Quando nel 1968 Jean Baudrillard scrive “Il sistema degli oggetti” gli effetti del consumismo sono nella fase ascendente di una parabola che ancora oggi non accenna a diminuire. Come notava ai tempi il filosofo francese, alla proliferazione dell’offerta si accompagna, quale ineludibile effetto collaterale, il desiderio di distinzione del prodotto.

Oggi come ieri, l’ambizione alla differenziazione rispetto a una massa resta un traguardo capace di attrarre gli acquirenti più esigenti. Prima regola per alimentare questo sentimento sta nel creare aspettativa ed esclusività e le limited edition sono state per diverso tempo il migliore degli escamotage per rendere l’acquirente di nuovo soggetto selezionatore e collezionista. Ma gli oggetti del desiderio contemporanei sono quelli che rendono unici i multipli seriali, fino ad arrivare a quelli che potremmo definire beni “iper-personali”.

Da qualche anno a questa parte, infatti, l’alleanza con le tecnologie ha prodotto oggetti non solo smart, ma anche unici, sebbene appartenenti alla serialità. Qui non si tratta più di glorificare il difetto o il malfatto, come faceva Gaetano Pesce negli stessi anni in cui Baudrillard pubblicava i suoi ragionamenti. Nè di antropomorfizzare le forme con un linguaggio figurativo intriso di “sex-appeal dell’inorganico”.

Oggi a determinare la via della personalizzazione è il corpo stesso. Il segreto dell’unicità di ognuno di noi è racchiuso nelle nostre impronte, ma anche nel dna delle nostre cellule. Allora fare oggetti che includono campioni organici o impronte digitali è un modo per realizzare qualcosa che sia il pezzo unico di una serie infinita, esattamente come accade nella natura, che il grande Alvar Aalto definiva “il migliore comitato di standardizzazione esistente”, proprio perché capace di creare pezzi unici in serie.

Basati sull’unicità dei corpi sono, per esempio, i gioielli di Gerd Rothmann, maestro del jewelry design contemporaneo che ingloba nelle sue creazioni le impronte digitali e realizza calchi corporei che vengono indossati, trasformando in puro metallo le parti fisiche.

A un altro tipo di impronta, quella vocale, è dedicato, invece, il lavoro del 2009 di Studio Nocc. In questa serie la voce genera onde, uniche come chi le emette, e queste vengono registrate, graficizzate in logaritmi e trasformate, grazie alla stampa 3D, nella forma di svariati oggetti. Il futuro acquirente può così pronunciare, per esempio, la parola “vaso” e vederla trasformata nella forma di un vero vaso iper-personale.

Ricordiamo che le prime 3D printing machines sono state create per l’uso medico customizzato, come strumenti per realizzare protesi e organi da trapianto su misura. Lavorando sul significato più concettuale di questa provenienza, Veronica Ranner nel 2011 ha realizzato il progetto “Biophilia. Organ Crafting”.

Il punto di partenza di questo lavoro, a metà strada tra design, arte e scienza, è stato proprio l’osservazione di come gli organi da trapiantare provengano o da produzioni 3D printed oppure da donazioni umane.

La Ranner, al contrario, immagina una coltivazione di organi biocompatibili realizzati da bachi da seta geneticamente modificati e indirizzati in una forma “customizzata”, grazie alla quale viene rivoluzionato tutto l’impatto fisico delle procedure mediche, ma soprattutto quello psicologico. Infatti, una valvola cardiaca o un’incubatrice, realizzati su misura da esseri naturali, assumono un valore emozionale completamente differente dalla fredda logica del pezzo di ricambio stampato o espiantato.

Ma, se in questo futuribile progetto prevale l’idea di un su misura organico da innestare nel corpo umano, in altri casi sono proprio le parti corporee a divenire materia prima per nuovi oggetti iper-personalizzati.

Studio Swine, per esempio, ha di recente realizzato la serie “Hair Highway”, utilizzando capelli umani affogati nella resina. L’effetto è decisamente sorprendente e più poetico della descrizione letterale del processo.

Il capello umano qui viene valutato come risorsa alternativa rinnovabile, con impatto zero sull’ecologia del pianeta. Formalmente i designer si sono ispirati agli oggetti della dinastia cinese Qing degli anni ’20, nei quali lo Shanghai-Déco style si distingueva spesso in lussuosi set da toilette o da scrivania, un tempo realizzati proprio con materie prime naturali come avorio e tartaruga, che oggi sono giustamente messe al bando da chi preserva specie animali in via d’estinzione.

Esistono poi anche modalità più immateriali per l’iper-personalizzazione. La creatrice di essenze Sissel Tolaas da anni campiona odori di ogni tipo generando una delle più grandi olfattoteche del mondo. Nelle migliaia di boccette del suo archivio sono contenute essenze, profumi, odori tra i più disparati, tanto da permetterle di ricreare addirittura il profumo di una città. Il segreto è la sovrapposizione stratificata di rimandi olfattivi, esattamente come quando questo celebre “naso” realizza fragranze ad personam nelle quali miscela una sintesi di odore corporeo personale con essenze naturali, fiorate o muschiate che siano.

Quali saranno a questo punto le prossime frontiere dell’iper-personale? Da un lato, senz’altro quelle concettuali, come ben rappresentato dalle Nature Morte di Andrea Branzi del 2011, dove frammenti di lastre radiografiche ci rammentano che “gli oggetti non sono mai stati strumenti muti, ma testimoni del nostro destino; lanterne nel buio della storia che esorcizzano le nostre paure e guidano la nostra mente”. E, senza arrivare alla macabra proposta di un’agenzia funebre che invita smaliziate vedove a trasformare le ceneri del defunto in diamanti, il riferimento al corpo spesso continuerà a evocare la caducità della materia.

Dall’altro lato, la via dell’iper-personalizzazione viene sfruttata sempre più come codice di sicurezza: che si tratti di un gesto, della scansione dell’iride o della lettura di un’impronta digitale, quello che un tempo compariva solo nei film di fantascienza è diventato un modo concreto di accedere alla nostra tecnologia portatile, di viaggiare o di conservare beni preziosi.

Tuttavia, in ultima analisi, persiste il dubbio che questi oggetti iper-personali nascondano un desiderio narcisista di protagonismo nel quale, come diceva Baudrillard, “è chiaro che il soggetto, nella sua stessa esigenza di essere soggetto, non fa altro che produrre se stesso come oggetto della domanda economica. (…) Ma quello che rimane è la pura illusione di una differenziazione personale”.

di Domitilla Dardi

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Andrea Branzi, “Nature Morte”, Galleria Clio Calvi Rudy Volpi, 2011.
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Combinando capelli umani con una resina naturale, Studio Swine ha inventato un materiale composito con cui ha realizzato, per Pearl Lam Galleries, la collezione di oggetti Hair Highway.
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Studio Swine: grazie alla sua estetica esotica, il materiale diventa un’originale e sostenibile alternativa al corno e ai legni tropicali.
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Gerd Rothmann: bracciale in oro “Vier-Finger-Armreif”, 1992. Il gioiello ingloba le impronte digitali di chi li indosserà. (Courtesy Galleria Antonella Villanova)
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Gerd Rothmann: anello in oro “Siegelring Nr. 1”, 1986. Il gioiello ingloba le impronte digitali di chi li indosserà. (Courtesy Galleria Antonella Villanova)
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Studio Nocc: la configurazione dei prodotti Object of Sound varia da voce a voce.
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Ideata dallo studio di design parigino Nocc, Object of Sound è una collezione di oggetti – un portacandele, un paralume e un vaso – le cui forme sono generate da quelle delle onde sonore registrate quando i nomi degli oggetti vengono pronunciati.

Quando nel 1968 Jean Baudrillard scrive “Il sistema degli oggetti” gli effetti del consumismo sono nella fase ascendente di una parabola che ancora oggi non accenna a diminuire. Come notava ai tempi il filosofo francese, alla proliferazione dell’offerta si accompagna, quale ineludibile effetto collaterale, il desiderio di distinzione del prodotto.

Oggi come ieri, l’ambizione alla differenziazione rispetto a una massa resta un traguardo capace di attrarre gli acquirenti più esigenti. Prima regola per alimentare questo sentimento sta nel creare aspettativa ed esclusività e le limited edition sono state per diverso tempo il migliore degli escamotage per rendere l’acquirente di nuovo soggetto selezionatore e collezionista. Ma gli oggetti del desiderio contemporanei sono quelli che rendono unici i multipli seriali, fino ad arrivare a quelli che potremmo definire beni “iper-personali”.

Da qualche anno a questa parte, infatti, l’alleanza con le tecnologie ha prodotto oggetti non solo smart, ma anche unici, sebbene appartenenti alla serialità. Qui non si tratta più di glorificare il difetto o il malfatto, come faceva Gaetano Pesce negli stessi anni in cui Baudrillard pubblicava i suoi ragionamenti. Nè di antropomorfizzare le forme con un linguaggio figurativo intriso di “sex-appeal dell’inorganico”.

Oggi a determinare la via della personalizzazione è il corpo stesso. Il segreto dell’unicità di ognuno di noi è racchiuso nelle nostre impronte, ma anche nel dna delle nostre cellule. Allora fare oggetti che includono campioni organici o impronte digitali è un modo per realizzare qualcosa che sia il pezzo unico di una serie infinita, esattamente come accade nella natura, che il grande Alvar Aalto definiva “il migliore comitato di standardizzazione esistente”, proprio perché capace di creare pezzi unici in serie.

Basati sull’unicità dei corpi sono, per esempio, i gioielli di Gerd Rothmann, maestro del jewelry design contemporaneo che ingloba nelle sue creazioni le impronte digitali e realizza calchi corporei che vengono indossati, trasformando in puro metallo le parti fisiche.

A un altro tipo di impronta, quella vocale, è dedicato, invece, il lavoro del 2009 di Studio Nocc. In questa serie la voce genera onde, uniche come chi le emette, e queste vengono registrate, graficizzate in logaritmi e trasformate, grazie alla stampa 3D, nella forma di svariati oggetti. Il futuro acquirente può così pronunciare, per esempio, la parola “vaso” e vederla trasformata nella forma di un vero vaso iper-personale.

Ricordiamo che le prime 3D printing machines sono state create per l’uso medico customizzato, come strumenti per realizzare protesi e organi da trapianto su misura. Lavorando sul significato più concettuale di questa provenienza, Veronica Ranner nel 2011 ha realizzato il progetto “Biophilia. Organ Crafting”.

Il punto di partenza di questo lavoro, a metà strada tra design, arte e scienza, è stato proprio l’osservazione di come gli organi da trapiantare provengano o da produzioni 3D printed oppure da donazioni umane.

La Ranner, al contrario, immagina una coltivazione di organi biocompatibili realizzati da bachi da seta geneticamente modificati e indirizzati in una forma “customizzata”, grazie alla quale viene rivoluzionato tutto l’impatto fisico delle procedure mediche, ma soprattutto quello psicologico. Infatti, una valvola cardiaca o un’incubatrice, realizzati su misura da esseri naturali, assumono un valore emozionale completamente differente dalla fredda logica del pezzo di ricambio stampato o espiantato.

Ma, se in questo futuribile progetto prevale l’idea di un su misura organico da innestare nel corpo umano, in altri casi sono proprio le parti corporee a divenire materia prima per nuovi oggetti iper-personalizzati.

Studio Swine, per esempio, ha di recente realizzato la serie “Hair Highway”, utilizzando capelli umani affogati nella resina. L’effetto è decisamente sorprendente e più poetico della descrizione letterale del processo.

Il capello umano qui viene valutato come risorsa alternativa rinnovabile, con impatto zero sull’ecologia del pianeta. Formalmente i designer si sono ispirati agli oggetti della dinastia cinese Qing degli anni ’20, nei quali lo Shanghai-Déco style si distingueva spesso in lussuosi set da toilette o da scrivania, un tempo realizzati proprio con materie prime naturali come avorio e tartaruga, che oggi sono giustamente messe al bando da chi preserva specie animali in via d’estinzione.

Esistono poi anche modalità più immateriali per l’iper-personalizzazione. La creatrice di essenze Sissel Tolaas da anni campiona odori di ogni tipo generando una delle più grandi olfattoteche del mondo. Nelle migliaia di boccette del suo archivio sono contenute essenze, profumi, odori tra i più disparati, tanto da permetterle di ricreare addirittura il profumo di una città. Il segreto è la sovrapposizione stratificata di rimandi olfattivi, esattamente come quando questo celebre “naso” realizza fragranze ad personam nelle quali miscela una sintesi di odore corporeo personale con essenze naturali, fiorate o muschiate che siano.

Quali saranno a questo punto le prossime frontiere dell’iper-personale? Da un lato, senz’altro quelle concettuali, come ben rappresentato dalle Nature Morte di Andrea Branzi del 2011, dove frammenti di lastre radiografiche ci rammentano che “gli oggetti non sono mai stati strumenti muti, ma testimoni del nostro destino; lanterne nel buio della storia che esorcizzano le nostre paure e guidano la nostra mente”. E, senza arrivare alla macabra proposta di un’agenzia funebre che invita smaliziate vedove a trasformare le ceneri del defunto in diamanti, il riferimento al corpo spesso continuerà a evocare la caducità della materia.

Dall’altro lato, la via dell’iper-personalizzazione viene sfruttata sempre più come codice di sicurezza: che si tratti di un gesto, della scansione dell’iride o della lettura di un’impronta digitale, quello che un tempo compariva solo nei film di fantascienza è diventato un modo concreto di accedere alla nostra tecnologia portatile, di viaggiare o di conservare beni preziosi.

Tuttavia, in ultima analisi, persiste il dubbio che questi oggetti iper-personali nascondano un desiderio narcisista di protagonismo nel quale, come diceva Baudrillard, “è chiaro che il soggetto, nella sua stessa esigenza di essere soggetto, non fa altro che produrre se stesso come oggetto della domanda economica. (…) Ma quello che rimane è la pura illusione di una differenziazione personale”.

di Domitilla Dardi