Artista, programmatrice, attivista, Lauren McCarthy usa l’arte per far provare sulla nostra pelle cosa vuol dire vivere immersi nell'Intelligenza Artificiale. Solo così, spiega, è possibile riflettere davvero sulle conseguenze di una digitalizzazione spinta

Non è facile definire Lauren McCarthy che è programmatrice, artista, attivista, insegnante. Perché Lauren (sino-americana, una laurea in Arte e una in Computer Science entrambe conseguite al MIT -Massachusetts Institute of Technology) vive a cavallo tra due mondi – quello degli esseri umani e quello della tecnologia. Ha impersonato Alexa, abitando nelle case di sconosciuti, intrattenendoli e rispondendo alle loro domande. Ha creato sistemi open source perché chiunque impari a programmare. Inventa trovate per connettere le persone emotivamente usando la tecnologia: nel suo ultimo lavoro, in mostra alla sua personale a Shanghai che ha aperto il 19 settembre, ha chiesto a decine di persone di filmarsi mentre raccontavano quello che provavano nel loro luogo del cuore, senza descriverlo fisicamente né mostrarlo. Il suo sogno? Vedere i due universi, atomi e byte, analogico e digitale, avanzare di pari passo, senza prevaricazioni dall’una o dall’altra parte. Sembra semplice, invece…

Fino al 23 dicembre presso lo spazio Brownie Project di Shanghai è esposta la sua personale You can say ‘Reset the room’ che raccoglie decine dei suoi lavori. Sono tutti legati all’Intelligenza Artificiale e suonano davvero nerdy (home automation, sorveglianza digitale, tracciamenti) ma lei li riporta nel luogo più segreto che c’è in tutti noi: la nostra intimità, le relazioni che intratteniamo con gli altri, il modo in cui ci interfacciamo con gli oggetti della nostra casa, con i suoi spazi e con le persone. È in questa zona di affetti, sentimenti ed emozioni che si sviluppa tutto il suo lavoro malgrado il look high tech.

Cosa si impara lavorando tra arte e tecnologia, tra macchine e relazioni umane?

Che le persone capiscono i concetti in maniera razionale – come per esempio le tematiche relative alla privacy e alla raccolta dei dati che avviene con la Home Automation – ma finché non li provano sulla propria pelle non ne colgono davvero il senso. È solo toccando le corde dell’emozione che scatta una comprensione diversa, più profonda, destinata a far pensare. Elevare il discorso a questo livello è il compito dell’arte, anche in relazione all’Intelligenza Artificiale.

Facci un esempio.

Quando, nella mia opera intitolata Lauren ho preso il posto di Alexa nelle case di alcune famiglie per qualche tempo – rispondevo alle loro domande, facevo suggerimenti, interagivo con loro – per molti è scattata una molla di preoccupazione. Perchè fa impressione essere osservati 24 ore al giorno da una sconosciuta. E non avevano mai pensato che usando il device a osservarli ci sono potenzialmente molti più sconosciuti. È un pensiero che fa riflettere. Io non sono contro la tecnologia ma credo che la consapevolezza sia un diritto di tutti.

Perché ti concentri soprattutto sulla casa nel tuo lavoro?

La casa è il luogo che crea la nostra identità e fino a pochi anni fa questa era data dai nostri genitori, dalle cose che ci trovavamo a usare, dalle scelte che compivamo ogni giorno per renderla più nostra. Gli oggetti che ci hanno circondato per secoli che dipendevano da noi: eravamo noi a imprimere loro un senso e un significato all’interno della nostra vita. Ora i nostri ambienti si sono riempiti di oggetti che consideriamo neutrali ma non lo sono affatto. Sono stati programmati da un gruppo ristretto di persone che ci immettono valori che non sono necessariamente i nostri. Tutti pensano che ci sia imparzialità quando a decidere è un algoritmo o una macchina ma non è così perché il machine learning ripete schemi che vengono immessi dall’esterno, esasperando il pensiero dominante.

Sono decenni che abbiamo macchine in casa, perché ora c’è urgenza di parlare di queste tematiche?

Perché fino a pochissimo tempo fa i devices dovevano essere impostati da noi per fare qualcosa in nostra vece: una sveglia, una lavatrice, un tostapane. Ora, con i recentissimi sviluppi del machine learning, pensano al nostro posto: rilevano dati (temperatura, presenza etc) e reagiscono in modo autonomo, prefissato da qualcuno. Di fatto danno un giudizio sul nostro presente. Pensa a quando vuoi scrivere qualcosa e il correttore cambia la parola che stai usando: lo fa perché preferisce il termine dominante, che magari non è quello che avresti scelto tu.

Per la maggior parte delle persone sapere che i propri dati vengono rilevati da una macchina non è un problema: non ho nulla da nascondere, dicono.

Vero. Ma il problema è che non sappiamo come verranno usati i nostri dati. Già negli Stati Uniti le assicurazioni attingono informazioni sugli stili di vita delle persone per calibrare i premi. Tutti sanno che i social media vengono scansionati prima di decidere se assumere o meno una persona o di dargli un posto in un’università prestigiosa. Rimane poi il tema che alcune persone hanno qualcosa da nascondere: attivisti, ricercatori, persone che cercano asilo politico. Anche se non ci si sente in pericolo a livello individuale non è giusto non pensare alla collettività.

Ci sono molte discussioni su questo tema in epoca Covid. Cosa pensi del tracciamento per motivazioni di salute pubblica?

Credo che molti ritengano sia un approccio giusto e lo penso anche io, perché non sono contro la tecnologia, anzi. Il tracciamento sarebbe giusto ma con la garanzia di poter poi finirlo una volta terminata l’emergenza. È un problema di fiducia perché a oggi poche realtà – istituzionali o private – rinuncerebbero a preziosissimi dati.

Non sei contro la tecnologia. Allora cosa proponi?

Vorrei che fosse uguaglianza davanti alla tecnologia. Vorrei che tutti avessero accesso a questo tipo di conoscenza, di modo da poter poi decidere con coscienza. Per questo ho realizzato anni fa un programma che permette a chiunque di fare coding che a oggi è ancora molto usato. Capire le problematiche – anche attraverso le emozioni, come faccio con le mie opere – porta all’azione e, spero, a un movimento collettivo che arresti lo sviluppo della tecnologia dove serve. La Home Automation ci può dare tanto e lo abbiamo scoperto durante i lockdown: compagnia, intrattenimento, contatto con gli altri. Non credo in un futuro distopico ma nella costruzione di una relazione diversa con le macchine: più cosciente ed informata. Siamo ancora in tempo per fermarci.

Se io fossi una grande azienda del tech verrei da artisti come te e finanzierei il loro lavoro. Se accadesse cosa faresti?

Ogni caso è diverso. Dipenderebbe dalla libertà di espressione che l’offerta di aiuto implica. Le aziende del tech supportavano gli artisti ora mi pare che siano più quelle del lusso a farlo. Forse pensano che inondare il mondo di gadget sia un contributo sufficiente per far sviluppare la civiltà. Ma non è così.