foto di Roland Halbe
testo di Alessandro Rocca
Costruita su un’isola al centro di un piccolo specchio d’acqua, la OCT Clubhouse di Shenzhen è composta da due edifici: il maggiore, il Cultural and Entertainment Center, ospita un ristorante, sale da pranzo riservate, un’area polifunzionale, spazi relax e una piccola galleria per esposizioni.
Nell’edificio minore, separato e collegato con un percorso esterno che attraversa un giardino, si trova il Fitness Center con la piscina coperta. Il progetto è un sapiente assemblaggio di frammenti architettonici tipici dell’architettura di Richard Meier, una specie di piccola villa Adriana (in questo caso però l’imperatore non è il committente ma il progettista) dove Meier passa in rassegna scorci, frammenti e dettagli della propria architettura e li ricombina in un nuovo collage. Questo tipo di progettazione è frequente negli architetti di grande esperienza che amano attingere al proprio repertorio, ma nel lavoro di Meier queste ripetizioni non derivano da stanchezza o utilitarismo perché sono programmatiche, sono azioni che mirano a fissare uno stile che vuole avere il massimo di evidenza e di riconoscibilità. Per esempio, Meier dichiara che “la OCT Clubhouse riflette un design unico in cui la disposizione delle masse, la cura dei raccordi e l’armonia delle proporzioni evocano le linee guida del nostro studio”. Quindi, l’obiettivo del progetto è di interpretare il Meier-pensiero per realizzare un edificio che sia una Meier-architettura al cento per cento. D’altronde, Meier ha attraversato i suoi cinquant’anni di carriera mantenendo un’incredibile fiducia nel proprio stile. Ha scelto fin dall’inizio di ripercorrere le orme del modernismo, dell’architettura bianca degli anni Venti e Trenta e di Le Corbusier, e ha incominciato con le raffinate ville degli Hamptons, a Long Island, che innestavano il gusto citazionista sul glamour della località balneare più esclusiva dell’East Coast. Negli anni Settanta, Meier è riconosciuto, con Peter Eisenman, Michael Graves, Charles Gwathmey e John Hejduk, come membro dei Five architects, l’elitaria squadra formata dagli esponenti più sofisticati della scena newyorchese. Ma di lì a poco le strade dei Five si separano e Meier imbocca una fortunata carriera di progettista internazionale. Arrivano incarichi importanti in Europa, si parte con il Museo delle Arti Applicate di Francoforte (1992) per continuare con la sede di Canal Plus a Parigi (1995) e il museo d’arte contemporanea di Barcellona (1995). Da queste prove nasce un altro Richard Meier che gradualmente abbandona il culto lecorbusiano, vedi per esempio le rampe dei musei di Francoforte e Barcellona, e definisce un nuovo profilo soprattutto attraverso l’esperienza del suo progetto più importante, il Getty Center di Los Angeles (1997). Alcuni dei suoi interventi italiani, la chiesa di Tor Tre Teste a Roma (1993), la sistemazione dell’Ara Pacis (2006) e la sede Italcementi a Bergamo (2012), ampliano in maniera importante il registro di uno stile sempre più efficace. Il progetto di Shenzhen è un ottimo esempio di questo Meier ultimo: assolata al centro di uno specchio d’acqua, la Clubhouse è una composizione ampia e serena, con un abile bilanciamento dinamico dei volumi sospeso in un equilibrio instabile, che cambia a seconda del punto di vista, della luce naturale e degli effetti di riflessione sull’acqua. E un ulteriore livello di leggerezza lo raggiunge con i suoi classici telai svuotati, le pareti traforate e l’uso pervasivo del bianco, il Total White che, compreso il candore dei capelli e della camicia, è parte rilevante della sua griffe. Nella Clubhouse hanno un ruolo importante anche gli elementi che potremmo definire paesaggistici, cioè che provocano una risonanza tra gli edifici e lo spazio che li circonda, vedi la parete inclinata che termina l’emiciclo del Cultural and Entertainment Center la lama orizzontale che copre il Fitness Center, e l’eco architettonico che rimbalza tra un edificio e l’altro.