Giulio Iacchetti debutta nel ruolo di art director di Danese con una collezione di oggetti pensata per creare legami tra il passato e il presente. Perché, spiega il progettista, non basta più celebrare la storia: bisogna portare il design fuori dal mondo degli addetti ai lavori e creare un dialogo con il pubblico di oggi

Da alcuni mesi, Giulio Iacchetti, forse il più importante designer italiano della generazione degli Anni Zero, si occupa della direzione artistica di Danese, per la quale ad aprile ha presentato la collezione “Ricuciture”: interventi progettuali finalizzati a mettere in relazione il passato e il presente del marchio. In tutto dodici tra nuovi progetti e riedizioni riconducibili a tre direzioni di ricerca: lo sguardo al passato, agli oggetti che hanno fatto la storia di Danese e che meritano di essere riscoperti nella loro attualità; la creazione di oggetti di relazione, capaci cioè di dialogare tra loro e con famiglie di prodotti già esistenti; l’esplorazione di aree non ancora indagate dall’azienda milanese, come quella dell’accessorio per la persona.

Giulio Iacchetti
°
Giulio Iacchetti, industrial designer dal 1992, progetta per diversi marchi. È direttore artistico di Danese Milano, Dnd, Moleskine, Myhome e Internoitaliano. Tra i suoi caratteri distintivi, la ricerca e la definizione di nuove tipologie oggettuali come il Moscardino, posata multiuso biodegradabile, disegnata con Matteo Ragni per Pandora Design e premiata nel 2001 con il Compasso d’Oro. Nel 2009 è stato insignito del Premio dei Premi per l’innovazione conferitogli dal Presidente della Repubblica Italiana per il progetto Eureka Coop. Nel maggio 2009 la Triennale di Milano ha ospitato la sua personale intitolata “Giulio Iacchetti. Oggetti disobbedienti”. Nel novembre 2012 lancia Internoitaliano, la “fabbrica diffusa” fatta di tanti laboratori artigiani con i quali firma e produce arredi e complementi ispirati al fare e al modo di abitare italiani. Nel 2014 vince il suo secondo Compasso d’Oro per la serie di tombini Sfera, disegnata con Matteo Ragni per Montini.

Bisogna avere trenta parti di solida conoscenza, trenta di leggerezza, trenta di passione e dieci di? dimmelo tu... per portare avanti il lavoro che stai facendo con Danese.

A passione, leggerezza e conoscenza aggiungo un 10% di rispetto per la storia del brand, per chi ci lavora, per chi la dirige e ci investe del suo, per una storia radicale che richiede altrettanta radicalità. Con un’azienda come Danese, il rischio di trasformarsi da art director a conservatori e restauratori di antichità diventa molto forte, se ci si attiene a un ruolo da cultori della materia. Enzo Mari, tanti anni fa, ha avuto l’intuizione di porre sul tavolo della Danese una putrella di acciaio e di chiamarla vassoio; per rispetto a quella storia noi non possiamo limitarci a spolverarla come fosse un reperto archeologico, ma è quasi un obbligo morale provare a tracciare un percorso di pari intensità e coraggio.

Dici che il tuo lavoro per Danese è una sorta di ‘laboratorio’, una parola che da una parte esprime una precisa responsabilità, dall’altra una condizione di privilegio: quello di sperimentare, fare errori, tentativi, eventuali scoperte da gestire. Che forma ha un ‘laboratorio’ in senso contemporaneo e sostenibile?

Il laboratorio è il luogo della sperimentazione, dei tentativi, dei percorsi (nuovi) da testare; è il contrario della fabbrica dove i processi, essendo già testati, procedono lungo una monotona catena di montaggio. Con Danese vorrei dare tempo al pensiero di plasmarsi attorno a nuove idee di distribuzione, di proposizione dei prodotti, di alleanze da stringere tra brand compatibili ed equipollenti dal punto di vista dell’immagine, della forza comunicativa... Vorrei provare a creare percorsi di contemporaneità guardando la rete, il mondo digitale, provando a dialogare con i grandi players che si muovono sulla scena internazionale del progetto.

Il laboratorio è il luogo della sperimentazione, dei tentativi, dei percorsi (nuovi) da testare; è il contrario della fabbrica dove i processi, essendo già testati, procedono lungo una monotona catena di montaggio"

Ho l’impressione che l’etichetta di ‘direttore artistico’ ti stia un po’ stretta. Più in generale, mi viene da dire che oggi inevitabilmente chi progetta per un’azienda, a tutti i livelli, non può non progettare anche il mercato, la distribuzione, un nuovo pubblico.

Dipende cosa si intende per direzione artistica. Nel nostro mondo purtroppo è intesa come un’occupazione militare di tutti i ruoli creativi all’interno di un’azienda. Per me significa invece circondarsi di intelligenze progettuali altre da sé per essere pronti e preparati alle nuove sfide del mercato. Il tema vero infatti è cercare sempre nuovi interlocutori con cui relazionarsi, un nuovo pubblico per nuovi prodotti.

A mio avviso i brand storici del design si cullano nell’idea di occupare un posto fisso nell’immaginario delle generazioni: ovviamente non è così, e non basta essere presenti nelle collezioni permanenti dei più importanti musei del design per ritenersi al di sopra dei giochi. Dei brand, storici o meno, ci si dimentica in fretta. È necessario quindi rompere il cerchio magico degli addetti ai lavori e del pubblico storico di riferimento (che ti vorrebbe cristallizzato all’interno di un mondo nostalgico e malinconico) per andare incontro alle nuove generazioni con prodotti corretti, calibrati alle nuove esigenze, che offrano lo spunto per raccontare, una volta ottenuto l’ascolto e la giusta attenzione, di cosa è stata capace Danese con i suoi prodotti mitici e iconici.

Siamo condannati (felicemente) a pensare e guardare oltre il prodotto. Disegnare mi piace sempre, ma mi piace anche tratteggiare nuovi scenari dove i brand si muovono, si uniscono, collimano lo sguardo verso obiettivi condivisi per poi tornare a vivere un percorso autonomo"

È possibile che il ruolo tradizionale di designer, così come lo intendi nella tua poetica, si espanda verso la progettazione dei processi, dei sistemi, delle economie? È questa una nuova via ‘politica’ per il design, secondo te?

Siamo condannati (felicemente) a pensare e guardare oltre il prodotto. Disegnare mi piace sempre, ma mi piace anche tratteggiare nuovi scenari dove i brand si muovono, si uniscono, collimano lo sguardo verso obiettivi condivisi per poi tornare a vivere un percorso autonomo... Ovviamente mi sono già fatto un’idea dei passi da muovere in questa direzione, ho già chiamato giovani e bravi designer per lavorare in modo mirato e preciso guardando a questi obiettivi che sono condivisi e sostenuti da Carlotta de Bevilacqua (presidente dell’azienda, ndr): lei mi ha accolto tanti anni fa in Danese come semplice progettista, concedendomi attenzione e fiducia. Adesso, con un altro ruolo ma ancora insieme, vogliamo dare a questo marchio un futuro che sia intenso quanto il suo passato.