Lo studio newyorkese Diller Scofidio + Renfro (DS+R), in collaborazione con Rockwell Group, arricchirà la città
di New York di un nuovo, straordinario spazio pubblico. In un’intervista esclusiva Liz Diller, co-founder dello studio,
ci spiega come rilancia l’area urbana del West Side
Foto di Iwan Baan e/and Tim Schenck, courtesy DS+R – Testo di Laura Ragazzola
Elizabeth Diller, founder insieme a Ricardo Scofidio nel 1981 dello studio DS+R (nel 2004 si è aggiunto Richard Renfro e nel 2015 Benjamin Gilmartin), da sempre ci ha abituato a progetti estremamente innovativi e di grande successo popolare: fra tutti, il recupero a New York di un’obsoleta infrastruttura ferroviaria trasformata nell’High Line, un parco pubblico lungo 1,5 miglia.
E anche il suo più recente lavoro, che sarà inaugurato sempre a New York nella primavera del 2019, promette di far parlare di sé, per l’originalità dell’approccio e gli effetti sulla vita culturale e sociale nel West End. Ecco che cosa lei stessa ci ha anticipato di questo nuovo intervento, The Shed.
Architetto Diller, prima di parlare di quello che state facendo a New York, vorrei chiederle: lei è ottimista riguardo all’architettura?
Il percorso professionale del nostro studio mi ha portato a essere ottimista. Nell’ultimo decennio siamo riusciti a realizzare su scala urbana così tanto da produrre qualche cambiamento reale nella nostra città (e lo stesso abbiamo fatto anche in altre città). Io penso che occorra essere ottimisti anche pensando che fatalmente le cose debbano decadere prima che tornino a migliorare e a rinascere. Io devo tutto a una certa ingenuità. E alla fortuna di aver avuto, quando servivano, le persone giuste e le forze giuste per far avvenire le cose.
Come pensa che l’architettura possa migliorare la qualità di vita delle persone nelle città?
Io sono fortemente convinta che gli architetti debbano sentirsi coinvolti nelle scelte politiche, anche se mi rendo conto che spesso può essere necessario il supporto delle pubbliche amministrazioni perchè questo avvenga. Viviamo in tempi caratterizzati dalla privatizzazione degli spazi e da significativi flussi migratori che interessano le città. Gli architetti devono costantemente porsi la questione di quanto sia pubblico e quanto sia privato. È un bilanciamento di cui dobbiamo essere molto consapevoli.
Il suo studio si muove in questa direzione?
Penso che l’impatto della High Line sia stato molto interessante da osservare. Quando fu proposta, all’inizio, pensavamo fosse un grande risultato avere 300 mila visitatori l’anno. Quell’obsoleta infrastruttura ferroviaria era circondata da un mare di parcheggi aperti, e i proprietari degli immobili nell’area volevano che venisse abbattuta perchè svalutava i terreni.
L’anno scorso sette milioni di persone anno visitato l’High Line e il costo delle proprietà adiacenti è schizzato in alto. Dove una volta c’erano muri ciechi sotto i quali si muovevano i treni, ora trovi edifici di vetro orientati in modo da godere delle viste migliori sull’High Line.
Penso che se la città avesse potuto prevederlo, avrebbe potuto assicurare più diversità, più residenze per le fasce a reddito basso, più spazio per gli artisti. Ma è ancora possibile cambiare le cose, attraverso politiche che permettano un dialogo aperto tra cittadini e istituzioni municipali.
Ci può parlare di The Shed?
Lo Shed, che abbiamo progettato in collaborazione con Rockwell Group, sarà il primo centro a New York dedicato a commissionare, produrre e presentare tutti i tipi di arti performative, visuali e legate alla cultura popolare.
L’idea centrale di The Shed è la flessibilità, che consente di far fronte a qualunque esigenza culturale. Perchè non sappiamo come sarà l’arte del futuro, ma sappiamo che lo spazio è limitato e dobbiamo proteggerlo. E possiamo essere certi che ci sarà sempre bisogno di spazio variabile per altezza e dimensione, di capacità di carico strutturale, di energia elettrica . Una soluzione possibile, secondo noi, è quello di realizzare delle ‘architectures of infrastructure‘, proprio come The Shed.
Ci spiega come funziona?
L’edifico è una struttura fissa alta sei piani, dotata di un guscio esterno telescopico retrattile, che si apre e chiude a seconda delle esigenze, scorrendo su binari lunghi circa 83 metri sino a coprire la piazza adiacente. In questo modo si guadagna spazio coperto, che a sua volta può essere isolato dall’esterno e attrezzato con sedute per spettacoli, oppure lasciato vuoto come una piazza coperta a disposizione dei cittadini.
Insomma con The Shed avete attuato un’azione di difesa e contemporaneamente di sottrazione dello spazio pubblico?
Esattamente. Accanto a The Shed abbiamo anche progettato il nostro primo grattacielo, anch’esso in collaborazione con Rockwell Group. I piani inferiori della torre contengono gli uffici, il magazzino, le attrezzature meccaniche di The Shed, mentre i restanti livelli dell’edificio sono destinati a residenze.
Questa torre residenziale serve a ‘proteggere’ The Shed attraverso una sorta di simbiosi urbana, di dialogo fra pubblico e privato, responsabile e consapevole. Ci ha consentito di preservare quella già esile presenza che la città ha riservato all’arte nel contesto dello sviluppo dello Hudson Yards.
Quando sarà completato?
Nella primavera del 2019. È un lavoro molto complesso dal punto di vista costruttivo, che trae ispirazione dalle infrastrutture dei bacini portuali e dei sistemi ferroviari…
In effetti The Shed ricorda i carroponte per il sollevamento e il trasporto dei materiali dai cargo…
Proprio così. Tra l’altro, la struttura dell’edificio è stata realizzata da un’azienda italiana, la Cimolai (storica impresa friulana con sede a Pordenone, ndr), specializzata in strutture d’acciaio per ponti e dighe, e in generale anche per grandi infrastrutture portuali. Abbiamo incontrato un team di ingegneri e artigiani specializzati straordinario; senza il loro know how e la loro abilità costruttiva questo edificio non esisterebbe.
Cosa avete in serbo per il futuro: un museo, un’università, un teatro?
Lo studio sta attualmente lavorando al Centre for Music a Londra, che sarà la nuova sede della London Symphony Orchestra, diretta da Simon Rattle, nel Barbican Complex. Inoltre stiamo anche lavorando alla Mile Long Opera, una performance che impegnerà mille cantanti lungo la High Line che ho progettato.
Prodotta e diretta con David Lang, è una riflessione sulla velocità di cambiamento della città e sulla condizione dell’uomo contemporaneo, preso tra la nostalgia di un passato che non è più possibile ritrovare e il timore che genera un futuro incerto.
E quando sarà rappresentata?
In ottobre a New York. Come ho detto si svolgerà lungo tutta la High Line e naturalmente sarà free of charge.