Courtesy by Royal Academy of Arts
Testo di Matteo Vercelloni
In alcune occasioni, nell’ambito di grandi esposizioni dedicate all’architettura ci si trova nell’imbarazzante situazione di osservare architetti che indossano la veste di artista, con risultati che oggettivamente provocano uno scarto, in riduzione, rispetto alla libertà che le espressioni dell’arte permettono in sé. Non è questo il caso della mostra Sensing Space: Architecture Reimagined, organizzata nelle prestigiose sale della Royal Academy londinese, curata dalla giovane Kate Goodwin, dove sette installazioni in bilico tra architettura e opera scultorea abitabile sono riuscite ad attivare uno stretto confronto e dialogo con lo spazio che le ha accolte e a produrre nel pubblico un’interessante fruizione emozionale.
Come spiegava Charles Saumarez Smith, chief executive dell’Accademia: “la Royal Academy rappresenta anche l’architettura, non solo la pittura e la scultura. Volevamo celebrare questo fatto, ma guardare all’architettura del futuro, non del passato, e soprattutto a un tipo di architettura che non si limita a risolvere problemi, ma regala esperienze nuove e imprevedibili”. È nata così l’idea di invitare sette architetti internazionali a progettare uno spazio visitabile, più che a esporre una rassegna di modelli e disegni delle loro realizzazioni, in modo da definire un ‘saggio’ on site appositamente calibrato, offerto al largo pubblico che ha visitato le sale della famosa istituzione museale londinese.
Afferma la curatrice: “Ho invitato di proposito architetti provenienti da diverse parti del mondo, di diverse generazioni e molteplici sensibilità, ma accomunati tutti da una grande esperienza nel campo della costruzione. L’obiettivo è stato quello di rendere l’esperienza del visitatore fisica, tangibile e sensoriale, ma anche di dare un’idea della grande poesia dell’architettura che è il sottofondo sempre presente delle nostre vite di cui spesso non ci rendiamo conto”. In effetti è proprio la rivalutazione poetica del progetto di architettura ciò che ha caratterizzato fortemente il percorso e l’insieme corale dell’esposizione; il sottolineare come anche nel presente l’architettura non sia una disciplina a carattere principalmente ‘funzionale’’, ma ricca di valori legati alla cultura umanistica in senso lato, di cui il valore poetico dell’espressione – in questo caso ‘costruita’ – è apparso come fattore guida.
Gli architetti coinvolti sono stati Grafton Architects (Irlanda), Diébédo Francis Kéré (Germania/Burhina Faso), Kengo Kuma (Giappone), Li Xiaodong (Cina), Pezo Von Ellrichshausen (Cile), Edoardo Souto de Moura e Álvaro Siza (Portogallo).
A tutti la richiesta è stata quella di tradurre in installazioni temporanee, dettate da una libera esplorazione degli elementi base dell’architettura, una serie di spazi visitabili caratterizzati da esperienze anche tattili, sonore e olfattive. Le diverse installazioni hanno offerto la possibilità al pubblico di capire come, oltre alla figura architettonica dell’ambiente, suono e memoria, odori e superfici, influiscano nella nostra personale percezione dello spazio offerto in modo globale a quattro dei cinque sensi umani canonici. La mostra iniziava già dall’esterno nella corte dell’Accademia dove Álvaro Siza aveva disposto dei laconici stilizzati elementi architettonici di colore giallo raccolti come frammenti di un’architettura che non c’è tra gli edifici classici al contorno. Eduardo Souto de Moura ha lavorato sulle antiche arcate lignee dell’Accademia, sdoppiate da calchi in cemento lasciati semi aperti come allusive porte d’ingresso.
Nell’interno, nella grande sala con stucchi dorati e soffitto vetrato, l’imponente struttura monumentale di legno di Pezo Von Ellrichshausen, con uno spazio sospeso sostenuto da quattro muti cilindri, concludeva in modo eloquente la prospettiva interna offrendo un inconsueto elevato punto di osservazione per i visitatori. Kengo Kuma si è ispirato al Ko-do – la cerimonia giapponese dell’olfatto – con un’eterea stanza di bambù fluttuanti, profumati e illuminati, che galleggiano nell’oscurità. Una serie di misteriosi labirintici passaggi e corridoi, scanditi da pareti composte da sottili rami d’albero (22 mila pezzi ), lavati da luci incassate a pavimento, hanno configurato l’affascinate opera di Li Xiaodong. Lo studio Grafton Architects ha pensato ad un’installazione sospesa che ridisegnasse il soffitto e l’uso della luce di una delle sale. Una nuova tettonica dello spazio interno, composta da un volume scavato di cemento a vista, comprimeva lo spazio catturando la luce zenitale in modo quasi pittorico da aperture e tagli disposti a scandire la geometria della superficie.
Una sorta di contaminazione tra un Igloo sezionato sull’asse mediano e un arco di cattedrale gotica in scala ridotta, costruito in pannelli di polipropilene a nido d’ape, disegnava lo spazio raccolto proposto dall’africano Diébédo Francis Kéré che accoglieva i visitatori invitati a trasformare la pelle architettonica della struttura inserendovi cannucce colorate. Sensing Spaces, “l’architettura rivelata” e restituita in una serie di installazioni, ha permesso, al di là del riuscito fattore spettacolare dell’esposizione, di riflettere sull’architettura come esperienza multisensoriale, in cui l’uomo è al centro del progetto per fruire dello spazio con il corpo e con la mente.
Sensing Spaces, “l’architettura rivelata” e restituita in una serie di installazioni, ha permesso, al di là del riuscito fattore spettacolare dell’esposizione, di riflettere sull’architettura come esperienza multisensoriale, in cui l’uomo è al centro del progetto per fruire dello spazio con il corpo e con la mente.
Foto di James Harris
Courtesy by Royal Academy of Arts
Testo di Matteo Vercelloni