illustrazione di Paolo Giacomazzi
Se il design italiano è in crisi, allora lo è anche quello olandese, scandinavo, francese, inglese, americano, brasiliano, austriaco, tedesco, sudafricano, giapponese.
È un problema di assenza di scenario? In parte sì: l’epoca eroica del design (e del contro-design) non è stata sostituita da una nuova generazione portatrice della medesima carica visionaria su ipotesi di lunga prospettiva. Inoltre, storiche realtà produttive sono entrate in crisi, si è smarrita un’identità collettiva e plurale, il realismo ha sostituito l’utopia. Ma si tratta di un problema diffuso, non solo al design, non esclusivamente a quello italiano. E poi, proprio nel nostro paese, nell’ultimo quindicennio quelle istanze sono state sostituite nel design con esperienze di singoli, con la loro industriosità e l’allargamento delle intelligenze, un nuovo pragmatismo da una parte e un diverso sperimentalismo dall’altra, un genere di ‘impegno’ forse più ‘disimpegnato’ ma anche più agile, elastico. Il design italiano, oggi lungi dall’essere morto, vive in una proliferazione di micro fenomeni e poetiche (sul tema è in uscita, per i tipi di Laterza, il libro di Chiara Alessi “Dopo gli anni Zero. Il nuovo design italiano”, ndr). È un problema di limitatezza del prodotto? Basta con sedie, divani, lampade, tavoli, posate? Se è così, il problema riguarda anche i nomi acclamati del design internazionale. Ma non riguarda il design in sé, che ha funzionato benissimo finché qualcuno non ha iniziato a chiedersi quale fosse realmente il suo ruolo nel guarire e trasformare il mondo. Quello di preoccuparsi della bellezza delle cose che ci circondano è divenuto a un certo punto un contributo sottovalutato e demodé, “una questione di forme”. Si è contestato a chi fino a ieri si era occupato di risolvere piccoli conflitti funzionali o dare forma a dei gesti che il vero design è quello che si occupa di organizzazione, di tecnologia e interfaccia, di servizi. Come dire a un meccanico che il mestiere del chirurgo è più interessante perché si occupa di aggiustare vite umane anziché macchine. Se il design italiano non ha salvato il mondo non è colpa del design, ma di chi si aspettava che, di colpo, il designer abbandonasse i suoi strumenti di lavoro e i suoi prodotti per mettersi a fare l’ingegnere o il fisico o l’economista. Questo non significa che il designer non debba prestare attenzione sempre più alla tecnologia, alla scienza, all’economia, all’ecologia, alla letteratura stessa. In questo, è vero, c’è ancora molto ritardo e arretratezza. Ma come non chiederemmo a un meccanico di svestire il pomeriggio la tuta per indossare la sera il camice, solo per il fatto che sono più importanti le persone delle auto, non si capisce perché i designer di prodotto debbano convertirsi a un altro mestiere, il cui unico vero problema è quello di ricadere sotto la stessa metafora semantica di ‘progettazione’. Senza contare l’importanza del pluralismo delle professioni (quanti di noi farebbero riparare la propria macchina da un chirurgo?) e la tradizione del design italiano innanzitutto nel prodotto (quanti di noi sceglierebbero di mangiare da un pizzaiolo coreano anziché napoletano?). È allora un problema di segno a far sì che la produzione italiana sia meno interessante di quella straniera? Ammesso che abbia senso oggi parlare di nazionalismi nel design, l’Italia è la patria del design italiano, ma anche di quello olandese, scandinavo, francese, inglese, tanto quanto lo sono le loro nazioni di appartenenza. Con l’attuale propagazione delle informazioni generate dal sistema mediatico, le connessioni tra latitudini diverse offerte dalla rete danno vita a un sistema rizomatico in cui si muovono attori che parlano un linguaggio sempre più simile, mediaticamente modificato, misto e intercambiabile. Rispetto a quanto non ci piacerebbe pensare, la maggior parte dei designer italiani attualmente operanti sono il meno italiani possibili e fanno cose da olandesi, francesi, scandinavi, giapponesi… Viceversa quanti designer stranieri nel tempo hanno messo base in Italia, contribuendo inevitabilmente a modificare il dna del design nazionale? È un problema di eredità dei magisteri degli anni 70 e mancata sostituzione di quei maestri? Sì, ma in un senso diverso rispetto a quanto siamo abituati a pensare, con gli svantaggi della consuetudine e i vantaggi del fatto che si tratta di limiti secondari e per lo più simbolici. D’altronde, all’estero, dove non c’è stata una tradizione gigantista di maestri, questo ha per caso avvantaggiato l’insediarsi di nuove guide nel design o favorito la nascita di icone sostitutive? È un problema di aziende? Solo relativamente. Intanto perché non vale più il sillogismo per cui sarebbero quelle dieci aziende storiche (a cui si lamenta il fatto di essere sempre più orientate alla collaborazione con stranieri) a fare la vera differenza, sia in termini di occupazione che di fatturato. Poi perché comunque alcune di esse collaborano in effetti anche con italiani e anche con giovanissimi (vedi Cappellini), e infine perché soprattutto i designer italiani hanno saputo mettere in atto accorgimenti alternativi, sia nel rapporto con le aziende vecchie e nuove, sia verso le diverse combinazioni aziendali, sia dando vita a esperienze singolari, ‘pop up’, dissociate, in cui riconvertire il ruolo di progettista, o estenderlo a settori confinanti, come il mondo della produzione e della distribuzione, disegnando nuove ipotesi, più o meno effimere. È un problema economico? Certo il designer italiano abita un sistema sempre più competitivo e improvvisato, recessivo e cauto, ma quale settore non lo è oggi? Stanno meglio gli insegnanti? I giornalisti? I fotografi? Gli architetti? Inoltre, rispetto ad altri mestieri, quello del designer è uno dei pochissimi che permette di avviarsi una carriera abbastanza presto, con i rischi ma anche le premesse che questo implica. Quanti giovani designer aprono un proprio studio a soli due o tre anni dalla laurea? E quanti avvocati? Proprio dal nostro settore vengono segni se non incoraggianti, almeno consolanti: aumenta il numero degli iscritti alle scuole, ne nascono di nuove e le vecchie vengono rilanciate; mai come oggi, il design è un principio attivo interstiziale che agisce su vari livelli, sempre più riconosciuto nel suo valore anche da un pubblico allargato; mestiere inclusivo come mai, il designer è una figura mitologica metà progettista e metà grafico, architetto, docente, manager, editore, art director, artista, artigiano, ingegnere etc. estremamente adattabile e combinabile anche in un sistema in cui l’offerta supera sempre più la domanda. Qual è allora il problema vero del design italiano oggi? L’anoressia. Il design italiano si guarda allo specchio e si vede brutto, non all’altezza, non in grado di competere con un modello imposto da certi blog, certa critica, certa comunicazione. È un problema di strumenti: quando si guarda al presente cercando le conferme, le presenze e le legittimazioni del passato è chiaro che lo sguardo sulla contemporaneità vacilla; quando cambiano i canoni del giudizio e si guarda con occhi nuovi, bisognerebbe cercare di tenere fermo anche l’oggetto della propria analisi. Invece siamo più impietosi col nostro design di quanto non siamo con le varie espressioni di quello straniero; da critici siamo sempre più affascinati dalle misteriose espressioni di qualche giovane sconosciuto che lavora in una baita nell’angolo remoto della Svizzera o in una capanna africana, anziché di uno studente del Politecnico. Dopo averci mangiato per anni, adesso pare che nessuno abbia voglia di riempirsi di design italiano, anche se ce ne sarebbe per tutti i gusti, e anche se forse mai più di ora il design in Italia è stato così affamato. Non nutrendolo come si deve, qualcuno si sta precipitando a farlo estinguere anzi tempo. Ah, non è neanche un problema di fiere. È un problema dei media: adesso va di moda un’altra taglia.