis”. Le affermazioni di David Chipperfield, in parte rese esplicite dalla sua Biennale di Architettura, non lasciano spazio al dubbio: è tempo di ritornare a intendere l’architettura come una disciplina complessa che si confronta con la storia e la memoria, con le città e i suoi cittadini e che, come affermava Aldo Rossi è da assumere come “opera d’arte collettiva”. La 13a Biennale di architettura veneziana nella sua molteplice rassegna di punti di vista tende a consegnarci tale messaggio senza mortificare o ridurre le specifiche poetiche e le singole espressioni di ogni architetto che però cercano di offrirsi come occasione di confronto più che come momento di presentazione professionale. Molti sono i temi che si possono rintracciare nella visita alla mostra tra le Corderie e i Giardini, alcuni sottolineano le intenzioni iniziali: partecipazione civile, riuso e sostenibilità, presenza della storia, progetti condivisi, senso e uso della città e dei suoi spazi, valore del paesaggio come risorsa strategica. Non si tratta tuttavia della celebrazione del tramonto della figura dell’archistar, piuttosto di individuare percorsi che leghino il progetto di architettura al suo senso urbano, per estendersi a volte alla scala territoriale come macrostrutture abitate (è il caso del progetto dei ponti architettonici per Stoccolma, pensati da Jean Nouvel e Mia Hägg per unire il centro storico di Gamla Stan all’isola più a sud della città; o all’avveniristico Global Hub AIR+PORT dello studio BIG/ Bjarke Ingels Group, sperimentale sintesi tipologica tra un aeroporto galleggiante e un porto navale previsto tra i ghiacci della Groenlandia a Nuuk). In generale in tutta la mostra si respira aria di complessità e questo può indurre a rendere più difficile e sfuggente il messaggio che non vuole essere di tipo ‘spettacolare’, ma fondativo. La camera scura di Norman Foster, Gateway, che accoglie i visitatori alle spalle dell’ingresso funge in fondo da manifesto introduttivo con la ‘storia’ proiettata sul pavimento nero nella forma di disegni, nomi dei protagonisti della cultura architettonica, messaggi, che si confrontano con lo spazio storico e contemporaneo dei raduni collettivi offerto da un serrato ritmo di immagini proiettate che ci avvolgono in alto, sui quattro lati delle pareti. Ordine e disordine per capire l’uso dell’architettura che a volte appare ‘improprio’, ma allo stesso tempo inarrestabile e spontaneo. Come appunto quello che avviene in uno dei monumenti architettonici contemporanei di Hong Kong: la Bank of China dello stesso Foster (in mostra ai Giardini) il cui piano terreno, pensato come ‘luogo pubblico’ e di passaggio sin dalla sua inaugurazione, si trasforma ogni domenica in una sorta di centro d’incontro della comunità delle colf filippine che, frammentandolo in microspazi con temporanei setti di cartone, attiva una straordinaria e pacifica varietà di attività sociali. In altro modo la riappropriazione di spazi urbani è rappresentata dal caso della Torre David a Caracas rappresentato dall’allestimento a cura di Urban Think Tank (Leone d’Oro quale miglior progetto della Mostra internazionale). Una torre per uffici rimasta incompleta è diventata una favela verticale nel centro urbano, simbolo del fallimento del neoliberismo e del self-empowerment delle classi povere, formando una nuova comunità spontanea, “modello ispiratore che riconosce la forza delle associazioni informali” (dalle motivazioni della Giuria), che ne ha trasformato gli spazi in una nuova casa collettiva con una propria identità. Valori di appartenenza restituiti dal progetto in mostra nella forma del ristorante di fantasia Gran Horizonte (punto d’incontro e di sosta lungo il percorso delle corderie) e dalla serie di fotografie di Iwan Baan che documentano momenti di vita della comunità spontanea. Partecipazione e tensione verso lo sviluppo urbano ‘dal basso’ sono testimoniati anche dalla ricerca di Elke Krasny, Hand –On Urbanism 1850-2012, e dal padiglione degli Stati Uniti d’America con il suo Spontaneous Interventions: Design Actions for the Common Good (menzione speciale della Giuria), dove una selezione di progetti ad opera di architetti, designer, urbanisti e semplici cittadini, configurano un mosaico di idee, proposte e realizzazioni, tese a “espandere la bellezza, il benessere, la funzionalità, la sicurezza e la sostenibilità delle città [dove] sperimentale, informale, alternativo, spontaneo, improvvisato, partecipativo, migliorativo, sono soltanto alcune delle parole che sono usate per descrivere questo movimento che si sta diffondendo sempre più a livello internazionale”. Ma dove forse al meglio si restituisce lo slogan del Commun Ground della Biennale veneziana è nell’Architecture possible here? Home-for-all del padiglione Giapponese (a cura di Toyo Ito, con allestimento di Akihisha Hirata, Sou Fujimoto, Kumiko Inui, Leone d’Oro per la migliore partecipazione nazionale), in cui la collaborazione e il confronto con la popolazione colpita dallo tsunami ha portato alla definizione di un nuovo centro d’incontro con la comunità locale, primo step di un programma in grado di generare la ‘voglia di casa’ in una regione devastata da una catastrofe nazionale. Tra uno sguardo alla storia e la ricerca di un confronto con il passato in termini attuali (l’omaggio alla magia compositiva dell’architetto barocco inglese Nicholas Hawksmoor, la bella mostra Facecity di Fulvio Irace dedicata al paesaggio urbano milanese del secondo dopoguerra, il Pasticcio di Caruso St. John teso a rintracciare una “continuità tra l’architettura contemporanea e quella antecedente al modernismo”, i ‘ritratti’ dei padiglioni della Biennale di Gabriele Basilico nell’allestimento di Diener & Diener, le radici storiche dichiarate da parte della ricerca sulla forma algoritmica di Zaha Hadid) i temi legati alla sostenibilità e al riuso sono emersi in più occasioni. Reduce/Reuse/Recycle – Architecture as Resource è il titolo-programma della Germania dove si dichiara apertamente che ogni costruzione è una risorsa con cui confrontarsi abbandonando la serialità tardo modernista della demolizione-progetto-ricostruzione; “secondo la logica di Reduce/Reuse/Recycle diverse strategie di ristrutturazione si possono classificare in base al rapporto fra vecchio e nuovo, fra l’intensità dell’intervento e il livello di modificazione. Trattando l’architettura edificata come una risorsa sostanziale e formale, si rende disponibile un’ampia gamma di possibilità e di approcci”. All’idea di sviluppo di una nuova consapevolezza rispetto al paesaggio urbano che ci circonda si riferisce anche la Svizzera, mentre la Russia, con i-city a cura di Sergei Tchoban (menzione speciale per l’allestimento e il tema trattato), dedica il suo padiglione, rivestito da pannelli metallici serigrafati da codici QR interattivi con tablet dati ai visitatori all’ingresso, al nuovo paesaggio in divenire del Centro d’innovazione di Skolkovo letto in rapporto alla storia delle città della scienza del Paese. Il verde, superata ogni dimensione semplicemente estetica, diventa fattore simbolico nel bosco di felci del Padiglione Italia di Luca Zevi che, oltre a sottolineare il valore dell’architettura per la produzione, emersa forse in modo inconsapevole dal solco della lezione di Adriano Olivetti, ci ricorda il valore del territorio e la necessità del suo mantenimento e gestione, oggi sempre più in abbandono anche in relazione alla flessione delle coltivazioni agricole (presidio di gestione del paesaggio in senso lato). Mentre ancora il verde (tradotto in piantumazioni di canne comuni) diventa strumento di riqualificazione strutturale nella prima partecipazione dell’Angola. In Beyond Entropy Angola, a cura di Stefano Rabolli Pansera e Paula Nascimento, si affronta il caso delle aree di conurbazione senza urbanità di Luanda, città ad alta densità senza avere però edifici a più livelli. In questa crescita esponenziale dell’occupazione del suolo, nella mancanza totale di infrastrutture basilari, l’idea di piantumare gli spazi interstiziali tra le costruzioni con la canna comune (Arundo Donax) che cresce anche lungo i nostri fiumi, permette di trasformare il ‘verde’ o meglio il paesaggio in strumento di riqualificazione operativo a breve periodo: la canna cresce con grande rapidità (raggiungerà a fine novembre il soffitto dello spazio all’isola di San Giorgio dove è ospitato l’allestimento) e i filamenti finissimi del suo rizoma alla radice filtrano in modo naturale le acque sporche, mentre il fusto rigido assorbe grandi quantità di CO2 rendendolo ideale per la biomassa. Quello proposto è un modello urbanistico sostenibile in grado di diventare esempio-guida per i Paesi sub-sahariani. Non mancano nella mostra allestimenti ‘hot spot’, emergenti dal punto di vista della presenza architettonica e scenica, tra cui la struttura metallica Arum di Zaha Hadid, e l’allestimento Copycat di Cino Zucchi (menzione d’onore) metafora di una sommatoria architettonica e allo stesso tempo luogo di memorie domestiche, di oggetti e immagini in grado di produrre efficaci rimandi di scala, di abitudini e usi. Nei pressi del Giardino delle Vergini si fronteggiano infine le due architetture di Alvaro Siza e di Eduardo Souto de Moura rapportate alla densità dell’ambiente urbano veneziano la prima e al paesaggio dell’intorno, incorniciato dalle sue aperture e rapporti di spazi, il secondo. Una mostra che racconta temi, che delinea possibili percorsi, più che mostrare la magnificenza e la spettacolarità di opere singole. D’altra parte come ci ricorda lo stesso Chipperfield “progettare architetture che siano parte di un panorama quotidiano è sicuramente una bella sfida, molto più rischiosa e affascinante della creazione di un maxigrattacielo”.
foto di sergio pirrone, matteo vercelloni
testo di matteo vercelloni - [gallery ids="7710,7711,7712,7713,7714,7715,7716,7717,7718,7719,7720,7721,7722,7723,7724"]Come, con la crisi economica si è detto basta agli eccessi finanziari è arrivato il momento di fermare anche gli eccessi degli architetti […] troppo spesso, ultimamente, gli architetti sono stati chiamati come maître patissier a preparare la torta di nozze del padrone di casa, ossia del committente. Che identifica nell’architetto lo specialista che, al meglio, attraverso un edificio può pubblicizzare il suo nome o il suo marchio. Che, di per sé, non è una colpa. Però quando a Michelangelo fu affidato l’incarico per la cupola di San Pietro era sì un’operazione di ‘promozione’ del papato, ma al contempo una renovatio urbis”. Le affermazioni di David Chipperfield, in parte rese esplicite dalla sua Biennale di Architettura, non lasciano spazio al dubbio: è tempo di ritornare a intendere l’architettura come una disciplina complessa che si confronta con la storia e la memoria, con le città e i suoi cittadini e che, come affermava Aldo Rossi è da assumere come “opera d’arte collettiva”. La 13a Biennale di architettura veneziana nella sua molteplice rassegna di punti di vista tende a consegnarci tale messaggio senza mortificare o ridurre le specifiche poetiche e le singole espressioni di ogni architetto che però cercano di offrirsi come occasione di confronto più che come momento di presentazione professionale. Molti sono i temi che si possono rintracciare nella visita alla mostra tra le Corderie e i Giardini, alcuni sottolineano le intenzioni iniziali: partecipazione civile, riuso e sostenibilità, presenza della storia, progetti condivisi, senso e uso della città e dei suoi spazi, valore del paesaggio come risorsa strategica. Non si tratta tuttavia della celebrazione del tramonto della figura dell’archistar, piuttosto di individuare percorsi che leghino il progetto di architettura al suo senso urbano, per estendersi a volte alla scala territoriale come macrostrutture abitate (è il caso del progetto dei ponti architettonici per Stoccolma, pensati da Jean Nouvel e Mia Hägg per unire il centro storico di Gamla Stan all’isola più a sud della città; o all’avveniristico Global Hub AIR+PORT dello studio BIG/ Bjarke Ingels Group, sperimentale sintesi tipologica tra un aeroporto galleggiante e un porto navale previsto tra i ghiacci della Groenlandia a Nuuk). In generale in tutta la mostra si respira aria di complessità e questo può indurre a rendere più difficile e sfuggente il messaggio che non vuole essere di tipo ‘spettacolare’, ma fondativo. La camera scura di Norman Foster, Gateway, che accoglie i visitatori alle spalle dell’ingresso funge in fondo da manifesto introduttivo con la ‘storia’ proiettata sul pavimento nero nella forma di disegni, nomi dei protagonisti della cultura architettonica, messaggi, che si confrontano con lo spazio storico e contemporaneo dei raduni collettivi offerto da un serrato ritmo di immagini proiettate che ci avvolgono in alto, sui quattro lati delle pareti. Ordine e disordine per capire l’uso dell’architettura che a volte appare ‘improprio’, ma allo stesso tempo inarrestabile e spontaneo. Come appunto quello che avviene in uno dei monumenti architettonici contemporanei di Hong Kong: la Bank of China dello stesso Foster (in mostra ai Giardini) il cui piano terreno, pensato come ‘luogo pubblico’ e di passaggio sin dalla sua inaugurazione, si trasforma ogni domenica in una sorta di centro d’incontro della comunità delle colf filippine che, frammentandolo in microspazi con temporanei setti di cartone, attiva una straordinaria e pacifica varietà di attività sociali. In altro modo la riappropriazione di spazi urbani è rappresentata dal caso della Torre David a Caracas rappresentato dall’allestimento a cura di Urban Think Tank (Leone d’Oro quale miglior progetto della Mostra internazionale). Una torre per uffici rimasta incompleta è diventata una favela verticale nel centro urbano, simbolo del fallimento del neoliberismo e del self-empowerment delle classi povere, formando una nuova comunità spontanea, “modello ispiratore che riconosce la forza delle associazioni informali” (dalle motivazioni della Giuria), che ne ha trasformato gli spazi in una nuova casa collettiva con una propria identità. Valori di appartenenza restituiti dal progetto in mostra nella forma del ristorante di fantasia Gran Horizonte (punto d’incontro e di sosta lungo il percorso delle corderie) e dalla serie di fotografie di Iwan Baan che documentano momenti di vita della comunità spontanea. Partecipazione e tensione verso lo sviluppo urbano ‘dal basso’ sono testimoniati anche dalla ricerca di Elke Krasny, Hand –On Urbanism 1850-2012, e dal padiglione degli Stati Uniti d’America con il suo Spontaneous Interventions: Design Actions for the Common Good (menzione speciale della Giuria), dove una selezione di progetti ad opera di architetti, designer, urbanisti e semplici cittadini, configurano un mosaico di idee, proposte e realizzazioni, tese a “espandere la bellezza, il benessere, la funzionalità, la sicurezza e la sostenibilità delle città [dove] sperimentale, informale, alternativo, spontaneo, improvvisato, partecipativo, migliorativo, sono soltanto alcune delle parole che sono usate per descrivere questo movimento che si sta diffondendo sempre più a livello internazionale”. Ma dove forse al meglio si restituisce lo slogan del Commun Ground della Biennale veneziana è nell’Architecture possible here? Home-for-all del padiglione Giapponese (a cura di Toyo Ito, con allestimento di Akihisha Hirata, Sou Fujimoto, Kumiko Inui, Leone d’Oro per la migliore partecipazione nazionale), in cui la collaborazione e il confronto con la popolazione colpita dallo tsunami ha portato alla definizione di un nuovo centro d’incontro con la comunità locale, primo step di un programma in grado di generare la ‘voglia di casa’ in una regione devastata da una catastrofe nazionale. Tra uno sguardo alla storia e la ricerca di un confronto con il passato in termini attuali (l’omaggio alla magia compositiva dell’architetto barocco inglese Nicholas Hawksmoor, la bella mostra Facecity di Fulvio Irace dedicata al paesaggio urbano milanese del secondo dopoguerra, il Pasticcio di Caruso St. John teso a rintracciare una “continuità tra l’architettura contemporanea e quella antecedente al modernismo”, i ‘ritratti’ dei padiglioni della Biennale di Gabriele Basilico nell’allestimento di Diener & Diener, le radici storiche dichiarate da parte della ricerca sulla forma algoritmica di Zaha Hadid) i temi legati alla sostenibilità e al riuso sono emersi in più occasioni. Reduce/Reuse/Recycle – Architecture as Resource è il titolo-programma della Germania dove si dichiara apertamente che ogni costruzione è una risorsa con cui confrontarsi abbandonando la serialità tardo modernista della demolizione-progetto-ricostruzione; “secondo la logica di Reduce/Reuse/Recycle diverse strategie di ristrutturazione si possono classificare in base al rapporto fra vecchio e nuovo, fra l’intensità dell’intervento e il livello di modificazione. Trattando l’architettura edificata come una risorsa sostanziale e formale, si rende disponibile un’ampia gamma di possibilità e di approcci”. All’idea di sviluppo di una nuova consapevolezza rispetto al paesaggio urbano che ci circonda si riferisce anche la Svizzera, mentre la Russia, con i-city a cura di Sergei Tchoban (menzione speciale per l’allestimento e il tema trattato), dedica il suo padiglione, rivestito da pannelli metallici serigrafati da codici QR interattivi con tablet dati ai visitatori all’ingresso, al nuovo paesaggio in divenire del Centro d’innovazione di Skolkovo letto in rapporto alla storia delle città della scienza del Paese. Il verde, superata ogni dimensione semplicemente estetica, diventa fattore simbolico nel bosco di felci del Padiglione Italia di Luca Zevi che, oltre a sottolineare il valore dell’architettura per la produzione, emersa forse in modo inconsapevole dal solco della lezione di Adriano Olivetti, ci ricorda il valore del territorio e la necessità del suo mantenimento e gestione, oggi sempre più in abbandono anche in relazione alla flessione delle coltivazioni agricole (presidio di gestione del paesaggio in senso lato). Mentre ancora il verde (tradotto in piantumazioni di canne comuni) diventa strumento di riqualificazione strutturale nella prima partecipazione dell’Angola. In Beyond Entropy Angola, a cura di Stefano Rabolli Pansera e Paula Nascimento, si affronta il caso delle aree di conurbazione senza urbanità di Luanda, città ad alta densità senza avere però edifici a più livelli. In questa crescita esponenziale dell’occupazione del suolo, nella mancanza totale di infrastrutture basilari, l’idea di piantumare gli spazi interstiziali tra le costruzioni con la canna comune (Arundo Donax) che cresce anche lungo i nostri fiumi, permette di trasformare il ‘verde’ o meglio il paesaggio in strumento di riqualificazione operativo a breve periodo: la canna cresce con grande rapidità (raggiungerà a fine novembre il soffitto dello spazio all’isola di San Giorgio dove è ospitato l’allestimento) e i filamenti finissimi del suo rizoma alla radice filtrano in modo naturale le acque sporche, mentre il fusto rigido assorbe grandi quantità di CO2 rendendolo ideale per la biomassa. Quello proposto è un modello urbanistico sostenibile in grado di diventare esempio-guida per i Paesi sub-sahariani. Non mancano nella mostra allestimenti ‘hot spot’, emergenti dal punto di vista della presenza architettonica e scenica, tra cui la struttura metallica Arum di Zaha Hadid, e l’allestimento Copycat di Cino Zucchi (menzione d’onore) metafora di una sommatoria architettonica e allo stesso tempo luogo di memorie domestiche, di oggetti e immagini in grado di produrre efficaci rimandi di scala, di abitudini e usi. Nei pressi del Giardino delle Vergini si fronteggiano infine le due architetture di Alvaro Siza e di Eduardo Souto de Moura rapportate alla densità dell’ambiente urbano veneziano la prima e al paesaggio dell’intorno, incorniciato dalle sue aperture e rapporti di spazi, il secondo. Una mostra che racconta temi, che delinea possibili percorsi, più che mostrare la magnificenza e la spettacolarità di opere singole. D’altra parte come ci ricorda lo stesso Chipperfield “progettare architetture che siano parte di un panorama quotidiano è sicuramente una bella sfida, molto più rischiosa e affascinante della creazione di un maxigrattacielo”.
foto di sergio pirrone, matteo vercelloni
testo di matteo vercelloni - [gallery ids="7710,7711,7712,7713,7714,7715,7716,7717,7718,7719,7720,7721,7722,7723,7724"]Come, con la crisi economica si è detto basta agli eccessi finanziari è arrivato il momento di fermare anche gli eccessi degli architetti […] troppo spesso, ultimamente, gli architetti sono stati chiamati come maître patissier a preparare la torta di nozze del padrone di casa, ossia del committente. Che identifica nell’architetto lo specialista che, al meglio, attraverso un edificio può pubblicizzare il suo nome o il suo marchio. Che, di per sé, non è una colpa. Però quando a Michelangelo fu affidato l’incarico per la cupola di San Pietro era sì un’operazione di ‘promozione’ del papato, ma al contempo una renovatio urbis”. Le affermazioni di David Chipperfield, in parte rese esplicite dalla sua Biennale di Architettura, non lasciano spazio al dubbio: è tempo di ritornare a intendere l’architettura come una disciplina complessa che si confronta con la storia e la memoria, con le città e i suoi cittadini e che, come affermava Aldo Rossi è da assumere come “opera d’arte collettiva”. La 13a Biennale di architettura veneziana nella sua molteplice rassegna di punti di vista tende a consegnarci tale messaggio senza mortificare o ridurre le specifiche poetiche e le singole espressioni di ogni architetto che però cercano di offrirsi come occasione di confronto più che come momento di presentazione professionale. Molti sono i temi che si possono rintracciare nella visita alla mostra tra le Corderie e i Giardini, alcuni sottolineano le intenzioni iniziali: partecipazione civile, riuso e sostenibilità, presenza della storia, progetti condivisi, senso e uso della città e dei suoi spazi, valore del paesaggio come risorsa strategica. Non si tratta tuttavia della celebrazione del tramonto della figura dell’archistar, piuttosto di individuare percorsi che leghino il progetto di architettura al suo senso urbano, per estendersi a volte alla scala territoriale come macrostrutture abitate (è il caso del progetto dei ponti architettonici per Stoccolma, pensati da Jean Nouvel e Mia Hägg per unire il centro storico di Gamla Stan all’isola più a sud della città; o all’avveniristico Global Hub AIR+PORT dello studio BIG/ Bjarke Ingels Group, sperimentale sintesi tipologica tra un aeroporto galleggiante e un porto navale previsto tra i ghiacci della Groenlandia a Nuuk). In generale in tutta la mostra si respira aria di complessità e questo può indurre a rendere più difficile e sfuggente il messaggio che non vuole essere di tipo ‘spettacolare’, ma fondativo. La camera scura di Norman Foster, Gateway, che accoglie i visitatori alle spalle dell’ingresso funge in fondo da manifesto introduttivo con la ‘storia’ proiettata sul pavimento nero nella forma di disegni, nomi dei protagonisti della cultura architettonica, messaggi, che si confrontano con lo spazio storico e contemporaneo dei raduni collettivi offerto da un serrato ritmo di immagini proiettate che ci avvolgono in alto, sui quattro lati delle pareti. Ordine e disordine per capire l’uso dell’architettura che a volte appare ‘improprio’, ma allo stesso tempo inarrestabile e spontaneo. Come appunto quello che avviene in uno dei monumenti architettonici contemporanei di Hong Kong: la Bank of China dello stesso Foster (in mostra ai Giardini) il cui piano terreno, pensato come ‘luogo pubblico’ e di passaggio sin dalla sua inaugurazione, si trasforma ogni domenica in una sorta di centro d’incontro della comunità delle colf filippine che, frammentandolo in microspazi con temporanei setti di cartone, attiva una straordinaria e pacifica varietà di attività sociali. In altro modo la riappropriazione di spazi urbani è rappresentata dal caso della Torre David a Caracas rappresentato dall’allestimento a cura di Urban Think Tank (Leone d’Oro quale miglior progetto della Mostra internazionale). Una torre per uffici rimasta incompleta è diventata una favela verticale nel centro urbano, simbolo del fallimento del neoliberismo e del self-empowerment delle classi povere, formando una nuova comunità spontanea, “modello ispiratore che riconosce la forza delle associazioni informali” (dalle motivazioni della Giuria), che ne ha trasformato gli spazi in una nuova casa collettiva con una propria identità. Valori di appartenenza restituiti dal progetto in mostra nella forma del ristorante di fantasia Gran Horizonte (punto d’incontro e di sosta lungo il percorso delle corderie) e dalla serie di fotografie di Iwan Baan che documentano momenti di vita della comunità spontanea. Partecipazione e tensione verso lo sviluppo urbano ‘dal basso’ sono testimoniati anche dalla ricerca di Elke Krasny, Hand –On Urbanism 1850-2012, e dal padiglione degli Stati Uniti d’America con il suo Spontaneous Interventions: Design Actions for the Common Good (menzione speciale della Giuria), dove una selezione di progetti ad opera di architetti, designer, urbanisti e semplici cittadini, configurano un mosaico di idee, proposte e realizzazioni, tese a “espandere la bellezza, il benessere, la funzionalità, la sicurezza e la sostenibilità delle città [dove] sperimentale, informale, alternativo, spontaneo, improvvisato, partecipativo, migliorativo, sono soltanto alcune delle parole che sono usate per descrivere questo movimento che si sta diffondendo sempre più a livello internazionale”. Ma dove forse al meglio si restituisce lo slogan del Commun Ground della Biennale veneziana è nell’Architecture possible here? Home-for-all del padiglione Giapponese (a cura di Toyo Ito, con allestimento di Akihisha Hirata, Sou Fujimoto, Kumiko Inui, Leone d’Oro per la migliore partecipazione nazionale), in cui la collaborazione e il confronto con la popolazione colpita dallo tsunami ha portato alla definizione di un nuovo centro d’incontro con la comunità locale, primo step di un programma in grado di generare la ‘voglia di casa’ in una regione devastata da una catastrofe nazionale. Tra uno sguardo alla storia e la ricerca di un confronto con il passato in termini attuali (l’omaggio alla magia compositiva dell’architetto barocco inglese Nicholas Hawksmoor, la bella mostra Facecity di Fulvio Irace dedicata al paesaggio urbano milanese del secondo dopoguerra, il Pasticcio di Caruso St. John teso a rintracciare una “continuità tra l’architettura contemporanea e quella antecedente al modernismo”, i ‘ritratti’ dei padiglioni della Biennale di Gabriele Basilico nell’allestimento di Diener & Diener, le radici storiche dichiarate da parte della ricerca sulla forma algoritmica di Zaha Hadid) i temi legati alla sostenibilità e al riuso sono emersi in più occasioni. Reduce/Reuse/Recycle – Architecture as Resource è il titolo-programma della Germania dove si dichiara apertamente che ogni costruzione è una risorsa con cui confrontarsi abbandonando la serialità tardo modernista della demolizione-progetto-ricostruzione; “secondo la logica di Reduce/Reuse/Recycle diverse strategie di ristrutturazione si possono classificare in base al rapporto fra vecchio e nuovo, fra l’intensità dell’intervento e il livello di modificazione. Trattando l’architettura edificata come una risorsa sostanziale e formale, si rende disponibile un’ampia gamma di possibilità e di approcci”. All’idea di sviluppo di una nuova consapevolezza rispetto al paesaggio urbano che ci circonda si riferisce anche la Svizzera, mentre la Russia, con i-city a cura di Sergei Tchoban (menzione speciale per l’allestimento e il tema trattato), dedica il suo padiglione, rivestito da pannelli metallici serigrafati da codici QR interattivi con tablet dati ai visitatori all’ingresso, al nuovo paesaggio in divenire del Centro d’innovazione di Skolkovo letto in rapporto alla storia delle città della scienza del Paese. Il verde, superata ogni dimensione semplicemente estetica, diventa fattore simbolico nel bosco di felci del Padiglione Italia di Luca Zevi che, oltre a sottolineare il valore dell’architettura per la produzione, emersa forse in modo inconsapevole dal solco della lezione di Adriano Olivetti, ci ricorda il valore del territorio e la necessità del suo mantenimento e gestione, oggi sempre più in abbandono anche in relazione alla flessione delle coltivazioni agricole (presidio di gestione del paesaggio in senso lato). Mentre ancora il verde (tradotto in piantumazioni di canne comuni) diventa strumento di riqualificazione strutturale nella prima partecipazione dell’Angola. In Beyond Entropy Angola, a cura di Stefano Rabolli Pansera e Paula Nascimento, si affronta il caso delle aree di conurbazione senza urbanità di Luanda, città ad alta densità senza avere però edifici a più livelli. In questa crescita esponenziale dell’occupazione del suolo, nella mancanza totale di infrastrutture basilari, l’idea di piantumare gli spazi interstiziali tra le costruzioni con la canna comune (Arundo Donax) che cresce anche lungo i nostri fiumi, permette di trasformare il ‘verde’ o meglio il paesaggio in strumento di riqualificazione operativo a breve periodo: la canna cresce con grande rapidità (raggiungerà a fine novembre il soffitto dello spazio all’isola di San Giorgio dove è ospitato l’allestimento) e i filamenti finissimi del suo rizoma alla radice filtrano in modo naturale le acque sporche, mentre il fusto rigido assorbe grandi quantità di CO2 rendendolo ideale per la biomassa. Quello proposto è un modello urbanistico sostenibile in grado di diventare esempio-guida per i Paesi sub-sahariani. Non mancano nella mostra allestimenti ‘hot spot’, emergenti dal punto di vista della presenza architettonica e scenica, tra cui la struttura metallica Arum di Zaha Hadid, e l’allestimento Copycat di Cino Zucchi (menzione d’onore) metafora di una sommatoria architettonica e allo stesso tempo luogo di memorie domestiche, di oggetti e immagini in grado di produrre efficaci rimandi di scala, di abitudini e usi. Nei pressi del Giardino delle Vergini si fronteggiano infine le due architetture di Alvaro Siza e di Eduardo Souto de Moura rapportate alla densità dell’ambiente urbano veneziano la prima e al paesaggio dell’intorno, incorniciato dalle sue aperture e rapporti di spazi, il secondo. Una mostra che racconta temi, che delinea possibili percorsi, più che mostrare la magnificenza e la spettacolarità di opere singole. D’altra parte come ci ricorda lo stesso Chipperfield “progettare architetture che siano parte di un panorama quotidiano è sicuramente una bella sfida, molto più rischiosa e affascinante della creazione di un maxigrattacielo”.
foto di sergio pirrone, matteo vercelloni
testo di matteo vercelloni - [gallery ids="7710,7711,7712,7713,7714,7715,7716,7717,7718,7719,7720,7721,7722,7723,7724"]Come, con la crisi economica si è detto basta agli eccessi finanziari è arrivato il momento di fermare anche gli eccessi degli architetti […] troppo spesso, ultimamente, gli architetti sono stati chiamati come maître patissier a preparare la torta di nozze del padrone di casa, ossia del committente. Che identifica nell’architetto lo specialista che, al meglio, attraverso un edificio può pubblicizzare il suo nome o il suo marchio. Che, di per sé, non è una colpa. Però quando a Michelangelo fu affidato l’incarico per la cupola di San Pietro era sì un’operazione di ‘promozione’ del papato, ma al contempo una renovatio urbis”. Le affermazioni di David Chipperfield, in parte rese esplicite dalla sua Biennale di Architettura, non lasciano spazio al dubbio: è tempo di ritornare a intendere l’architettura come una disciplina complessa che si confronta con la storia e la memoria, con le città e i suoi cittadini e che, come affermava Aldo Rossi è da assumere come “opera d’arte collettiva”. La 13a Biennale di architettura veneziana nella sua molteplice rassegna di punti di vista tende a consegnarci tale messaggio senza mortificare o ridurre le specifiche poetiche e le singole espressioni di ogni architetto che però cercano di offrirsi come occasione di confronto più che come momento di presentazione professionale. Molti sono i temi che si possono rintracciare nella visita alla mostra tra le Corderie e i Giardini, alcuni sottolineano le intenzioni iniziali: partecipazione civile, riuso e sostenibilità, presenza della storia, progetti condivisi, senso e uso della città e dei suoi spazi, valore del paesaggio come risorsa strategica. Non si tratta tuttavia della celebrazione del tramonto della figura dell’archistar, piuttosto di individuare percorsi che leghino il progetto di architettura al suo senso urbano, per estendersi a volte alla scala territoriale come macrostrutture abitate (è il caso del progetto dei ponti architettonici per Stoccolma, pensati da Jean Nouvel e Mia Hägg per unire il centro storico di Gamla Stan all’isola più a sud della città; o all’avveniristico Global Hub AIR+PORT dello studio BIG/ Bjarke Ingels Group, sperimentale sintesi tipologica tra un aeroporto galleggiante e un porto navale previsto tra i ghiacci della Groenlandia a Nuuk). In generale in tutta la mostra si respira aria di complessità e questo può indurre a rendere più difficile e sfuggente il messaggio che non vuole essere di tipo ‘spettacolare’, ma fondativo. La camera scura di Norman Foster, Gateway, che accoglie i visitatori alle spalle dell’ingresso funge in fondo da manifesto introduttivo con la ‘storia’ proiettata sul pavimento nero nella forma di disegni, nomi dei protagonisti della cultura architettonica, messaggi, che si confrontano con lo spazio storico e contemporaneo dei raduni collettivi offerto da un serrato ritmo di immagini proiettate che ci avvolgono in alto, sui quattro lati delle pareti. Ordine e disordine per capire l’uso dell’architettura che a volte appare ‘improprio’, ma allo stesso tempo inarrestabile e spontaneo. Come appunto quello che avviene in uno dei monumenti architettonici contemporanei di Hong Kong: la Bank of China dello stesso Foster (in mostra ai Giardini) il cui piano terreno, pensato come ‘luogo pubblico’ e di passaggio sin dalla sua inaugurazione, si trasforma ogni domenica in una sorta di centro d’incontro della comunità delle colf filippine che, frammentandolo in microspazi con temporanei setti di cartone, attiva una straordinaria e pacifica varietà di attività sociali. In altro modo la riappropriazione di spazi urbani è rappresentata dal caso della Torre David a Caracas rappresentato dall’allestimento a cura di Urban Think Tank (Leone d’Oro quale miglior progetto della Mostra internazionale). Una torre per uffici rimasta incompleta è diventata una favela verticale nel centro urbano, simbolo del fallimento del neoliberismo e del self-empowerment delle classi povere, formando una nuova comunità spontanea, “modello ispiratore che riconosce la forza delle associazioni informali” (dalle motivazioni della Giuria), che ne ha trasformato gli spazi in una nuova casa collettiva con una propria identità. Valori di appartenenza restituiti dal progetto in mostra nella forma del ristorante di fantasia Gran Horizonte (punto d’incontro e di sosta lungo il percorso delle corderie) e dalla serie di fotografie di Iwan Baan che documentano momenti di vita della comunità spontanea. Partecipazione e tensione verso lo sviluppo urbano ‘dal basso’ sono testimoniati anche dalla ricerca di Elke Krasny, Hand –On Urbanism 1850-2012, e dal padiglione degli Stati Uniti d’America con il suo Spontaneous Interventions: Design Actions for the Common Good (menzione speciale della Giuria), dove una selezione di progetti ad opera di architetti, designer, urbanisti e semplici cittadini, configurano un mosaico di idee, proposte e realizzazioni, tese a “espandere la bellezza, il benessere, la funzionalità, la sicurezza e la sostenibilità delle città [dove] sperimentale, informale, alternativo, spontaneo, improvvisato, partecipativo, migliorativo, sono soltanto alcune delle parole che sono usate per descrivere questo movimento che si sta diffondendo sempre più a livello internazionale”. Ma dove forse al meglio si restituisce lo slogan del Commun Ground della Biennale veneziana è nell’Architecture possible here? Home-for-all del padiglione Giapponese (a cura di Toyo Ito, con allestimento di Akihisha Hirata, Sou Fujimoto, Kumiko Inui, Leone d’Oro per la migliore partecipazione nazionale), in cui la collaborazione e il confronto con la popolazione colpita dallo tsunami ha portato alla definizione di un nuovo centro d’incontro con la comunità locale, primo step di un programma in grado di generare la ‘voglia di casa’ in una regione devastata da una catastrofe nazionale. Tra uno sguardo alla storia e la ricerca di un confronto con il passato in termini attuali (l’omaggio alla magia compositiva dell’architetto barocco inglese Nicholas Hawksmoor, la bella mostra Facecity di Fulvio Irace dedicata al paesaggio urbano milanese del secondo dopoguerra, il Pasticcio di Caruso St. John teso a rintracciare una “continuità tra l’architettura contemporanea e quella antecedente al modernismo”, i ‘ritratti’ dei padiglioni della Biennale di Gabriele Basilico nell’allestimento di Diener & Diener, le radici storiche dichiarate da parte della ricerca sulla forma algoritmica di Zaha Hadid) i temi legati alla sostenibilità e al riuso sono emersi in più occasioni. Reduce/Reuse/Recycle – Architecture as Resource è il titolo-programma della Germania dove si dichiara apertamente che ogni costruzione è una risorsa con cui confrontarsi abbandonando la serialità tardo modernista della demolizione-progetto-ricostruzione; “secondo la logica di Reduce/Reuse/Recycle diverse strategie di ristrutturazione si possono classificare in base al rapporto fra vecchio e nuovo, fra l’intensità dell’intervento e il livello di modificazione. Trattando l’architettura edificata come una risorsa sostanziale e formale, si rende disponibile un’ampia gamma di possibilità e di approcci”. All’idea di sviluppo di una nuova consapevolezza rispetto al paesaggio urbano che ci circonda si riferisce anche la Svizzera, mentre la Russia, con i-city a cura di Sergei Tchoban (menzione speciale per l’allestimento e il tema trattato), dedica il suo padiglione, rivestito da pannelli metallici serigrafati da codici QR interattivi con tablet dati ai visitatori all’ingresso, al nuovo paesaggio in divenire del Centro d’innovazione di Skolkovo letto in rapporto alla storia delle città della scienza del Paese. Il verde, superata ogni dimensione semplicemente estetica, diventa fattore simbolico nel bosco di felci del Padiglione Italia di Luca Zevi che, oltre a sottolineare il valore dell’architettura per la produzione, emersa forse in modo inconsapevole dal solco della lezione di Adriano Olivetti, ci ricorda il valore del territorio e la necessità del suo mantenimento e gestione, oggi sempre più in abbandono anche in relazione alla flessione delle coltivazioni agricole (presidio di gestione del paesaggio in senso lato). Mentre ancora il verde (tradotto in piantumazioni di canne comuni) diventa strumento di riqualificazione strutturale nella prima partecipazione dell’Angola. In Beyond Entropy Angola, a cura di Stefano Rabolli Pansera e Paula Nascimento, si affronta il caso delle aree di conurbazione senza urbanità di Luanda, città ad alta densità senza avere però edifici a più livelli. In questa crescita esponenziale dell’occupazione del suolo, nella mancanza totale di infrastrutture basilari, l’idea di piantumare gli spazi interstiziali tra le costruzioni con la canna comune (Arundo Donax) che cresce anche lungo i nostri fiumi, permette di trasformare il ‘verde’ o meglio il paesaggio in strumento di riqualificazione operativo a breve periodo: la canna cresce con grande rapidità (raggiungerà a fine novembre il soffitto dello spazio all’isola di San Giorgio dove è ospitato l’allestimento) e i filamenti finissimi del suo rizoma alla radice filtrano in modo naturale le acque sporche, mentre il fusto rigido assorbe grandi quantità di CO2 rendendolo ideale per la biomassa. Quello proposto è un modello urbanistico sostenibile in grado di diventare esempio-guida per i Paesi sub-sahariani. Non mancano nella mostra allestimenti ‘hot spot’, emergenti dal punto di vista della presenza architettonica e scenica, tra cui la struttura metallica Arum di Zaha Hadid, e l’allestimento Copycat di Cino Zucchi (menzione d’onore) metafora di una sommatoria architettonica e allo stesso tempo luogo di memorie domestiche, di oggetti e immagini in grado di produrre efficaci rimandi di scala, di abitudini e usi. Nei pressi del Giardino delle Vergini si fronteggiano infine le due architetture di Alvaro Siza e di Eduardo Souto de Moura rapportate alla densità dell’ambiente urbano veneziano la prima e al paesaggio dell’intorno, incorniciato dalle sue aperture e rapporti di spazi, il secondo. Una mostra che racconta temi, che delinea possibili percorsi, più che mostrare la magnificenza e la spettacolarità di opere singole. D’altra parte come ci ricorda lo stesso Chipperfield “progettare architetture che siano parte di un panorama quotidiano è sicuramente una bella sfida, molto più rischiosa e affascinante della creazione di un maxigrattacielo”.
foto di sergio pirrone, matteo vercelloni
testo di matteo vercelloni - [gallery ids="7710,7711,7712,7713,7714,7715,7716,7717,7718,7719,7720,7721,7722,7723,7724"]Come, con la crisi economica si è detto basta agli eccessi finanziari è arrivato il momento di fermare anche gli eccessi degli architetti […] troppo spesso, ultimamente, gli architetti sono stati chiamati come maître patissier a preparare la torta di nozze del padrone di casa, ossia del committente. Che identifica nell’architetto lo specialista che, al meglio, attraverso un edificio può pubblicizzare il suo nome o il suo marchio. Che, di per sé, non è una colpa. Però quando a Michelangelo fu affidato l’incarico per la cupola di San Pietro era sì un’operazione di ‘promozione’ del papato, ma al contempo una renovatio urbis”. Le affermazioni di David Chipperfield, in parte rese esplicite dalla sua Biennale di Architettura, non lasciano spazio al dubbio: è tempo di ritornare a intendere l’architettura come una disciplina complessa che si confronta con la storia e la memoria, con le città e i suoi cittadini e che, come affermava Aldo Rossi è da assumere come “opera d’arte collettiva”. La 13a Biennale di architettura veneziana nella sua molteplice rassegna di punti di vista tende a consegnarci tale messaggio senza mortificare o ridurre le specifiche poetiche e le singole espressioni di ogni architetto che però cercano di offrirsi come occasione di confronto più che come momento di presentazione professionale. Molti sono i temi che si possono rintracciare nella visita alla mostra tra le Corderie e i Giardini, alcuni sottolineano le intenzioni iniziali: partecipazione civile, riuso e sostenibilità, presenza della storia, progetti condivisi, senso e uso della città e dei suoi spazi, valore del paesaggio come risorsa strategica. Non si tratta tuttavia della celebrazione del tramonto della figura dell’archistar, piuttosto di individuare percorsi che leghino il progetto di architettura al suo senso urbano, per estendersi a volte alla scala territoriale come macrostrutture abitate (è il caso del progetto dei ponti architettonici per Stoccolma, pensati da Jean Nouvel e Mia Hägg per unire il centro storico di Gamla Stan all’isola più a sud della città; o all’avveniristico Global Hub AIR+PORT dello studio BIG/ Bjarke Ingels Group, sperimentale sintesi tipologica tra un aeroporto galleggiante e un porto navale previsto tra i ghiacci della Groenlandia a Nuuk). In generale in tutta la mostra si respira aria di complessità e questo può indurre a rendere più difficile e sfuggente il messaggio che non vuole essere di tipo ‘spettacolare’, ma fondativo. La camera scura di Norman Foster, Gateway, che accoglie i visitatori alle spalle dell’ingresso funge in fondo da manifesto introduttivo con la ‘storia’ proiettata sul pavimento nero nella forma di disegni, nomi dei protagonisti della cultura architettonica, messaggi, che si confrontano con lo spazio storico e contemporaneo dei raduni collettivi offerto da un serrato ritmo di immagini proiettate che ci avvolgono in alto, sui quattro lati delle pareti. Ordine e disordine per capire l’uso dell’architettura che a volte appare ‘improprio’, ma allo stesso tempo inarrestabile e spontaneo. Come appunto quello che avviene in uno dei monumenti architettonici contemporanei di Hong Kong: la Bank of China dello stesso Foster (in mostra ai Giardini) il cui piano terreno, pensato come ‘luogo pubblico’ e di passaggio sin dalla sua inaugurazione, si trasforma ogni domenica in una sorta di centro d’incontro della comunità delle colf filippine che, frammentandolo in microspazi con temporanei setti di cartone, attiva una straordinaria e pacifica varietà di attività sociali. In altro modo la riappropriazione di spazi urbani è rappresentata dal caso della Torre David a Caracas rappresentato dall’allestimento a cura di Urban Think Tank (Leone d’Oro quale miglior progetto della Mostra internazionale). Una torre per uffici rimasta incompleta è diventata una favela verticale nel centro urbano, simbolo del fallimento del neoliberismo e del self-empowerment delle classi povere, formando una nuova comunità spontanea, “modello ispiratore che riconosce la forza delle associazioni informali” (dalle motivazioni della Giuria), che ne ha trasformato gli spazi in una nuova casa collettiva con una propria identità. Valori di appartenenza restituiti dal progetto in mostra nella forma del ristorante di fantasia Gran Horizonte (punto d’incontro e di sosta lungo il percorso delle corderie) e dalla serie di fotografie di Iwan Baan che documentano momenti di vita della comunità spontanea. Partecipazione e tensione verso lo sviluppo urbano ‘dal basso’ sono testimoniati anche dalla ricerca di Elke Krasny, Hand –On Urbanism 1850-2012, e dal padiglione degli Stati Uniti d’America con il suo Spontaneous Interventions: Design Actions for the Common Good (menzione speciale della Giuria), dove una selezione di progetti ad opera di architetti, designer, urbanisti e semplici cittadini, configurano un mosaico di idee, proposte e realizzazioni, tese a “espandere la bellezza, il benessere, la funzionalità, la sicurezza e la sostenibilità delle città [dove] sperimentale, informale, alternativo, spontaneo, improvvisato, partecipativo, migliorativo, sono soltanto alcune delle parole che sono usate per descrivere questo movimento che si sta diffondendo sempre più a livello internazionale”. Ma dove forse al meglio si restituisce lo slogan del Commun Ground della Biennale veneziana è nell’Architecture possible here? Home-for-all del padiglione Giapponese (a cura di Toyo Ito, con allestimento di Akihisha Hirata, Sou Fujimoto, Kumiko Inui, Leone d’Oro per la migliore partecipazione nazionale), in cui la collaborazione e il confronto con la popolazione colpita dallo tsunami ha portato alla definizione di un nuovo centro d’incontro con la comunità locale, primo step di un programma in grado di generare la ‘voglia di casa’ in una regione devastata da una catastrofe nazionale. Tra uno sguardo alla storia e la ricerca di un confronto con il passato in termini attuali (l’omaggio alla magia compositiva dell’architetto barocco inglese Nicholas Hawksmoor, la bella mostra Facecity di Fulvio Irace dedicata al paesaggio urbano milanese del secondo dopoguerra, il Pasticcio di Caruso St. John teso a rintracciare una “continuità tra l’architettura contemporanea e quella antecedente al modernismo”, i ‘ritratti’ dei padiglioni della Biennale di Gabriele Basilico nell’allestimento di Diener & Diener, le radici storiche dichiarate da parte della ricerca sulla forma algoritmica di Zaha Hadid) i temi legati alla sostenibilità e al riuso sono emersi in più occasioni. Reduce/Reuse/Recycle – Architecture as Resource è il titolo-programma della Germania dove si dichiara apertamente che ogni costruzione è una risorsa con cui confrontarsi abbandonando la serialità tardo modernista della demolizione-progetto-ricostruzione; “secondo la logica di Reduce/Reuse/Recycle diverse strategie di ristrutturazione si possono classificare in base al rapporto fra vecchio e nuovo, fra l’intensità dell’intervento e il livello di modificazione. Trattando l’architettura edificata come una risorsa sostanziale e formale, si rende disponibile un’ampia gamma di possibilità e di approcci”. All’idea di sviluppo di una nuova consapevolezza rispetto al paesaggio urbano che ci circonda si riferisce anche la Svizzera, mentre la Russia, con i-city a cura di Sergei Tchoban (menzione speciale per l’allestimento e il tema trattato), dedica il suo padiglione, rivestito da pannelli metallici serigrafati da codici QR interattivi con tablet dati ai visitatori all’ingresso, al nuovo paesaggio in divenire del Centro d’innovazione di Skolkovo letto in rapporto alla storia delle città della scienza del Paese. Il verde, superata ogni dimensione semplicemente estetica, diventa fattore simbolico nel bosco di felci del Padiglione Italia di Luca Zevi che, oltre a sottolineare il valore dell’architettura per la produzione, emersa forse in modo inconsapevole dal solco della lezione di Adriano Olivetti, ci ricorda il valore del territorio e la necessità del suo mantenimento e gestione, oggi sempre più in abbandono anche in relazione alla flessione delle coltivazioni agricole (presidio di gestione del paesaggio in senso lato). Mentre ancora il verde (tradotto in piantumazioni di canne comuni) diventa strumento di riqualificazione strutturale nella prima partecipazione dell’Angola. In Beyond Entropy Angola, a cura di Stefano Rabolli Pansera e Paula Nascimento, si affronta il caso delle aree di conurbazione senza urbanità di Luanda, città ad alta densità senza avere però edifici a più livelli. In questa crescita esponenziale dell’occupazione del suolo, nella mancanza totale di infrastrutture basilari, l’idea di piantumare gli spazi interstiziali tra le costruzioni con la canna comune (Arundo Donax) che cresce anche lungo i nostri fiumi, permette di trasformare il ‘verde’ o meglio il paesaggio in strumento di riqualificazione operativo a breve periodo: la canna cresce con grande rapidità (raggiungerà a fine novembre il soffitto dello spazio all’isola di San Giorgio dove è ospitato l’allestimento) e i filamenti finissimi del suo rizoma alla radice filtrano in modo naturale le acque sporche, mentre il fusto rigido assorbe grandi quantità di CO2 rendendolo ideale per la biomassa. Quello proposto è un modello urbanistico sostenibile in grado di diventare esempio-guida per i Paesi sub-sahariani. Non mancano nella mostra allestimenti ‘hot spot’, emergenti dal punto di vista della presenza architettonica e scenica, tra cui la struttura metallica Arum di Zaha Hadid, e l’allestimento Copycat di Cino Zucchi (menzione d’onore) metafora di una sommatoria architettonica e allo stesso tempo luogo di memorie domestiche, di oggetti e immagini in grado di produrre efficaci rimandi di scala, di abitudini e usi. Nei pressi del Giardino delle Vergini si fronteggiano infine le due architetture di Alvaro Siza e di Eduardo Souto de Moura rapportate alla densità dell’ambiente urbano veneziano la prima e al paesaggio dell’intorno, incorniciato dalle sue aperture e rapporti di spazi, il secondo. Una mostra che racconta temi, che delinea possibili percorsi, più che mostrare la magnificenza e la spettacolarità di opere singole. D’altra parte come ci ricorda lo stesso Chipperfield “progettare architetture che siano parte di un panorama quotidiano è sicuramente una bella sfida, molto più rischiosa e affascinante della creazione di un maxigrattacielo”.