Cosa succede se l'arte diventa un elemento centrale nell'interior design? Ne abbiamo parlato con quattro architetti e un gallerista

Arredare una casa con l’arte significa pensare l’interior design intorno a un'opera o a più opere che ci stanno a cuore.

Con, su, per, tra, fra un quadro o una scultura si costruisce il progetto abitativo, che sia per una casa, per uno spazio di lavoro o per un parco privato, per creare un ambiente culturale. Lo spiega molto bene Serena Cassissa, General Manager della galleria Marco Rossi di Milano che ha messo a punto, dopo anni di lavoro con diversi architetti, un sistema perfetto per realizzarlo.

«Prima di tutto è una questione linguistica: occorre mediare tra linguaggi diversi, quello dell’arte e quello dell’architettura», spiega Cassissa, «Si crea un grande meccanismo che funziona alla perfezione quando l’arte è solo arte, anche nella visione dell’architetto che non intende l’opera come elemento decorativo. La sua collocazione nello spazio, allora, è una soluzione che la valorizza, ma lo spazio, a sua volta, è valorizzato dall’opera».

Un arricchimento reciproco dunque, possibile se si crea un’intesa tra architetto, consulente d’arte e committente.

Le opere d'arte diventano il concept del progetto

La scelta delle opere da inserire nello spazio non sarà più la parte finale del lavoro, bensì un pensiero molto precoce che permetta a tutti gli attori di lavorare insieme sin dall’inizio: «Gli architetti in questo modo possono integrare l’arte come elemento del progetto, con tutto quello che di pratico questo comporta, dalla creazione di spazi su misura fino all’illuminazione.

Ma il discorso è prima di tutto culturale», continua Cassissa, «e noi pensiamo alla ristrutturazione come un percorso che culmina nel progetto, lungo un ragionamento intellettuale tra spazio, proporzioni, immaginazione e, perché no?, anche investimento.

Sia perché magari il committente ha scelto di fare una ristrutturazione importante e dunque occorre un allineamento anche dal punto di vista delle opere da inserire in quello spazio; sia perché magari il committente è al suo primo acquisto di opere d’arte e vuole le dovute rassicurazioni sul proprio investimento; sia perché il committente è un collezionista e vuole inserire una o due opere nuove per ridare senso e armonia alla propria collezione».

E se, come sottolinea Marco Rossi, questo dialogo tra gallerista, committente e architetto esiste da sempre, è vero che oggi ci sono molti architetti pronti a usare l’arte nel proprio progettare.

Dopo la scelta dell'opera d'arte, interviene l'architettura

«Per me nello spazio progettato l’arte procede come una funzione algebrica», spiega l’architetto Fabrizio Fragomeli di Torino, «Si parte dall’1 che è l’opera d’arte, ma il principio su cui procede la funzione è il 2, cioè il dubbio: quale opera d’arte scegliere? A questo punto interviene l’architettura».

Fragomeli è un artista del progettare, un visionario capace di inventare finzioni che hanno funzioni nel quotidiano e di trasformare l’arte in qualcosa da usare ogni giorno.

Ma il suo progettare procede come la funzione algebrica da lui indicata: occorre guardare le opere d’arte così il dubbio farà muovere le emozioni del cliente… «E io, in base alla loro reazione, capisco cosa disegnare», continua l’architetto «La scelta di un'opera, cioè, è lo sguardo oggettivo del cliente che io cerco di restituirgli nel progetto.

E viceversa: spesso sono io che conduco il cliente nelle gallerie d’arte per vedere i lavori di artisti già affermati, come quelli che propone Marco Rossi, ma anche di emergenti (per esempio quelli della galleria Crag di Torino), l’importante è che il fruitore possa svelarsi davanti alle opere e che scopra nuovi modi di esprimersi».

I colori dell'arte che diventano le tonalità degli interior

Così per esempio racconta della casa per una giovane donna pensata a colori, dove l’ambiente classico e le boiserie dialogano con inserti magenta e quadri astratti sui toni del blu per farne un ambiente onirico, oppure la casa di un collezionista. In questo caso Fragomeli ha creato dei setti in legno con cui dividere lo spazio e appoggiare da un lato le opere, e dall’altro un mobile o la cucina… «In questo caso il tema era scegliere quali opere vedere sempre e quali solo qualche volta.

La scelta dei setti è piaciuta al committente che ha amato l’idea di un’integrazione completa dell’arte nell’architettura.

È un esempio, questo, di come si aggiungono spazi con le opere d’arte e di come questi setti consentano di vedere l’opera e di usarla». La casa allora diventa uno spazio scenografico: «L’opera crea una scenografia teatrale con un’ottica museale», dichiara Fragomeli, con una chiarezza quasi lapidaria.

Dunque è una finzione in cui l’abitante della casa è un attore che recita un ruolo?

«In qualche modo, sì: è l’unico posto in cui recita senza maschera e ha bisogno di sentirsi protagonista assoluto. Quello che propongo è una finzione, frutto di una contrapposizione: abitare la scena teatrale in cui essere se stessi veramente.

L’elemento museale, poi, serve a creare coni ottici visivi per definire lo spazio in cui essere protagonista.

Nel tempo l’opera si può cambiare, andando incontro alle nuove esigenze del padrone di casa. L’importante è che gli spazi siano stati pensati correttamente per corrispondergli.

In un’educazione al bello, alla bellezza. Che poi è la bellezza del cliente stesso: è lui che scegliendo dichiara chi è». Un lavoro maieutico, dunque, quello del progettista, che tira fuori la conoscenza dalle persone, i committenti, appunto, per cui disegna regni da vivere.

E con lui concordano anche altri architetti che collaborano, tra le altre gallerie, con Marco Rossi.

Niente illuminazione diretta, da museo

Alice Cagliani, architetto milanese e confonder di Off Tryp, sottolinea l’importanza dell’elemento scenografico negli interni in un lavoro sugli spazi pensato per enfatizzare le opere. Che però viene disegnato e non illuminato: «creo un percorso visivo attraverso piccoli elementi che conducono l’attenzione all’opera: non intendo usare l’illuminazione diretta sul quadro.

Mi piace giocare con la luce naturale e quella artificiale pensata per portare l’occhio sull’opera senza che diventi un’esposizione da museo», spiega Cagliani che cerca prima di tutto di interpretare lo spazio a disposizione in funzione dell’arte. «Arte, architettura e design parlano la stessa lingua e il mio lavoro è una sinergia nello spazio vitale da abitare».

Gioca con i colori («amo molto quelli scuri», ci svela) e con artisti che creano anche opere da utilizzare, come le ante apribili di Gennaro Avallone o le creazioni luminose di Jacopo Foggini, che diventano quasi elementi segnaletici per arrivare all’opera d’arte.

Sarà questa allora la protagonista dello spazio che disegna e determina con la sua presenza. Tendenzialmente si tratta di un quadro, Cagliani naturalmente ha avuto a che fare anche con monitor e NFT ma…non parlategliene: lei prega che quella sia stata una moda passeggera!

L'interior come opera totale, come faceva Gio Ponti

Enrico Dallaiti (studio Arme) invece ha incontrato Marco Rossi in occasione di uno shooting e non si sono più lasciati.

La sua filosofia del progettare combacia con un’idea di opera totale e di architettura «a tutto tondo, come quella, per esempio, di Gio Ponti», dichiara Dallaiti, che poi procede con il suo decalogo, piuttosto perentorio, ma di sicuro effetto: «Le architetture sono scultoree e il peso del bianco è molto importante.

Non usiamo il colore, solo bianco, nero, acciaio e legno per i pavimenti, magari anche scuri.

Non progetto con l’opera d’arte, che viene quasi sempre scelta quasi alla fine della ristrutturazione, ma lavoro sull’immaginazione degli spazi. Le opere allora sono il completamento dell’architettura con la funzione di fare da stimolo visivo, spesso per i committenti stessi, che magari non hanno mai comprato un quadro».

Dallaiti dunque gioca con gli elementi architettonici e la sua immaginazione, creando uno spazio pensato per accogliere l’arte. Il 2 della funzione algebrica di Fragomeli, il dubbio su quale opera mettere, si affronterà dopo, «con il cliente, che deve completare il lavoro dell’architetto con qualcosa che lo rappresenti», spiega Dallaiti, «Occorre un dialogo tra progettista e committente in un percorso di educazione all’arte e all’acquisto di arte».

Per questa ragione, «l’architetto deve fornire al committente una parete bianca dove sistemare un’opera che lo rappresenti. Allora lo spazio diventerà suo, pur nascendo come artificio: si costruiscono i pesi nello spazio come in una grafica e il contenuto si discuterà con il cliente, che va accompagnato nell’idea».

Andrea Parisio, art director e designer di Meridiani, sembra seguire questa filosofia. Per lui, «arte e architettura si integrano perfettamente per valorizzare i loro significati di contenuto e contenitore».

Ma l’effetto sorpresa sembra essere garantito in entrambi i casi, sia che si pensi al contenuto sia al contenitore. Perché «l’arte si adatta perfettamente sia ad ambienti progettati nei minimi dettagli per accoglierla, sia in spazi in cui sembrava impossibile potesse essere presente».

Proprio per questo occorre stabilire un rapporto di fiducia tra committente e progettista. Allora si potrà giocare. E a vincere sarà sempre e solo l’immaginazione.