Le soluzioni formali basate sulla geometria vantano una lunga tradizione nella storia del design. Dal protorazionalismo della sedia rossa e blu di Rietveld, fino ai mobili totemici di Sottsass, la composizione a solidi geometrici è stata di volta in volta la chiave logica per il contenimento formale dell’oggetto o per la sua dispersione nello spazio. Anche oggi, il raggruppamento di coni, cubi e cilindri assume una declinazione in linea con il nostro tempo, segnato dalla ridislocazione digitale di tecnica ed estetica.
Ecco allora che nella seduta Keystone di Os & Oos per Please Wait to be Seated, così come nel vaso n. 70 dello studio newyorkese Kelly Behun, la concezione dell’oggetto come somma di blocchi geometrici va a posizionarsi all’incrocio tra due dei principali linguaggi del design contemporaneo: quello della ‘costruzione ovvia’ (si veda Interni n. 630), e quello della grafica usata come materiale ‘solido’ nella composizione degli oggetti (Interni n. 644).
Più specificatamente, l’attuale linguaggio geometrico condivide con il filone della costruzione ovvia la concezione dell’oggetto quale somma di ‘parti senza un tutto’, come nella lampada Italic di Flip Sellin e Philipp Brosche dello studio berlinese Coordination. Mentre ha in comune con il filone della grafica ‘solida’ la definizione del prodotto tramite addizione algebrica di blocchi cromatici compatti, come nel tavolo Pick ‘n’ Mix di Daniel To e Emma Aiston per Tait.
Non solo la forma, in effetti, anche il colore ha qui un ruolo fondamentale. Caratterizzati da una gestione cromatica analoga a quella delle icone su smartphone e tablet, progetti come lo specchio Ora e il cabinet Cache di Zoë Mowat, o i tavolini 3 Legs dello Studio Nomad, favoriscono uno scenario d’arredo che presenta nell’insieme lo stesso layout visivo di un’interfaccia grafica: dolce, raggiato, rigoroso.
Il che si rileva anche in casi di maggiore attenzione alle esigenze di mercato, come la cucina Pampa di Alfredo Häberli per Schiffini e il calorifero Rift di Ludovica + Roberto Palomba con Matteo Fiorini per Tubes.
La discontinuità che queste estetiche di derivazione digitale introducono rispetto alla precedente storia del design non è solo un effetto di superficie. Al contrario, riguarda le faglie più profonde della cultura del progetto. Con l’avvento dell’elettronica il prodotto è infatti entrato in un processo di mutazione genetica che ha reso l’esibizione della struttura tecnica sempre meno definitoria dal punto di vista semantico.
Tale processo è stato poi portato a compimento dall’evoluzione digitale della tecnica, divenuta del tutto incorporea e, pertanto, priva di una propria estetica ‘naturale’ (da qui la necessità dell’interfaccia come livello di progettazione specifico).
Così, se il ventesimo secolo ha visto la ‘transustanziazione’ estetica della tecnica come momento decisivo nella definizione formale dell’oggetto moderno, oggi questa transustanziazione non è più possibile, né, quindi, semanticamente rilevante.
Gli utenti digitali sono infatti abituati ad interagire con device percepiti come affidabili anche se non se ne può vedere il corpo tecnico, di fatto completamente fantasmatizzato. E se questa è la sorte dell’anima tecnica in epoca digitale, per quanto riguarda l’anima estetica essa non è più radicata nella tradizionale metafisica dell’oggetto – impenetrabile perché saturo di ‘inerzia esistenziale’, come un uovo sodo – ma in una nuova metafisica digitale generata dalla fluidificazione dell’oggetto in brandelli di forma e funzione, come un uovo sbattuto.
Il linguaggio a blocchi geometrici costituisce, in questo senso, un nuovo ‘postmoderno’, erede dell’omonimo design italiano degli anni Ottanta e, sulla scia di questo, collocato oltre il territorio formale del Moderno, in un mondo in cui il digitale ha interrotto ogni corrispondenza tra forma e funzione.
di Stefano Caggiano