Ma “transizione” è proprio una parola che fa paura. Descrive quello che viviamo, ma in modo impietoso. È una di quelle parole amate da chi si occupa di futuro, di progettazione di nuovi modelli economici e, ebbene sì, di progetto. La buona notizia è che il cambiamento passa per una compagine molto decisa e competente di giovani designer che forse andrebbero definiti “ibridi”, tanto ampie sono le loro aree di interesse. “Appena terminati gli studi (alla Design Academy di Eindhoven, ndr) ci siamo accorti che eravamo interessati alla relazione che i prodotti hanno con le persone e l’ambiente”, racconta Archibald Godts, fondatore di Studio Plastique insieme a Theresa Bastek. “Abbiamo radicato la nostra pratica progettuale nelle domande cruciali”.
Un approccio valso a incuriosire brand e istituzioni che lavorano con i due designer belgi. Ma è evidente che il primo ostacolo da superare, quando si decide di cambiare, è capire come funziona davvero il ciclo di vita di un prodotto, e normalmente si tratta di un percorso molto complesso, dai risvolti poco apparenti e complessi. “Questa è la responsabilità del designer”, sottolinea Godts. “Indirizzare l’attenzione sui prodotti all’interno di un sistema. E il materiale, il suo riuso e il recupero rappresentano una delle parti più interessanti, perché possiamo trasformare un’abbondanza indesiderata in una risorsa”. Lo dimostra la ricerca radicale che ha dato vita a Common Sands, il progetto che ha portato Studio Plastique all’attenzione del pubblico. Dai materiali di origine silicea recuperati da comuni elettrodomestici, Studio Plastique ha recuperato il vetro per una collezione di oggetti per la tavola. È evidente che i nuovi designer vedono il mondo attraverso le lenti critiche e costruttive di chi vuole inventare una nuova relazione con gli oggetti, passando per la realtà poco incoraggiante di pratiche di consumo compulsive.