Progettazione e social media. Siamo connessi ventiquattro ore su ventiquattro attraverso internet e i social media. Ciò influenza la nostra relazione con gli oggetti e le dinamiche delle filiere produttive. Ma non sono tanto i prodotti a essere rivoluzionati, quanto l’esperienza con questi e il coinvolgimento dell’utente. Ne parliamo con Stefano Mirti, docente di design e architettura a mezzo dei nuovi media e consulente strategico per gli ambiti web, digital e social.
Negli ultimi anni abbiamo assistito a un aumento esponenziale delle reti e dei social media. Che tipo di influenza hanno avuto sul linguaggio e la pratica del design di prodotto?
Intere filiere produttive sono state stravolte, basti pensare alla musica o fenomeni quali Amazon o Airbnb. La rivoluzione procede in maniera inarrestabile. Ma da questo punto di vista, il design di prodotto non è in prima linea. I casi più interessanti sono quelli in cui si usano i nuovi media per sostenere ed espandere modalità produttive tradizionali. La Lego, per esempio, ha superato la crisi con una strategia imperniata sul web e poi sui sistemi relazionali delle community social. Tuttavia, questo intelligente uso del digitale serve a continuare a vendere gli stessi mattoncini di plastica.
Sul design di prodotto i cambiamenti in atto generano fenomeni di nicchia, come start-up che lanciano merci usando piattaforme di crowdfunding o multinazionali che consentono di personalizzare gli oggetti acquistati, la Nike per tutti. Ma in termini assoluti, usiamo i fatturati come parametro di riferimento, si tratta di fenomeni che erano marginali dieci anni fa come oggi.
I cambiamenti sono riferiti più all’espandersi delle possibilità. Se sono a Milano, posso comprare su Amazon Prime e ricevere l’acquisto in un’ora. Ikea mi consente di progettare tutta la casa da solo grazie a un’interfaccia molto semplice. Lulu può farmi stampare un libro con infinite possibilità di scelta (formati, rilegature, numero di copie, ecc.). Nel consumatore si forma l’idea che è possibile avere tutto. A un costo basso e in tempi brevissimi. Senza dover uscire da casa.
Sono nati nuovi linguaggi espressivi?
Facebook e Instagram stanno ridefinendo il nostro immaginario visivo. La rivoluzione è così forte che non ce ne rendiamo conto. Se la nostra fruizione di immagini è veicolata da Instagram, il nostro immaginario sarà diverso da quello che veniva definito dalla rivista illustrata degli anni Sessanta del secolo scorso. Quando Garage Italia lancia la 500 Star Wars, fa partire un fenomeno di viralità social molto forte con l’obiettivo non di vendere l’auto, quanto di generare ‘brand awareness’ per la 500 e per Garage Italia.
Come cambia la relazione tra oggetto, utente ed esperienza nella progettazione 2.0?
La relazione viene stravolta. Nel mondo dei social the community is the message. I progettisti e produttori che non sono in grado di dialogare con gli utenti non riescono a stare al passo con le nuove richieste di valore simbolico.
Nella fase attuale ci troviamo di fronte a un vecchio sistema composto, per esempio, di industrie basate su infrastrutture, impianti produttivi e pratiche burocratico-finanziarie, e a un ‘nuovo’ corrispondente ad ambienti iperdigitalizzati, smartphone costantemente collegati a sensori e app. Quali scenari per il futuro del design di prodotto?
Il nuovo non cancella il vecchio e neppure lo rende obsoleto, semplicemente definisce un nuovo livello. La sfida non è quella di progettare il divano del futuro fatto di sensori e telecomandi, ma di continuare a progettare un divano usando al meglio la forza dei media digitali per coinvolgere gli utenti nelle diverse fasi di progettazione, commercializzazione e marketing dello stesso. Usare i nuovi media per continuare a produrre un design di prodotto senza tempo. È una sfida ineludibile.
Open design
È in atto una nuova rivoluzione industriale legata alle tecnologie di fabbricazione digitale che porta le comunità di designer nel mondo, connessi grazie alla rete e i social network, a sviluppare una nuova pratica di fare design. È la progettazione condivisa dell’Open Design, di cui chiediamo spiegazioni a Serena Cangiano, ricercatrice del laboratorio di cultura visiva al SUPSI di Lugano (Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana) e autrice di una ricerca sul tema in prossima pubblicazione.
Che cos’è l’Open design, quando è stato definito e a quando risalgono i primi casi?
Open Design è un progetto digitale di prodotti di design la cui documentazione sorgente è resa pubblicamente disponibile in modo che chiunque possa studiare, modificare, distribuire, prototipare, fare e vendere un artefatto sulla base di quella documentazione. Nasce dalla definizione di Open Source elaborata da Bruce Perens agli inizi degli anni Novanta che riguarda non solo l’accesso al codice sorgente di un software, ma una serie di criteri che specificano cosa è possibile o non è possibile fare con il codice distribuito sulla rete.
L’Open Design traduce i principi dell’Open Source Software al mondo degli oggetti fisici: è una traduzione iniziata dalla comunità dell’open hardware, poi assorbita dal design di prodotto e dall’architettura. Tra i pionieri dell’Open Design citerei Ronen Kadushin, designer israeliano, che nel 2005 ha iniziato ad applicare modelli open source alle sue creazioni di design.
Più indietro nel tempo troviamo il progetto Dom-ino, in cui Le Corbusier propone un sistema di arredo aperto, una piattaforma in cui sono gli utilizzatori a completare e co-creare. In seguito abbiamo la “Proposta per un’autoprogettazione” di Enzo Mari del 1973 e il libro Nomadic Furniture di Victor Papanek del 1972, un catalogo di soluzioni di arredo, le cui specifiche sono rese accessibili per favorirne la costruzione da parte delle persone. Ma la riproducibilità condivisa era ancora un assunto teorico e politico, mancava internet a concretizzare il concetto.
Si tratta di un design senza designer ove scompare il concetto di autorialità?
Al contrario, ritengo che non ci sia un altro momento in cui l’autorialità del designer sia tanto rafforzata. Fino a ora siamo stati abituati a parlare di design con il nome delle grandi aziende o delle design star. Nel contesto dell’Open Design, tutti i progettisti hanno la possibilità di far conoscere le proprie soluzioni senza dover passare dal sistema della manifattura industriale e su larga scala.
Fare Open Design non vuol dire perdere il controllo del proprio progetto, ma decidere consapevolmente le modalità di interazione con una comunità: si può rilasciare il file sorgente come un modello 3D o definire uno strumento di co-progettazione parametrica che permetta ad altri di generare le varianti di quel modello. Chi opera nell’Open Design, inoltre, usa piattaforme che permettono di visualizzare l’evoluzione del proprio progetto e i contributi della comunità.
Chi opera nell’Open Design sa di avere accesso a librerie di soluzioni che può riutilizzare senza chiedere il permesso. E dunque “permette di non progettare le cose due volte”, come dice Alastair Parvin, uno dei fondatori di WikiHouse, e di focalizzare l’attività progettuale sulla creazione di sistemi anziché sull’implementazione di soluzioni funzionali o di puro stile. Questa prospettiva impedisce che il contributo del design ai ‘Commons’ sia qualcosa di autoreferenziale, mentre la condivisione di risorse progettuali stimola la pratica del design e il rafforzamento della comunità dei designer.
Licenze Creative Commons: che cosa sono e come funzionano?
Internet è un luogo selvaggio per i contenuti creativi. Le licenze Creative Commons nascono in risposta alla digitalizzazione di contenuti e alla loro distribuzione sulla rete, offrendo delle soluzioni legali che definiscono il permesso al riutilizzo di una risorsa nel rispetto del diritto d’autore. Non sono però da considerare alternative al sistema dei diritti del design. Nuovi protocolli cercano di integrare il diritto di autore in Licenze CC+, includendo permessi che specifichino cosa è o non è possibile fare con un artefatto di design open source. Se le licenze Creative Commons permettano di proteggere la creazione di un designer oppure no è un tema aperto, ma chiudere il progetto in un brevetto non è una risposta a questo dubbio.
Che ruolo hanno i social network nello sviluppo della pratica dell’Open Design?
Interagire con la comunità online è una delle attività principali di chi sviluppa un progetto open source: gli ideatori sono anche i moderatori delle interazioni tra i gruppi di persone in rete. I social network sono anche gli strumenti per connettere gli attori di una futura catena manifatturiera o per trovare le competenze necessarie per realizzare un prodotto. L’Open Design vive del concetto stesso di messa in rete di conoscenze, e i social network aiutano a connettere a vari livelli chi è interessato a un prodotto.
Quali sono le opportunità commerciali e il nuovo modello di business dell’Open Design?
Il modello di produzione di massa è in crisi. E le opportunità offerte dalle tecnologie di manifattura digitalizzata sono sotto gli occhi di tutti, con la relativa possibilità di una produzione customizzata e on-demand. Riguardo al business, ancora si fatica a capire se ci sono i numeri giusti per passare da progetti manifesto a nuove fabbriche di design collaborativo. Il panorama attuale fa intravedere alternative interessanti come, per esempio, il progetto Open Desk. Nell’Open Design non c’è una killer application, una tecnologia vincente per penetrare il mercato, ma è la logica open source che consente di prototipare e testare i modelli di business.
Testo di Valentina Croci