Il nome ‘associati’ cela l’identità di tre architetti: Massimo Lepore, Raul Pantaleo, Simone Sfriso, co-fondatori dello studio TAMassociati (nasce a Venezia, nel 1996). Ma la prima cosa che chiariscono quando ci incontriamo è che l’intervista non deve essere individuale. Mi spiegano che lavorano in tutto il mondo come un gruppo che condivide idee, progetti ed azioni e, anche in questa particolare occasione, desiderano presentarsi come un team. D’altro canto la collettività – o in senso più astratto, il bene comune – è sempre stato un chiodo fisso dei TAMassociati. Sino al punto da organizzare il loro studio come un’impresa sociale. Di questo abbiamo parlato.

Un grande maestro dell’architettura del Novecento – Oscar Niemeyer – diceva provocatoriamente che non bisogna cambiare l’architettura ma la vita…Secondo voi quali sono le nuove responsabilità dell’architettura del XXI secolo?
Forse è più appropriato parlare di responsabilità dell’architetto, come appartenente a una comunità di persone a cui si rivolge con il proprio lavoro. Che deve nascere in sintonia con le esigenze della società, degli individui e dei luoghi. Spesso citiamo, a tale riguardo, un altro grande maestro dell’architettura del Novecento, Giovanni Muzio, che diceva: “L’architettura è arte eminentemente sociale”. Questa è l’idea che ci ha sempre accompagnato nei nostri progetti: sin dall’inizio abbiamo cercato di far coincidere le nostre aspirazioni di individui, la nostra etica di cittadini con la professione che facciamo. Insomma per noi l’architettura è un servizio.

Chi sono i vostri committenti?
Siamo ‘un’agenzia creativa’ al servizio di quel mondo variegato fatto di onlus, volontariato, terzo settore, sino ad arrivare alla collaborazione con associazioni impegnate nella cooperazione internazionale. Sempre con gli occhi puntati verso un’architettura quotidiana, che si occupa di luoghi e guarda alle persone.

Quali sono i modi e le azioni per realizzare un’architettura sociale e responsabile?
Beh, diciamo che cercare le domande giuste è il punto di partenza per lavorare. Citiamo un paradosso che ci ha consegnato Alejandro Aravena parlando della ‘sua’ Biennale veneziana (il progettista cileno è il curatore della 15. edizione, ndr), e cioè: non c’è nulla di peggio che avere risposte giuste a domande sbagliate. In altri termini, partire dalle domande significa essere in sintonia con i luoghi e con le persone che vi abitano; significa innescare processi partecipativi, promuovendo atteggiamenti sempre aperti al dialogo.

Voi avete deciso di rispondere soprattutto alle domande di persone che vivono nei luoghi più remoti e trascurati del mondo…penso ai vostri progetti in Senegal, Sudan, Uganda, Afghanistan. Perché?
Sono luoghi che pongono delle domande molto scomode, ma che ci riguardano sempre di più, non dobbiamo dimenticarlo. I grandi flussi migratori non sono più eventi eccezionali, ormai appartengono alla quotidianità, e sono sempre più legati a realtà drammatiche con cui ci scontriamo tutti i giorni.
Da qui l’interesse (e l’urgenza) da parte nostra di offrire il bagaglio tecnico di architetti per cercare di venire incontro ai bisogni e alle esigenze di questi Paesi. Abbiamo avuto la fortuna di collaborare con associazioni come Emergency, con cui condividiamo ben 10 anni di progetti (l’ultimo in ordine di tempo il Refugee Health Centre Kurdistan, in Iraq, ndr) e altre organizzazioni no-profit che ci hanno dato fiducia, anche quando eravamo giovani architetti senza una grande esperienza di lavoro in luoghi così ‘difficili’. Abbiamo sicuramente imparato sul campo…

La vostra attività si è soprattutto concentrata su  scuole, ospedali, centri sociali. E il tema della residenza come lo affrontate? Anche  lì c’è bisogno di un atteggiamento responsabile?
Sicuramente. E abbiamo cercato di renderlo concreto partendo dal nostro contesto territoriale, dove in passato abbiamo esplorato il tema del social housing e, in tempi più recenti,  sviluppato progetti di cohousing, nei quali spazi individuali e collettivi vivono in simbiosi. Questi progetti oggi vengono spesso confusi con le cosiddette ‘comuni degli Anni 60’, ma sono realtà molto diverse. Le comuni nacquero con una forte matrice ideologica, mentre le iniziative di cohousing, nate negli anni 60 in Scandinavia e nel mondo anglosassone, hanno una motivazione assai più pragmatica: rispondere a una domanda abitativa e, contemporaneamente, a una richiesta di relazione con le persone.
Quando, a partire dal 2010, ci siamo messi gioco con questi progetti, in Italia non si sapeva ancora bene che cosa volesse dire cohousing. Ma in questi anni l’interesse è cresciuto, e i motivi sono evidenti. A poco a poco la famiglia della società ‘mediterranea’ ha perso il suo ruolo di collante di relazioni sociali, di welfare… anche nel nostro Paese oggi si parla di società ‘liquida’, e cioè una società fatta di nuclei familiari diversi fra di loro, di comunità differenti, che esprimono una nuova domanda di socialità, che a sua volta porta a cercare risposte diverse nell’ambito dei progetti residenziali.

Una visione sociale dell’architettura necessita anche di un occhio di riguardo alla sostenibilità ambientale…
La sostenibilità è diventato un termine scivoloso, se ne è molto abusato… Noi siamo stati e rimaniamo molto legati  a questo concetto: cerchiamo di svilupparlo in termini di semplicità e di appropriatezza, che in altre parole significa usare soluzioni tecnologiche  sempre commisurate  alle esigenze che il singolo progetto presenta. Mai nulla in più.  Abbiamo maturato la convinzione che l’architettura o è sostenibile oppure non è.

Un’ultima domanda: siete stati sorpresi  per essere stati selezionati fra i team a cui affidare la curatela del Padiglione Italia?
Moltissimo. E figuriamoci quando abbiamo saputo che eravamo stati nominati vincitori…

Beh, vi sarete anche abituati ai premi: nel 2014 siete stati nominati ‘Architetto dell’anno’ e contemporaneamente avete vinto il Zumtobel Group Award per l’innovazione e la sostenibilità dell’ospedale pediatrico in Sudan…solo per citare gli ultimi riconoscimenti in ordine di tempo, ma l’elenco è davvero lungo…
Siamo stati sempre coerenti con noi stessi, con il nostro agire quotidiano, con la nostra storia. Anche nel progetto del Padiglione Italia, dove abbiamo voluto affrontare il tema della periferia, non solo come luogo fisico, però, ma anche sul piano sociale (vedi nella sezione FuoriBiennale). C’è periferia, infatti, là dove c’è esclusione, degrado, abbandono. Anche questa volta per noi è stata un’occasione importante per capire (e dimostrare) come l’architettura di qualità può fare la differenza; come la condivisone e, soprattutto, la coralità di un’opera può dare valore aggiunto; come, infine, la concretezza e la semplicità di un progetto possano diventare risolutive anche in ambiti sociali difficili e, solo in apparenza, irrecuperabili.

Testo di Laura Ragazzola

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Un ritratto di Tamassociati: da sinistra, Simone Sfriso, Massimo Lepore, Raul Pantaleo.
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Il pluripremiato Centro pediatrico di Port Sudan, in Sudan: commissionato dalla ONG Emergency, è stato definito come l’ospedale più sostenibile e innovativo al mondo: un esempio concreto come qualità, funzionalità, bellezza e risparmio energetico possono convivere in un progetto ispirato ai criteri della semplicità e contenimento dei costi (ph. courtesy of Massimo Grimaldi and Emergency).
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Rendering del Maisha Film Garden in Uganda: fortemente voluto dalla regista indiana Mira Nair, il progetto è stato selezionato per la mostra ‘Reporting from the Front’ della 15. Biennale di Venezia. Il complesso, in corso di realizzazione con manodopera e materiali locali, sorgerà su una collina affacciata sul Lago Vittoria e ospiterà la scuola di cinema, laboratori d’arte e un parco pubblico.
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Rendering del Maisha Film Garden in Uganda.
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Rendering del Maisha Film Garden in Uganda.
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Modello del Maisha Film Garden in Uganda.
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Schizzi del Maisha Film Garden in Uganda.
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Il Centro pediatrico di Emergecy in Darfur, Sudan: la struttura ha fatto propri i principi abitativi della casa araba a corte ma dal punto di vista energetico funziona come una ‘macchina termica’ super efficiente che si adatta a condizioni climatiche estreme (courtesy ph. TAMassociati).
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Il Centro pediatrico di Emergecy in Darfur, Sudan.
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La mostra allestita al Padiglione Italia per la 15. Biennale di Venezia. Si intitola ‘Taking Care, Progettare per il bene comune’ e si articola in 3 diverse sezioni: Pensare, Incontrare, Agire (ph. Andrea Avezzù).
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La mostra Taking Care al Padiglione Italia per la 15. Biennale di Venezia (ph. Andrea Avezzù).
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La mostra Taking Care al Padiglione Italia per la 15. Biennale di Venezia (ph. Andrea Avezzù).
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La mostra Taking Care al Padiglione Italia per la 15. Biennale di Venezia (ph. Andrea Avezzù).